Corriere della Sera - La Lettura
Una virtù nel caos della lingua tradita
Edoardo Boncinelli ha scritto con Massimo Arcangeli un saggio su «Le magnifiche 100» parole immateriali: «la Lettura» gli ha chiesto di raccontare la numero 101
La coerenza è una virtù alla quale io ho dato sempre una grande importanza ma la mia predilezione non è condivisa da molti, che le preferiscono di gran lunga altre doti personali. Coerenza significa originariamente adesione, adesione cioè a un modello costante, di comportamento o di convinzione, per tempi che chi p a r l a c o ns i d e r a r a g g u a r d e vo l i . Va l e quanto costanza, ma è più duttile e allo stesso tempo più essenziale: la costanza riguarda la lettera e il senso di una scelta, la coerenza invece solo il senso.
Ci può essere (o non essere) una coerenza nel comportamento, nelle idee o nella loro esposizione. In genere si parla più spesso del primo tipo di coerenza. E a ragione. Dall’uomo, solitario o in gruppo, ci si attende una certa coerenza di comportamento, perché è così e solo così che si può valutare la sua inclinazione e disposizione d’animo nei riguardi delle istanze più diverse. Ed è solo così che si può impartire o apprendere un insegnamento. Poche persone sono in grado però di superare questo esame di coerenza, perché il tempo passa, perché le condizioni possono essere le più varie, perché la gente è sbadata, o semplicemente perché moltissimi non hanno proprio capito che cosa voglia dire coerenza. E perché, al solito, siamo bravissimi a valutare la coerenza degli altri, ma non la nostra.
Poiché questo ritornello su noi e gli altri si ripresenta così spesso, mi sono chiesto di recente: ma potrebbe essere diversamente? Potremmo essere, cioè, obiettivi (o non obiettivi) con gli altri come con noi? La risposta è no o, almeno, più no che sì. Perché, nonostante tutte le chiacchiere, l’io è un punto singolare della nostra vita. Dal punto di vista esistenziale, non può essere confuso con gli altri, con nessuno degli altri. Per ragioni di proprietà specifiche e di rilevanza, anche se teoricamente e sul piano speculativo si possono dire cose assai diverse. Il punto è che se soffro, soffro io, e se mi rallegro, mi rallegro io, e non altri. Quando leggo frasi come: «L’Altro siamo noi» oppure «Gli altri siamo noi», penso subito che le persone che le scrivono andrebbero saggiate con l’etilometro. Più che di affermazioni, si tratta per me di singhiozzi del loro cervello, di turbe della percezione del mondo. Di gente che anche nel dire questo pensa solo a se stessa.
Sento le critiche che verranno mosse a questo discorso. «Se fossimo partiti da premesse del genere, non ci sarebbe stata nessuna civiltà e avremmo assistito solo ad acerrimi scontri di personalità e di interessi». Dubito che sarebbe potuto essere peggio di come è, ma non è comunque negando la realtà che la si modifica. Per correggerla e superarla, occorre conoscerla e mettere in atto le strategie individuali e collettive più opportune. Ignorare o far finta di ignorare non ha mai risolto nessun problema. Se abbiamo ottenuto qualcosa, e se ancora vogliamo ottenere molto sul piano della tolleranza e della solidarietà umana, occorre almeno prendere atto della difficoltà dell’impresa e delle particolarità del fenomeno. Come nel caso del volo. All’uomo è sempre piaciuto poter volare. Ma tentare di farlo in maniera semplice e diretta non è servito a niente. Abbiamo dovuto studiare, ridurre in pillole i problemi, teorizzare e applicare, e ora volano tutti, scienziati, maghi, stregoni, semplicisti, illusi e olisti. Possiamo cambiare il mondo, se vogliamo, ma non pronunciando stucchevoli formule magiche.
Sostenere idee imparentate tra di loro anche in campi diversi è un esempio del secondo tipo di coerenza, quella dell’universo delle idee, cioè delle convinzioni. Non si può essere pragmatici e sperimentalisti in un campo e non in un altro, solo perché i due campi hanno storie e tradizioni diverse. E si appoggiano agli interessi di accademici diversi. Ma non è questo il discorso che voglio fare. Mi interessa di più scrutare il terzo livello, quello dell’espressione verbale, orale o scritta, ovvero dell’uso delle diverse parole che caratterizza la nostra società, e pure la nostra cultura.
Non sembri gratuita pignoleria occuparsi dell’uso delle parole. Non è mai stata una questione secondaria e oggi lo è ancora meno, perché nell’attuale società si fa, secondo me, delle parole un uso molto disinvolto e assolutamente poco coerente. In un mondo ideale le parole hanno un significato, preferibilmente unico e fisso, e non vengono adoperate un po’ alla rinfusa come si usa sempre più spesso fare. Ammesso che questo sia anche solo teoricamente possibile, non è certo il comportamento al quale assistiamo tutti i giorni. A tutti i livelli, e pure nei media di ogni categoria, le parole non sono utilizzate con lo stesso, unico significato, ma come viene, o come fa comodo. Va da sé che se le parole sono utilizzate arbitrariamente e senza una coerenza di significati, la comunicazione risulta ambigua e sfilacciata. A parte l’uso di parole insensate come «esaustivo» e «resilienza», o dal significato ignoto ai più, come «algoritmo» o «biodiversità», lo stupro quotidiano della parola «energia», che per qualcuno «è una porta» (sic!), denuncia un’atmosfera di anarchia semantica che non può che portare a una diffusa mancanza di cultura generale.
Non si può star dietro a tutte le comunicazioni che riguardano fatti rilevanti, ed è perciò vitale che ciascuno integri quello che sa e quello che apprende di nuovo con quanto «sa» ed è compatibile con quanto pensa. Pena la confusione e il marasma culturale. A livello della società non si sono sapute mai tante cose come oggi ed è molto facile procurarsi nuove nozioni e informazioni, attraverso le scuole di ogni tipo, i libri, i media e la rete. Ma le nozioni non «si trasferiscono» automaticamente nelle teste. Occorre essere interessati, informarsi, comprendere e fare proprie nozioni e informazioni. E ciò sembra proprio che non funzioni tanto bene. Ho sentito illustri fisici dire con convinzione le più grosse inesattezze di biologia o di psicologia e medici confondere i neuroni con i neutroni, per non parlare dell’argomento del cibo, che viene trattato in mille modi diversi, e delle favole sulla ecosostenibilità. Se non c’è frode o malafede, ciò è dovuto all’inconveniente di dare alle parole significati diversi, magari variabili nell’ambito stesso di una discussione.
«Le parole sono pietre», diceva qualcuno, ma talvolta sono molto di più di pietre, sono armi di confusione di massa, di sproloqui e soprattutto di vaniloqui, collezioni di suoni che non trasmettono significati chiari o universalmente percepibili. Da qui il proliferare delle convinzioni più strane, dalla salute alla sicurezza, dalla necessità alla pericolosità, e l’edificazione di una generale atmosfera di diffidenza che regna sempre più fra la gente di ogni tipo. La conoscenza non è conoscenza se non è veicolata e mantenuta da parole appropriate e dal significato condiviso. Due esempi fra i tanti: «democrazia» e «pari diritti».