Corriere della Sera - La Lettura
Canzoni e canzonette: la regola di Fanny Ardant
Ascoltiamo Zarrillo, rileggiamo le parole di Giorgio Manganelli sulla «volgarità sentimentale» o ci accorgiamo che sappiamo a memoria centinaia di testi. Ha ragione l’attrice: quei brani «dicono la verità, più sono stupidi e più sono veri»
Morale Le canzoni non si possono raccontare. Puoi ascoltarle, ma se provi a raccontarle non funziona. Se si racconta, che so, «Margherita» di Riccardo Cocciante, si cade in trappola
Sono stato a una specie di festa, qualche sera fa. Mettevano musica sofisticata, e poi a un certo punto, non so perché, è partita Cinque giorni di Michele Zarrillo («Cinque giorni che ti ho perso, quanto freddo in questa vita, ma tu non mi hai cercato più»). Un’amica seduta accanto a me, con in una mano la birra e nell’altra la sigaretta, si è messa a cantare e poi mi ha detto: «La musica è la cosa più bella che c’è». Un po’ voleva dirmi, credo, che è meglio la musica della letteratura (forse lo diceva per dispetto), un po’ era un modo per non dire che voleva dire altro, perché quando mi sono voltato, piangeva. Non mi imbarazzava affatto. Perché veniva da piangere anche a me mentre Zarrillo urlava «Amore mio come farò a continuare a vivere». Non so, mi è sembrato di capire cosa voleva dire — parlo della mia amica, ma in fondo anche di Zarrillo. Perché penso sempre che vorrei scrivere le parole di una canzonetta scema, casomai per il Festival di Sanremo, e poi sentirla canticchiare sull’autobus o sorprendere due ragazzini che si guardano negli occhi mentre la ascoltano. Ecco cosa voleva dire la mia amica, mi pare: una canzone (ma Cinque giorni è una specie di capolavoro, secondo me) apre tutte le porte dell’emotività. Perché si porta dietro una corrispondenza elementare con la vita, rievoca anche un periodo preciso e ti riporta là come un allucinogeno. Perché dice insieme a te non ci sto più, che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va, amami o faccio un casino, considerare che sei la ragione per cui io vivo, ma non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso, la prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tuo sorriso giovane sei tu, se stasera sono qui è perché ti voglio bene, mi sei scoppiato dentro al cuore all’improvviso, tra le mie braccia dormirai serenamente…
E ogni tanto penso, quando qualcuno prende la chitarra, a quanto sia spaventoso il fatto che io conosca tutte le canzoni a memoria, me le ricordi tutte; il mio cervello è intasato da testi di parolieri importanti o improbabili, da ritornelli che mi riportano a qualche momento decisivo o che poteva essere decisivo o che è volato via nel niente della mia vita, e quindi le canzoni sono non solo un blocco compatto che occupa uno spazio gigantesco nella mia memoria, ma in più servono da link per arrivare a illuminare tutta una serie di momenti della vita che forse sarebbe il caso di dimenticare. Perché come le canzoni preferiscono cantare i momenti tragici di un amore (quelle che inneggiano alla felicità d’amore sono molte di meno), così, di conseguenza, i ricordi legati alle canzoni sono perlopiù tristi. O felici, però non ci sono più.
Non è vero quello che Mietta cantava al suo esordio a Sanremo: «Quello che capita nelle canzoni non può succedere in nessun posto del mondo» — è esattamente il contrario. Lo diceva Fanny Ardant ne La signora della porta accanto: «Ascolto solo canzoni perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. E poi non sono stupide, che dicono... dicono: non devi lasciarmi, senza di te in me non c’è vita…».
È questo che succede in tutti i posti del mondo.
Le canzoni non si possono raccontare. Puoi ascoltarle, ma se provi a raccontarle non funziona. Se uno prova a raccontare, che so, Margherita di Riccardo Cocciante, cade in una trappola. È la canzone di uno che, poiché è innamorato di Margherita che però sta dormendo e non bisogna svegliarla, si agita, vorrebbe farle cantare le canzoni che ha imparato ma non può, evidentemente ha già fatto esperienza del fatto che Margherita è bella e cara ma se provi a svegliarla diventa una belva. Così lui non riesce a riposare, e decide che domani, al risveglio, le vuole fare una sorpresa. Esce, ormai in preda a quella esaltazione tipica e insopportabile di chi ama, e va a svegliare tutti gli amanti e comincia a parlare per ore e ore: dice che tutti gli amanti si devono abbracciare più forte perché Margherita vuole l’amore. E poi chiede di colorare tutti i muri (e le case i vicoli e i palazzi) con dei secchi di vernice, perché lei ama i colori, e di raccogliere tutti i fiori, e tutto questo perché si presume (lui almeno così sostiene) che lo voglia Margherita.
