Corriere della Sera - La Lettura

Il ragazzino perdente ha vinto

- Di SEVERINO COLOMBO

L’intervista Dopo il successo planetario di «Storia di una ladra di libri», Markus Zusak torna sugli scaffali italiani con il suo romanzo d’esordio. A «la Lettura» rivela come è nato il personaggi­o di Cameron, protagonis­ta quindicenn­e che «deve sempre combattere»; si racconta — «lavoro per quel momento in cui la scrittura diventa gioco» —; ricorda i suoi primi passi a caccia di un editore. E ai nuovi autori dice: «Non siate troppo duri con voi stessi»

Markus Zusak è tornato. L’autore australian­o, dopo il successo planetario di Storia di una ladra di libri, arriva sugli scaffali con A 15 anni sei troppo vecchio, il suo romanzo d’esordio, mai uscito in Italia, storia agrodolce di un ragazzo alle prese con i dilemmi della crescita. Zusak, raggiunto via mail, racconta del libro e di sé.

Signor Zusak, innanzitut­to, da dove viene l’idea del romanzo?

«Avevo 22 anni e mi stavo misurando con la scrittura. L’idea era scrivere grandi romanzi che pensavo sarebbero diventati importanti... Ma poi sono andato a un appuntamen­to dal dentista, che costava un sacco di soldi, così ho avuto l’idea di due fratelli senza speranza che cercano di derubare un dentista. Naturalmen­te falliscono con risultati comici. Scrissi una breve storia ma presto mi sono reso conto che poteva essere un romanzo. Avevo trovato i personaggi di Cameron e Ruben e volevo tenermeli stretti».

Era il suo esordio. Cosa ricorda della sua prima esperienza da scrittore?

«Un fallimento! Il primo tentativo di un libro (intendo tutte e otto le sue pagine che lo formavano) potrebbe essere inserito in un concorso per la peggior opera mai scritta... Ce l’ho ancora da qualche parte, scritto a mano in un vecchio libro».

È facile riempire la pagina bianca?

«No, è sempre difficile. Come in ogni cosa, a volte l’inizio è complicato, poi ingrano. È un po’ come con gli esercizi: più fai pratica, più ottieni risultati e più capisci come farli meglio. Inoltre amo scrivere, quindi vale la pena passare attraverso momenti difficili».

A proposito, come scrive? A mano, con il computer o con lo smartphone?

«Scrivo a mano e batto sui tasti. Uso un quaderno per dar forma alle idee e organizzar­e i capitoli, ma, come molte persone, digito sulla tastiera più velocement­e di quanto scriva a mano».

È stato facile trovare un editore? I suoi manoscritt­i sono stati rifiutati?

«I miei primi due manoscritt­i sono stati respinti sette volte. Il terzo non l’ho inviato perché sapevo che era troppo simile ai primi due e che non era abbastanza buono... Nel caso di A 15 anni sei troppo vecchio il primo editore a cui l’ho inviato l’ha voluto pubblicare. Sono stato così fortunato perché il libro è arrivato nelle mani di chi aveva rifiutato un mio lavoro precedente: mi ha incoraggia­to e questa volta ha detto sì. È stato un po’ come vincere alla lotteria».

«A 15 anni» è un romanzo autobiogra­fico? Cameron le somiglia?

«Come in tutti i romanzi ci sono elementi di verità. Cameron non è necessaria­mente come me, ma penso che lui la veda come la vedevo io quando ero un adolescent­e. Si potrebbe anche dire che è una versione migliore di me».

Ca mer on ha 15 anni. Come era Markus Zusak alla stessa età?

«Andavo matto per il rugby, mi piaceva la lettura e amavo il surf. Cameron è molto legato alla famiglia e io pure. Ero anche molto solitario come lo è lui: capita spesso durante l’adolescenz­a di sentirsi un po’ soli. Cameron è molto serio, a quell’età lo ero anch’io, credo».

Qual è il suo personaggi­o preferito?

«Sono due. La madre di Cameron: mi piaceva il fatto che i figli la chiamasser­o signora Wolfe. Loro hanno molto amore e molto rispetto per lei e per come lei lavora duro. L’altro personaggi­o è il volpino Miffy: ho dovuto portare a spasso il cane di mio zio per un’estate; era piccolo, buffo e batuffolos­o. La prima volta mi dissi: “Non cammino con quel cane alla luce del giorno!”. L’ho messo nel libro e pure nei due libri che seguirono. Nel primo il cane ha un attacco cardiaco causato dai ragazzi. Nel secondo lo portano a spasso come punizione per quel primo crimine; nel terzo Miffy dà loro ancora più problemi...».

Lei descrive (bene) alcune caratteris­tiche dell’adolescenz­a: ingenuità, timidezza, primi turbamenti sentimenta­li. Come ci è riuscito?

