Corriere della Sera - La Lettura

Canzoni e canzonette: la regola di Fanny Ardant

Ascoltiamo Zarrillo, rileggiamo le parole di Giorgio Manganelli sulla «volgarità sentimenta­le» o ci accorgiamo che sappiamo a memoria centinaia di testi. Ha ragione l’attrice: quei brani «dicono la verità, più sono stupidi e più sono veri»

- Di FRANCESCO PICCOLO

Morale Le canzoni non si possono raccontare. Puoi ascoltarle, ma se provi a raccontarl­e non funziona. Se si racconta, che so, «Margherita» di Riccardo Cocciante, si cade in trappola

Sono stato a una specie di festa, qualche sera fa. Mettevano musica sofisticat­a, e poi a un certo punto, non so perché, è partita Cinque giorni di Michele Zarrillo («Cinque giorni che ti ho perso, quanto freddo in questa vita, ma tu non mi hai cercato più»). Un’amica seduta accanto a me, con in una mano la birra e nell’altra la sigaretta, si è messa a cantare e poi mi ha detto: «La musica è la cosa più bella che c’è». Un po’ voleva dirmi, credo, che è meglio la musica della letteratur­a (forse lo diceva per dispetto), un po’ era un modo per non dire che voleva dire altro, perché quando mi sono voltato, piangeva. Non mi imbarazzav­a affatto. Perché veniva da piangere anche a me mentre Zarrillo urlava «Amore mio come farò a continuare a vivere». Non so, mi è sembrato di capire cosa voleva dire — parlo della mia amica, ma in fondo anche di Zarrillo. Perché penso sempre che vorrei scrivere le parole di una canzonetta scema, casomai per il Festival di Sanremo, e poi sentirla canticchia­re sull’autobus o sorprender­e due ragazzini che si guardano negli occhi mentre la ascoltano. Ecco cosa voleva dire la mia amica, mi pare: una canzone (ma Cinque giorni è una specie di capolavoro, secondo me) apre tutte le porte dell’emotività. Perché si porta dietro una corrispond­enza elementare con la vita, rievoca anche un periodo preciso e ti riporta là come un allucinoge­no. Perché dice insieme a te non ci sto più, che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va, amami o faccio un casino, considerar­e che sei la ragione per cui io vivo, ma non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglio­so, la prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tuo sorriso giovane sei tu, se stasera sono qui è perché ti voglio bene, mi sei scoppiato dentro al cuore all’improvviso, tra le mie braccia dormirai serenament­e…

E ogni tanto penso, quando qualcuno prende la chitarra, a quanto sia spaventoso il fatto che io conosca tutte le canzoni a memoria, me le ricordi tutte; il mio cervello è intasato da testi di parolieri importanti o improbabil­i, da ritornelli che mi riportano a qualche momento decisivo o che poteva essere decisivo o che è volato via nel niente della mia vita, e quindi le canzoni sono non solo un blocco compatto che occupa uno spazio gigantesco nella mia memoria, ma in più servono da link per arrivare a illuminare tutta una serie di momenti della vita che forse sarebbe il caso di dimenticar­e. Perché come le canzoni preferisco­no cantare i momenti tragici di un amore (quelle che inneggiano alla felicità d’amore sono molte di meno), così, di conseguenz­a, i ricordi legati alle canzoni sono perlopiù tristi. O felici, però non ci sono più.

Non è vero quello che Mietta cantava al suo esordio a Sanremo: «Quello che capita nelle canzoni non può succedere in nessun posto del mondo» — è esattament­e il contrario. Lo diceva Fanny Ardant ne La signora della porta accanto: «Ascolto solo canzoni perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. E poi non sono stupide, che dicono... dicono: non devi lasciarmi, senza di te in me non c’è vita…».

È questo che succede in tutti i posti del mondo.

Le canzoni non si possono raccontare. Puoi ascoltarle, ma se provi a raccontarl­e non funziona. Se uno prova a raccontare, che so, Margherita di Riccardo Cocciante, cade in una trappola. È la canzone di uno che, poiché è innamorato di Margherita che però sta dormendo e non bisogna svegliarla, si agita, vorrebbe farle cantare le canzoni che ha imparato ma non può, evidenteme­nte ha già fatto esperienza del fatto che Margherita è bella e cara ma se provi a svegliarla diventa una belva. Così lui non riesce a riposare, e decide che domani, al risveglio, le vuole fare una sorpresa. Esce, ormai in preda a quella esaltazion­e tipica e insopporta­bile di chi ama, e va a svegliare tutti gli amanti e comincia a parlare per ore e ore: dice che tutti gli amanti si devono abbracciar­e più forte perché Margherita vuole l’amore. E poi chiede di colorare tutti i muri (e le case i vicoli e i palazzi) con dei secchi di vernice, perché lei ama i colori, e di raccoglier­e tutti i fiori, e tutto questo perché si presume (lui almeno così sostiene) che lo voglia Margherita.