Ci sono gli estremi per l’arresto: schiamazzi notturni (sveglia tutti gli amanti e parla per ore e ore) e atti di vandalismo puro (imbrattare case e muri della città e strappare tutti i fiori) con conseguenze serie per il comune (riverniciatura delle facciate e ricostruzione delle aiuole) che coinvolgeranno con l’aumento delle tasse comunali l’intera popolazione, e tutto per un cretino che fa tutto questo perché Margherita è buona, perché Margherita è bella, è dolce, è vera, perché Margherita è tutto ed è lei la sua follia.
A me questa storia del senso delle canzoni è successa con L’astronave di Sergio Caputo. Una ragazza me la dedicava ogni volta, e mi guardava con sguardo intenso e ammiccante. E ancora adesso, se ascolto L’astronave, mi ricordo di quella ragazza che mi chiedeva se l’avevo ascoltata bene e se l’avevo capita. E io dicevo sì. Ma non riuscivo a capire il testo e quindi figuriamoci il motivo per cui quella canzone era significativa per noi due. E ancora oggi, dopo tanti anni, finisco per tenermi le frasi di quella canzone nella testa e cerco di sviscerarle, alle volte mi sembra di essere vicino all’aver capito e poi invece no. E non saprò mai perché quella era la nostra canzone.
Giorgio Manganelli disse: «La musica è importante per noi perché ci dà modo di esprimere tutta la nostra volgarità sentimentale». Lo diceva probabilmente pensando soprattutto alle canzonette, come si chiamavano fino a poco tempo fa i brani che non avevano il timbro dell’impegno cantautoriale. Quando le distinzioni erano più ostinate, quando appunto non c’era una delle invenzioni più straordinarie dell’umanità: la modalità «casuale» negli strumenti portatili, che ti permette di non avere idea di cosa ascolterai dopo, che ti permette di mischiare tutto, e rende la tua personale volgarità sentimentale al massimo grado, o meglio, al minimo grado. Ti fa diventare un ascoltatore basico, e potresti dire, come Marilyn in Quando la moglie è in vacanza: «Questa la chiamano musica classica vero?». «Sì». «L’ho capito perché non cantano». La «volgarità sentimentale» è la formula giusta. Fa comprendere il senso dell’immediatezza — cioè qualcosa di non mediato dalla costruzione di un racconto. Sennò Margherita non la canteremmo strillando esaltati e commossi. Ed è anche una formula perfetta per spiegare un diritto dell’ascoltatore, dello spettatore, del lettore.
Perché chi scrive libri alle volte non riesce a comprendere le scelte di un lettore. Chi fa film non riesce a comprendere le scelte di uno spettatore. E chi fa musica evidentemente non comprende certe commozioni irresistibili di un ascoltatore quando sente Sempre di Lisa (non Elisa, Lisa: «Quante cose sei questa sera tu che sei lontano e non mi pensi più»).
È giusto così. Ognuno, nel proprio campo, è profondo, esigente e sofisticato. Tutti gli altri hanno il diritto di non esserlo. Ma quello che intendo dire è che, con l’aiuto di Manganelli, si può concludere che tutti i fruitori hanno pari diritto alla volgarità sentimentale, ma i fruitori di musica hanno più diritto degli altri. Per questo uno scrittore diceva del suo lavoro: «Vorrei che fosse ricordato come una lunga, ininterrotta canzonetta». Per questo un regista diceva: «Un camionista dell’Alabama, che si presume abbia opinioni piuttosto limitate su qualsiasi altro argomento, è in grado di ascoltare un disco dei Beatles allo stesso livello di comprensione e percezione di un giovane intellettuale di Cambridge, perché le loro emozioni e il loro subconscio sono molto più simili del loro intelletto. E penso che un film che riesce a comunicare a quel livello possa avere uno spettro di impatto molto più profondo di qualsiasi forma di comunicazione verbale tradizionale».
Quindi si può concludere che aspirano tutti alla volgarità sentimentale: anche Céline, anche Kubrick. E Kubrick parlava dei Beatles, non di Umberto Tozzi. Però se uno non comprende l’assoluta verità di questa affermazione, «Gli altri siamo noi», nemmeno può pensare di essere stato capace di stare al mondo.