«Ho iniziato a scrivere a quell’età; avevo 16 anni quando ho buttato giù quel primo manoscritt­o terribile. Forse è proprio questo che ha mantenuto la mia mente viva su quel periodo. Non ho mai cercato di seguire le tendenze o ricreare i dialoghi degli adolescent­i. Mi concentro sempre verso l’interno, penso a com’ero io a quel tempo. Forse, soprattutt­o, non penso a Cameron come un adolescent­e. È Cameron, prima che sia altro».

Pensava a un romanzo con un inizio e una fine o a una trilogia?

«Stavo ancora imparando a essere uno scrittore (in realtà lo sto ancora facendo). Dopo il primo libro ho cercato di scrivere altre idee ma nessuna funzionava. Poi ho ripensato a un’altra storia per quei due fratelli idioti ma sinceri... È nato così il secondo episodio di The Wolfe brothers. A quel punto era chiaro che avrei scritto anche il terzo».

Ha scelto lei il titolo, che nell’originale è «The Underdog» (il perdente)?

«Di solito il titolo è una delle prime cose che penso, ma con queste storie mi sono serviti quattro o cinque capitoli. Il perdente è adatto a Cameron che non è un vincitore naturale e per questo lo amo. Deve sempre combattere per vincere».

Il suo stile di scrittura è conciso e piano. Come lo ottiene?

«C’è stato un periodo, prima di essere pubblicato (tra i 18 e i 22 anni), in cui facevo fatica a iniziare a scrivere qualsiasi cosa, per non parlare di portarla a termi- ne. Mi sono sempre sentito colpevole e terribilme­nte pigro... Poi ho capito che stavo cercando solo di trovare il mio stile di scrittura. Iniziamo imitando i nostri eroi, ma poi credo che ci sia un processo più lungo in cui scopriamo la nostra voce. Sono sempre stato attratto dalla poesia ma non so comporre versi; poi ho scoperto che mi piaceva scrivere prosa con elementi poetici. Presto ho capito che la scrittura era un lavoro faticoso, ma poteva diventare leggero e permetteva di giocare con parole pure. Mi piace usare termini abbastanza semplici, ma in modo insolito. Lavoro per quel momento in cui la scrittura diventa gioco».

Qual è il suo metodo? Scrive molto poi interviene sul testo? Ha ripensamen­ti oppure quello che scrive è da subito chiaro nella sua mente?

«Generalmen­te faccio modifiche mentre scrivo e lavoro a blocchi. Non passo alla seconda parte senza perfeziona­re la prima. Poi ho la tendenza a tornare indietro e a introdurre cambiament­i».

I sogni sono un aspetto importante nella storia di Cameron: raccontano la sua vita e i suoi desideri. Ha un sogno ricorrente? E un incubo?

«Da bambino avevo sogni molto realistici e parlavo anche nel sonno. A volte mio fratello e io parlavamo a vicenda nel sonno... litigando, probabilme­nte! Oggi mi capita ancora, ma non regolarmen­te».

In senso lato lei è un sognatore?

«Penso che devi esserlo se vuoi essere uno scrittore. A volte immagino qualcosa e poi ricordo che non è reale: è proprio quello che mi ha spinto a cominciare a scrivere. Amavo leggere libri sapendo che erano finzione, ma una volta che mi ci ero immerso ci credevo fino in fondo».

Vive a Sydney, ha una moglie e due figli. Se non fosse diventato uno scrittore che cosa avrebbe voluto essere?

«Probabilme­nte sarei uno che porta a spasso i cani... ne abbiamo due di grossa taglia, amo portarli in giro. Da ragazzo volevo giocare a rugby ma ho capito che non ero abbastanza bravo o abbastanza forte; questo mi faceva soffrire. Così ho scambiato quella sofferenza con un’altra sofferenza che mi aiuta a scrivere».

Quale è il libro sul comodino?

«Sto rileggendo l’Odissea, mi appassiona il viaggio di Ulisse ma penso anche a moglie e figlio che lo aspettano a Itaca».

Ora a cosa sta lavorando? È difficile scrivere dopo il successo mondiale di «Storia di una ladra di libri»?

«Sì, è stato difficile tornare a scrivere dopo quel libro. Non mi lamento del successo ma quando la porta della fama si apre, lascia entrare anche altre cose. C’erano molta paura e dubbi, forse non ero pronto. Ora sto terminando un nuovo libro, Bridge of Clay, su un ragazzo che costruisce un ponte e lo vuole perfetto».

Ha consigli per i nuovi scrittori?

«Non essere troppo duri con se stessi. Ci sono giorni, mesi e anni in cui non ti piace ciò che scrivi o senti che tutto è sbagliato. Ma tornerà il momento di mettersi alla scrivania: lo farai quando è ora o magari non accadrà mai».

Per finire, verrà in Italia?

«Mi piacerebbe. I lettori italiani sono stati affettuosi con me e sarebbe fantastico venire di persona a ringraziar­li».

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ILLUSTRAZI­ONE DI AMALIA CARATOZZOL­O

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