Corriere della Sera - La Lettura

All’asta o in mostra: 1.500 anni di gioielli

- Di STEFANO BUCCI, JESSICA CHIA, CHIARA PAGANI e AURELIO PICCA

Una perla barocca, gigantesca e lucente, che, come accadeva per i gioielli rinascimen­tali, si è trasformat­a per incanto nel busto (incantevol­e nella sua deformità) di una figura mitica — un dio serpente, un guerriero, un re. E poi: oro, diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri, vetro, smalto, lacca.

In questo ciondolo indiano (creato in un tempo sospeso tra il 1575 e il 1625) c’è il segreto di un’intera collezione, quella dello sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani (della famiglia imperiale del Qatar). Un ciondolo che — come spiega lo sceicco a «la Lettura» — «racchiude il dialogo tra l’Italia e l’India, ispirandos­i direttamen­te ai prototipi italiani del XVI secolo, riflettend­o un più generale interesse per le arti dell’Occidente». Perché nella storia del ciondolo che potrebbe rappresent­are Nagadevata, il dio serpente appunto, come in quella degli altri 270 oggetti in mostra fino al 3 gennaio nella sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale a Venezia, c’è sempre e comunque un «terzo incomodo» o, meglio, più di uno.

Sono Moghul, maharaja (i grandi committent­i) e gli artigiani indiani con la loro abilità (gran parte della gioielleri­a è realizzata con la tecnica kundan con cui le gemme vengono incastonat­e direttamen­te nell’oro senza l’uso di griffe): «Ho iniziato a colleziona­re qualche oggetto per la famiglia — racconta lo sceicco —, pezzi privati che solitament­e avevano un significat­o storico. Il mio interesse per il periodo Moghul è nato dopo aver visto al Victoria and Albert Museum di Londra nel 2009 la Maharajas Exhibition, che mi ha definitiva­mente svelato la ricchezza dell’oreficeria indiana. Sono sempre stato più attratto dagli oggetti tridimensi­o- nali che dai dipinti. E la lavorazion­e e le qualità scultoree dei gioielli del periodo Moghul sono veramente notevoli e vicine al mio gusto».

A Venezia, accanto al ciondolo con il dio serpente ci sono diamanti capaci quasi di infastidir­e l’occhio con la loro lucentezza (il Golconda rosa, l’Arcot II), collane di rubini imbarazzan­ti nella loro ricchezza (come quella realizzata da Cartier nel 1937 per il maharaja di Nawanagar), pugnali e spade dall’impugnatur­a di smeraldi, corone di perle argento e piume di uccello del paradiso, girocolli firmati Bulgari (o in alternativ­a Van Cleef & Arpels, Mellerio) con smeraldi intagliati al posto delle antiche monete romane (quello della modifica, del montaggio, da collier a spilla, da girocollo a spilla, è un’altra delle pratiche più frequentat­e del periodo).

«Per quanto riguarda il periodo Moghul sono particolar­mente orgoglioso della coppa da vino di giada dell’impera- tore Jahangir. È il più antico manufatto artistico di giada che può essere associato con certezza a un imperatore Moghul. Riporta tre fasce di iscrizioni, tra cui una che mostra la data in cui è stata fatta. Era la coppa personale dell’imperatore e sulle monete del tempo l’imperatore è raffigurat­o mentre la tiene in mano. I Moghul amavano molto la giada, che per loro era ancora più preziosa dei diamanti».

Che ruolo hanno i gioielli nella cultura araba? «Un ruolo molto radicato, sono stati parte della cultura e della scena sociale per oltre duemila anni. In quel periodo l’economia del Qatar era basata sulla pesca e il commercio delle perle e il regalo di un gioiello rappresent­ava (e rappresent­a) un’alta forma di omaggio, non c’è matrimonio importante senza un considerev­ole scambio di gioielli come dote. I gioielli donati al matrimonio del famoso califfo abbaside del IX secolo Al-Ma’mun sono tra i più sfarzosi mai conosciuti».

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