Corriere della Sera - La Lettura
All’asta o in mostra: 1.500 anni di gioielli
Una perla barocca, gigantesca e lucente, che, come accadeva per i gioielli rinascimentali, si è trasformata per incanto nel busto (incantevole nella sua deformità) di una figura mitica — un dio serpente, un guerriero, un re. E poi: oro, diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri, vetro, smalto, lacca.
In questo ciondolo indiano (creato in un tempo sospeso tra il 1575 e il 1625) c’è il segreto di un’intera collezione, quella dello sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani (della famiglia imperiale del Qatar). Un ciondolo che — come spiega lo sceicco a «la Lettura» — «racchiude il dialogo tra l’Italia e l’India, ispirandosi direttamente ai prototipi italiani del XVI secolo, riflettendo un più generale interesse per le arti dell’Occidente». Perché nella storia del ciondolo che potrebbe rappresentare Nagadevata, il dio serpente appunto, come in quella degli altri 270 oggetti in mostra fino al 3 gennaio nella sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale a Venezia, c’è sempre e comunque un «terzo incomodo» o, meglio, più di uno.
Sono Moghul, maharaja (i grandi committenti) e gli artigiani indiani con la loro abilità (gran parte della gioielleria è realizzata con la tecnica kundan con cui le gemme vengono incastonate direttamente nell’oro senza l’uso di griffe): «Ho iniziato a collezionare qualche oggetto per la famiglia — racconta lo sceicco —, pezzi privati che solitamente avevano un significato storico. Il mio interesse per il periodo Moghul è nato dopo aver visto al Victoria and Albert Museum di Londra nel 2009 la Maharajas Exhibition, che mi ha definitivamente svelato la ricchezza dell’oreficeria indiana. Sono sempre stato più attratto dagli oggetti tridimensio- nali che dai dipinti. E la lavorazione e le qualità scultoree dei gioielli del periodo Moghul sono veramente notevoli e vicine al mio gusto».
A Venezia, accanto al ciondolo con il dio serpente ci sono diamanti capaci quasi di infastidire l’occhio con la loro lucentezza (il Golconda rosa, l’Arcot II), collane di rubini imbarazzanti nella loro ricchezza (come quella realizzata da Cartier nel 1937 per il maharaja di Nawanagar), pugnali e spade dall’impugnatura di smeraldi, corone di perle argento e piume di uccello del paradiso, girocolli firmati Bulgari (o in alternativa Van Cleef & Arpels, Mellerio) con smeraldi intagliati al posto delle antiche monete romane (quello della modifica, del montaggio, da collier a spilla, da girocollo a spilla, è un’altra delle pratiche più frequentate del periodo).
«Per quanto riguarda il periodo Moghul sono particolarmente orgoglioso della coppa da vino di giada dell’impera- tore Jahangir. È il più antico manufatto artistico di giada che può essere associato con certezza a un imperatore Moghul. Riporta tre fasce di iscrizioni, tra cui una che mostra la data in cui è stata fatta. Era la coppa personale dell’imperatore e sulle monete del tempo l’imperatore è raffigurato mentre la tiene in mano. I Moghul amavano molto la giada, che per loro era ancora più preziosa dei diamanti».
Che ruolo hanno i gioielli nella cultura araba? «Un ruolo molto radicato, sono stati parte della cultura e della scena sociale per oltre duemila anni. In quel periodo l’economia del Qatar era basata sulla pesca e il commercio delle perle e il regalo di un gioiello rappresentava (e rappresenta) un’alta forma di omaggio, non c’è matrimonio importante senza un considerevole scambio di gioielli come dote. I gioielli donati al matrimonio del famoso califfo abbaside del IX secolo Al-Ma’mun sono tra i più sfarzosi mai conosciuti».