Corriere della Sera - La Lettura

La storia non è mai completa Per questo motivo io la falsifico

Frank Spotnitz è autore di serie come «X-Files» e «I Medici». «Conoscere i particolar­i del passato è impossibil­e. Così bisogna interpreta­re, immaginare. E tradurre per un’audience popolare»

- Di STEFANIA CARINI

Quando la Storia deve farsi storia coinvolgen­te, qualcosa bisogna sacrificar­e. È la regola di molto cinema e molta television­e, la stessa seguita da Frank Spotnitz, ospite al Mia, Mercato internazio­nale audiovisiv­o svoltosi a metà ottobre a Roma. Autore di serie come X-Files, The Man in the High Castle eI Medici, lavora su generi differenti, dal fantastico allo storico, cercando però sempre quella che a Hollywood chiamano good story. Per la quale si può anche modificare la verità dei fatti storici.

Così, ad esempio, la serie I Medici, prodotta da Big Light, Lux Vide, Wild Bunch e trasmessa da Raiuno, inizia con l’omicidio di Giovanni, padre di Cosimo de’ Medici. Un assassinio mai avvenuto. Una falsificaz­ione che molti hanno notato e condannato, ma in ballo c’era altro: «Per raccontare quella saga, secondo alcuni avremmo dovuto partire da Lorenzo il Magnifico. Io e il coautore, Nicholas Meyer, pensavamo però fosse molto interessan­te anche Cosimo. Così abbiamo cercato un modo drammatico di dare forma alla sua storia. Ci siamo ispirati a due film: Il Padrino, ovviamente, e Amadeus. In quest’ultimo, si ipotizza che Salieri abbia ucciso Mozart. Non c’è alcuna prova, ma l’espediente permette allo spettatore di entrare splendidam­ente nel mondo di Mozart. Allo stesso modo, il mistero dell’omicidio di Giovanni funziona per I Medici ».

La tv non è un libro di testo. Può incuriosir­e e spingere ad approfondi­re altrove...

«È quello che spero. Noi “traduciamo” la Storia per un’audience popolare. Cerchiamo di tirare fuori ciò che serve dalla Storia e immetterlo in una narrazione che abbia senso per le persone che guardano la tv oggi. E poi cercare di narrare la Storia in maniera accurata fin nei minimi particolar­i sarebbe impossibil­e. Perché la Storia non è completa. Magari sai cosa ha fatto qualcuno, ma non necessaria­mente conosci le motivazion­i, le emozioni. Per questo devi interpreta­re e immaginare come meglio puoi, e mostrare al pubblico perché l’evento che stai narrando è importante».

In «The Man in the High Castle», ispirato al romanzo di Philip K. Dick, la Storia si fa distopia: gli Usa hanno perso contro la Germania nazista. Il passato viene stravolto. Forse per raccontare meglio il presente?

«Per me era importante dire al pubblico: “Non considerar­e la vita che hai come ovvia”. E anche: “Se vuoi che il mondo sia un posto migliore, tocca a te farlo accadere”. The Man in the High Castle mostra come sia facile passare al lato sbagliato, e come sia necessario guardarsi dentro, capire l’intolleran­za e l’odio in noi e combatterl­i. Puoi essere una persona amata e stimata, ma farti comunque traviare da un sistema di valori sbagliato. Una cosa non esclude l’altra. La serie racconta di noi, delle persone che oggi non credono di essere fascisti e nazisti, piuttosto che dei nazisti del passato. I momenti che mettono più a disagio durante la visione sono infatti quelli in cui riconosci avveniment­i della nostra cultura».

In «X-Files», Mulder era alla ricerca della verità, spesso lottando contro possibili coperture governativ­e. Oggi la verità non interessa: non perché si accettano i fatti ufficiali, ma perché è più facile credere alle fake news. Forse perché sono storie migliori?

«In X-Files, Mulder cerca sempre la verità, ma non è mai capace di trovarla. Alla fine però ironicamen­te trova Scully: per me l’unica verità che possiamo conoscere come essere umani è l’amore. Penso però che interrogar­si sulla verità sia giusto. Non c’è nulla di nuovo nel fatto che le persone si perdano tra bugie, false notizie, storie che amano raccontars­i per non affrontare difficili realtà. È nuova la tecnologia: l’abilità di diffondere questa disinforma­zione efficaceme­nte. Per questo bisogna lottare di più per fare emergere la verità».

A proposito di serie fantastich­e, «Il Trono di Spade» è un fantasy, eppure prende spunto da reali eventi storici...

«Quello che è paradossal­e in una serie fantastica è che ti libera dal dover chiarire esattament­e il tema del racconto e il perché sia rilevante. Serie tv come Il Trono di Spade funzionano perché sembrano ambientate in luoghi fantastici e lontani nel tempo, ma il pubblico di oggi si riconosce perfettame­nte in quelle storie, si lega ai personaggi, immaginand­o quello che farebbero nelle stesse circostanz­e».

Oggi la Storia in tv non è solo grandi eventi, ma anche fatti di cronaca capaci però di illuminare il nostro passato prossimo. Pensiamo al lavoro di un altro autore, Ryan Murphy, con il caso O. J. Simpson, e in futuro con l’omicidio Versace e Carlo e Diana...

«Amo l’uno e l’altro approccio, e il panorama televisivo è così ricco da poterli ospitare entrambi. Anche per i grandi eventi storici come quelli narrati nella saga de I Medici, però, devi trovare un modo per renderli “personali”. Ricostruis­ci un mondo, Firenze, il Rinascimen­to, ma se lo spettatore non ha un personaggi­o cui tenere, non gli interessa il resto».

Chi sono i Medici nel mondo di oggi?

«Non penso che oggi il potere si trasferisc­a così tanto con i legami di sangue, bensì attraverso le grandi corporatio­n. Sono in un certo senso delle “famiglie”, infatti nella legge americana sono riconosciu­te come individui...».

In un certo senso, i Kennedy hanno rappresent­ato quel tipo di mito.

«Certo. Jfk è stata una figura idealistic­a, articolata, carismatic­a, morta in giovane età: dobbiamo ancora riprenderc­i da quel trauma. Più scavi nella famiglia Kennedy, e più ricca e tragica appare. Ad esempio, John non era il figlio favorito, il fratello maggiore sarebbe dovuto diventare l’eroe della famiglia, ma morì prematuram­ente. È ancora una storia potente. E sì, ci sono ancora famiglie al potere, i Clinton, i Bush e chissà un domani gli Obama».

La presidenza Obama non è forse stata fin troppo «cool» per diventare in futuro una «good story»?

«In realtà penso ci sia un’incredibil­e storia da raccontare. Attendo con curiosità il futuro libro di Obama. Però adesso siamo troppo vicini, almeno per me è così; avrei bisogno di molta più distanza. C’è stato un enorme terremoto politico dopo la sua presidenza, ci vorrà più tempo per capirne il significat­o».

Prima o poi toccherà anche a Trump.

«Trump è un altro straordina­rio e affascinan­te personaggi­o. Ma quel che conta non è raccontare solo la politica. È una parte essenziale di ciò che siamo, ma non è tutto. Perché ciò che siamo come esseri umani è più ricco e interessan­te, sorpassa l’identità politica che rivestiamo. In tutte le serie che ho scritto, non mi interessav­a raccontare un’ideologia, ma noi, e quello di cui siamo capaci. Come sceneggiat­ore devi stare attento a non cadere nella trappola del pensiero politico: sì, stai scrivendo di un personaggi­o con delle idee politiche, ma il tuo lavoro è raccontare la sua verità come essere umano. Che è ben più grande».

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