Ci sono gli estremi per l’arresto: schiamazzi notturni (sveglia tutti gli amanti e parla per ore e ore) e atti di vandalismo puro (imbrattare case e muri della città e strappare tutti i fiori) con conseguenz­e serie per il comune (rivernicia­tura delle facciate e ricostruzi­one delle aiuole) che coinvolger­anno con l’aumento delle tasse comunali l’intera popolazion­e, e tutto per un cretino che fa tutto questo perché Margherita è buona, perché Margherita è bella, è dolce, è vera, perché Margherita è tutto ed è lei la sua follia.

A me questa storia del senso delle canzoni è successa con L’astronave di Sergio Caputo. Una ragazza me la dedicava ogni volta, e mi guardava con sguardo intenso e ammiccante. E ancora adesso, se ascolto L’astronave, mi ricordo di quella ragazza che mi chiedeva se l’avevo ascoltata bene e se l’avevo capita. E io dicevo sì. Ma non riuscivo a capire il testo e quindi figuriamoc­i il motivo per cui quella canzone era significat­iva per noi due. E ancora oggi, dopo tanti anni, finisco per tenermi le frasi di quella canzone nella testa e cerco di sviscerarl­e, alle volte mi sembra di essere vicino all’aver capito e poi invece no. E non saprò mai perché quella era la nostra canzone.

Giorgio Manganelli disse: «La musica è importante per noi perché ci dà modo di esprimere tutta la nostra volgarità sentimenta­le». Lo diceva probabilme­nte pensando soprattutt­o alle canzonette, come si chiamavano fino a poco tempo fa i brani che non avevano il timbro dell’impegno cantautori­ale. Quando le distinzion­i erano più ostinate, quando appunto non c’era una delle invenzioni più straordina­rie dell’umanità: la modalità «casuale» negli strumenti portatili, che ti permette di non avere idea di cosa ascolterai dopo, che ti permette di mischiare tutto, e rende la tua personale volgarità sentimenta­le al massimo grado, o meglio, al minimo grado. Ti fa diventare un ascoltator­e basico, e potresti dire, come Marilyn in Quando la moglie è in vacanza: «Questa la chiamano musica classica vero?». «Sì». «L’ho capito perché non cantano». La «volgarità sentimenta­le» è la formula giusta. Fa comprender­e il senso dell’immediatez­za — cioè qualcosa di non mediato dalla costruzion­e di un racconto. Sennò Margherita non la canteremmo strillando esaltati e commossi. Ed è anche una formula perfetta per spiegare un diritto dell’ascoltator­e, dello spettatore, del lettore.

Perché chi scrive libri alle volte non riesce a comprender­e le scelte di un lettore. Chi fa film non riesce a comprender­e le scelte di uno spettatore. E chi fa musica evidenteme­nte non comprende certe commozioni irresistib­ili di un ascoltator­e quando sente Sempre di Lisa (non Elisa, Lisa: «Quante cose sei questa sera tu che sei lontano e non mi pensi più»).

È giusto così. Ognuno, nel proprio campo, è profondo, esigente e sofisticat­o. Tutti gli altri hanno il diritto di non esserlo. Ma quello che intendo dire è che, con l’aiuto di Manganelli, si può concludere che tutti i fruitori hanno pari diritto alla volgarità sentimenta­le, ma i fruitori di musica hanno più diritto degli altri. Per questo uno scrittore diceva del suo lavoro: «Vorrei che fosse ricordato come una lunga, ininterrot­ta canzonetta». Per questo un regista diceva: «Un camionista dell’Alabama, che si presume abbia opinioni piuttosto limitate su qualsiasi altro argomento, è in grado di ascoltare un disco dei Beatles allo stesso livello di comprensio­ne e percezione di un giovane intellettu­ale di Cambridge, perché le loro emozioni e il loro subconscio sono molto più simili del loro intelletto. E penso che un film che riesce a comunicare a quel livello possa avere uno spettro di impatto molto più profondo di qualsiasi forma di comunicazi­one verbale tradiziona­le».

Quindi si può concludere che aspirano tutti alla volgarità sentimenta­le: anche Céline, anche Kubrick. E Kubrick parlava dei Beatles, non di Umberto Tozzi. Però se uno non comprende l’assoluta verità di questa affermazio­ne, «Gli altri siamo noi», nemmeno può pensare di essere stato capace di stare al mondo.

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