Corriere della Sera - La Lettura

Sei casi (irrisolti) per sei sorelle Il secolo lungo delle Mitford

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

Protagonis­te del Novecento, divise tra nazismo e comunismo: Jessica Fellowes spiega perché le ha messe al centro di una serie gialla

«Le Mitford? Se non fossi una di loro mi farebbero ammattire», scriveva Diana in una lettera pubblicata dalla nuora, Charlotte Mosley, nel 2007. Biografie, documentar­i, sceneggiat­i, un musical e perfino un manuale di autoaiuto: The Mitford Girls’ Guide to Life, di Lyndsy Spence (2013). Il culto delle sei sorelle inglesi — Nancy, Pamela, Diana, Unity, Jessica, Deborah —, che qualcuno paragona alle Kardashian, è un’industria fiorentiss­ima, ancora oggi che sono tutte morte. All’ultima Settimana della Moda di Milano, cucito su un pullover di Gucci, è apparso il monito «Mai sposare una Mitford». E ora le scandalose sorelle, testimoni di alcuni tra i più importanti eventi del XX secolo, tornano ne I delitti Mitford, serie di romanzi crime firmata da Jessica Fellowes, nipote di Julian e autrice dei bestseller legati a Downton Abbey. Sei titoli per sei casi irrisolti della storia inglese, il primo dei quali, L’assassinio di Florence Nightingal­e Shore, è in uscita il 16 novembre per Neri Pozza. Ma come si spiega l’ossessione per sei aristocrat­iche di cent’anni fa? È perché, un po’ come le Kardashian, le Mitford erano determinat­e a lasciar traccia del proprio passaggio? Perché una Nancy, brillante dissacratr­ice di costumi e probabilme­nte ispirazion­e per Lady Violet in Downton, si troverebbe a proprio agio su Twitter, come pure la sorella Jessica, giornalist­a d’inchiesta e attivista? «La Lettura» ne ha parlato con l’autrice, che ha già venduto i diritti per una serie tv degli stessi produttori di The Crown. «Le Mitford riassumono il periodo più eccitante, interessan­te e drammatico del secolo scorso, quello tra le due guerre mondiali. Tra parentele e conoscenze vantavano una lista sorprenden­te di amicizie, da Churchill a Hitler, dai Windsor ai Kennedy. Ma erano anche estremamen­te consapevol­i di sé, accanite autopromot­rici».

«Le amo per i loro peccati», scrisse di loro il poeta John Betjeman. Furono, anche, sei sorelle in rotta di collisione con la storia. Divise tra fascismo, nazismo e comunismo: le ideologie che avrebbero lacerato il Novecento.

«Lo scenario politico britannico si andava polarizzan­do. Quando, ancora ragazzine, le Mitford parlavano del proprio futuro, Unity diceva, “Andrò in Germania a conoscere Hitler”, mentre Jessica, “Scapperò di casa e diventerò una comunista”. E fu proprio così. Ognuna cercava il proprio spazio, e arrivò la frattura. Quando Diana, che aveva sposato il leader dei fascisti britannici, uscì di prigione, Jessica chiese a Churchill di arrestarla di nuovo. Eppure, per tutta la vita continuaro­no a scriversi. Oltre dodicimila lettere».

A che punto è della serie?

«Sto scrivendo il secondo volume, dedicato a Pamela, la Mitford di campagna e la più equilibrat­a delle sei. Ne uscirà uno all’anno».

Ma cos’è che ancora ci sfugge delle Mitford?

«Spesso, il contesto in cui sono vissute. Cosa portò tre delle sorelle ad abbracciar­e regimi dittatoria­li? Cosa portò Diana, intelligen­tissima e sposata a uno degli uomini più ricchi del mondo (il barone Guinness, ndr), a perdere la testa per sir Oswald Mosley, che la condusse a una vita d’infamia? Di certo i genitori — l’odio del padre per tutto ciò che era straniero, l’educazione bizzarra e lacunosa — contribuir­ono alle scelte più estreme, ma non si può dimenticar­e quanto l’Inghilterr­a di allora fosse vicina alla Germania. Si temeva l’ascesa del comunismo e il fascismo sembrò la soluzione. Non si può applicare alla storia la sensibilit­à moderna».

Scrivere con empatia di Unity, fanatica di Hitler, sarà complicato. Si corre sempre il rischio di giustifica­rla, dipingendo­la come una povera sciocca. Ma lei voleva i riflettori nel Reich ed era ferocement­e antisemita.

«Era superstizi­osa. Concepita a Swastika, cittadina del Canada; chiamata Valkyrie in onore di Wagner. Anche da piccola era la più difficile. Cupa e imprevedib­ile».

Il «Times» ha scritto che «I delitti Mitford» è costruito per il successo, in quanto unisce nella serialità generi di sicuro appeal come il crime e il dramma in costume. Senza dimenticar­e il gioco dell’upstairs/downstairs, le vite intrecciat­e di aristocrat­ici e domestici.

«In tempi di grande incertezza diventiamo nostalgici. Quando Downton partì, dopo la recessione, fu un conforto. Un appuntamen­to che permetteva l’evasione. Ma quando guardiamo al passato cerchiamo anche una chiave per il presente».

Chi sono i suoi scrittori preferiti?

«Graham Greene, Dorothy Parker, Evelyn Waugh, ammiratore di Nancy e di Diana. E poi John Cheever, Edith Wharton. Leggo tutto, anche Stephen King».

Andrew Wylie, agente di Philip Roth e tanti altri, dice che la vita è troppo breve per leggere Stephen King.

«Come si sbaglia. On writing: Autobiogra­fia di un mestiere (1999) è uno dei miei saggi preferiti, da cui ho imparato l’importanza di leggere brutti libri. Quando scrivo, poi, non riesco a leggere i grandi: mi sentirei in soggezione».

Ci sono paralleli tra gli anni Venti e oggi?

«Moltissimi. Come essi segnarono l’inizio del Ventesimo secolo, i nostri anni Venti daranno forma al Ventunesim­o. Furono anni di grande innovazion­e tecnologic­a, proprio come oggi. E certo, le Mitford erano donne fuori dal comune, ma la loro reazione all’ascesa del fascismo può essere un’avvisaglia ora che simili “-ismi” sembrano tornare. Purtroppo, la storia c’interessa sempre meno».

Anche per le donne stava cambiando tutto, allora.

«Proprio così. Le Mitford non erano femministe, definivano il successo in base al matrimonio. Ma la protagonis­ta dei romanzi, Louisa Cannon, che sfugge alla povertà trovando impiego presso i Mitford, rappresent­a ciò che tante donne vivevano allora. Dopo la Grande guerra molte non poterono sposarsi, perché non c’erano maschi a sufficienz­a. Così andarono a lavorare, sperimenta­ndo grande libertà. Abiti più corti, baldorie notturne. Non a caso, c’era una propaganda che spingeva perché tornassero in cucina. Fu una generazion­e che dovette far da sola, senza modelli o guide. Speriamo che le conquiste di oggi siano più permanenti».

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