Corriere della Sera - La Lettura
Il tradimento degli oggetti
Uno è lì che armeggia con la maschera subacquea del figlio, ci sputa dentro, la spanna con il dito, e mentre impreca non può non pensare che ci sono cose che sono rimaste identiche, fastidiosamente identiche, per troppo tempo. Come anche la cernieralampo, che ha gli stessi difetti di quando si era piccoli. E poi ci sono i caduti del progresso, come la radio
Mio figlio protesta: la maschera è tutta appannata, e fa entrare l’acqua. Cerco di convincerlo a lasciar perdere ma lui non molla, esige. Gli ho regalato la maschera — maledetto me — e lui ora vuole usarla. Eccomi dunque costretto a ripetere gli stessi inutili gesti sempre ripetuti, estate dopo estate, nel corso di tutta la mia intera vita, e prima di me da mio padre: sputare all’interno della maschera, spannare il vetro col dito, stringere il fragilissimo elastico roso dalla salsedine, non riuscire a regolarlo come si deve, tirare i capelli a mio figlio mentre cerco di infilargliela — troppo stretta, adesso — e imprecare. È incredibile — è questo che mi manda al manicomio —, hanno clonato le pecore, sconfitto la poliomielite e il vaiolo, sono andati sulla Luna, hanno inventato internet, la realtà virtuale, il touch screen, lo smartphone, il wifi, il 3G, il 4G, la pay-tv, il televisore ultrapiatto, il navigatore satellitare, il cd, il dvd, lo streaming, i droni, il fottuto forno a microonde: possibile che le maschere da sub siano rimaste ferme a mezzo secolo fa?
Eppure è così. La maschera, quella che si compra d’estate per fare snorkeling (hanno inventato anche questa parola piuttosto impegnativa, per indicare quelli che guardano sott’acqua restando in superficie), quell’oggetto è rimasto esattamente com’era cinquant’anni orsono. Chissà perché. Provo a pensare ad altri oggetti così, che siano rimasti uguali, con la stessa forma, gli stessi limiti, gli stessi difetti che avevano quando sono nati: sono pochissimi. Mi viene in mente la cerniera-lampo. Anche con la cerniera-lampo i problemi sono gli stessi di quando ero bambino: si scuce, s’inceppa perché un lembo di stoffa s’infila nel come si chiama, s’inceppa perché si storce un dentino, si apre subito dopo essersi chiusa… Da quando è stata inventata la popolazione mondiale è raddoppiata, sono morti otto papi, uno si è dimesso, ma lei è rimasta uguale. È straordinario.
Un’altra cosa che è rimasta immutata, penso, è il tempo di volo nelle rotte transoceaniche: otto ore e mezzo ci volevano da Roma a New York negli anni Sessanta, otto ore e mezzo ci vogliono oggi — ma qui subentrano le famigerate ragioni economiche. Andare più veloce si potrebbe, dicono, ma costerebbe troppo, dicono, e sarebbe comunque questione di un paio d’ore di risparmio, dicono, non di più: i tentativi di abbattere davvero i tempi di volo, dall’aereo stratosferico al Concorde, sono tutti falliti.
Saranno pure falliti, penso mentre continuo ad aggeggiare con la maschera di mio figlio, ma almeno ci sono stati. Con questo oggetto, invece, pare che l’umanità si sia messa d’accordo una volta per tutte, secondo una filosofia del tutto antievolutiva basata sull’ac- contentarsi, sul tollerare i difetti, di pura conservazione — che poi, alla fin fine, è una conservazione di forma. E penso agli oggetti che l’hanno addirittura persa, la propria forma, nelle accelerazioni dell’innovazione tecnologica. I caduti del progresso — come la radio.
Ora la radio è una pura funzione, spesso accessoria, attivabile con un clic o uno struscio di dita su un altro oggetto più complesso — televisore, telefonino, computer — ma un secolo fa era un mobile voluminoso, prezioso e venerato, un totem delle case borghesi, attorno al quale si riunivano le famiglie. Da allora in poi, a mano a mano che la tecnologia di trasmissione e ricezione si affinava, passando dalla radio a valvole a quella a transistor, i costi sono crollati, le dimensioni si sono ridotte, la radio su scala industriale ha conosciuto la propria età dell’oro e sugli apparecchi si è giocata la fantastica partita del grande design: la Braun G 11 e tutti gli altri modelli disegnati da Dieter Rams, il Cubo di Zanuso — una quantità di veri capolavori. E però, continuando la tecnologia a rimpicciolirne le componenti, è stato proprio il design a spingerla verso il suo attuale status di non-oggetto, cominciando a inglobarla negli spettacolari impianti compatti — giradischi, registratore a cassette e, appunto, apparecchio radio — messi in produzione a partire dagli anni Sessanta. Da lì, da quello splendore, al nulla che adesso circonda il segnale delle radio digitali, il passo è stato tragicamente breve, e oggi è già abbastanza eroico chi seguita ad ascoltarla, la radio, senza più poter pretendere che esista anche come oggetto: c’è il mercato del vintage, se proprio vuole, c’è il modernariato.
E che dire di quegli oggetti che, pur concepiti e diffusamente raccontati, non sono mai nati? Per un moderato lettore di fantascienza come me la parola giusta per indicare il rapporto tra ciò che si è stati spinti a desiderare e ciò che è stato effettivamente realizzato è «tradimento». Non dico le macchine del tempo, non dico il teletrasporto; ma dove sono, per
dire, le strade mobili di Heinlein? Sembrava così ragionevole che fossero le strade a muoversi, con attaccati i marciapiedi, i ristoranti, le banche e le città intere, mentre gli uomini restavano fermi nella natura incontaminata: perché non ci hanno nemmeno provato, a realizzarle? E perché, pur sviluppando un modello basato su una sempre più folle necessità di spostamento dei singoli individui, la nostra civiltà è rimasta per tutto questo tempo legata allo stesso logoro concetto della macchina col motore a scoppio, quella «stufa con le ruote» che già a metà del secolo scorso, nell’età d’oro della fantascienza, pareva avere i giorni contati? E dov’è lo zainetto coi razzi con cui quel tale col casco fece il suo ingresso nello stadio durante la cerimonia di apertura dell’Olimpiade di Los Angeles? Era il 1984, maledizione: non era forse una promessa, quella? E perché l’ unicoche si sia veramente impegnato per mantenerla, il francese Frankie Zapata, che ha inventato una tavola volante tipo quella cheu sa Gobl incontro Spider man, è stato diffidato dall’ autorità giudiziaria del suo Paese dal proseguire la propria attività di sperimentazione, pena l’arresto e l’incriminazione? Perché nemmeno una petizione da 15 mila firme è bastata per lasciarlo lavorare? Anziché ammaestrare i cani ad andare in skateboard o infilare la testa nelle fauci dei coccodrilli, quest’uomo si è dedicato al compito di darci un oggetto che da quanto l’abbiamo immaginato e desiderato ormai conosciamo benissimo, e noi — i francesi, in questo caso, — lo mettiamo in prigione?
Non c’è da stupirsi di niente, penso, quando si parla del rapporto tra gli uomini e gli oggetti — mentre mio figlio si è messo a sguazzare nel bagnasciuga, del tutto immemore della sua esigenza di 5 minuti fa, lasciandomi a mollo con la maschera in mano e una domanda piantata in testa: e se mi ci mettessi io, a inventare il vetro che non si appanna? Ci riuscirei? Varrebbe la pena? Me lo lascerebbero fare?