Corriere della Sera - La Lettura
Isgrò. O della felicità creativa
Passioni La Sicilia in cui è nato, Milano, Venezia, gli incontri di una vita straordinaria. Autoritratto, anzi «Autocurriculum», dell’artista delle cancellature Talento totale Ragazzino, sorprende Enzo Tortora cantando; giovane giornalista, incalza Alber
Mamma Elisabetta legge compitando le parole. Lo fa «per meglio sentire il suono». Ed è perciò che, ad ascoltarla, si diventa poeti. E col padre, invece, ci si forgia artista recidivo e teatrante.
Ebanista, grande suonatore di sassofono e clarinetto (e in tarda età anche alunno del Conservatorio: «Devo pensare al mio futuro», dice), papà Peppino si esibisce al Cirucco e negli altri locali della piana di Milazzo. E allora il protagonista della favola a occhi aperti — Emilio Isgrò, il multiforme artista ammirato al Moma, al Pompidou e tra le sale della Fondazione Guggenheim — fa il bravo presentatore. Ha la voce da bambino, il piccolo Emilio. Sono gli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60 del secolo scorso, e lui, nella posa, è come un Nino Frassica in miniatura: «Ed ecco a voi la Cumparsita, Papaveri e papere, El Negro Zumbon! ».
Ed ecco a voi — è il caso di dire, adesso — Autocurriculum. È il romanzo del formarsi di una felicità creativa dentro l’Italia minima, bella, velleitaria, letteraria e prodiga di melodramma. E valigie.
Chi esce, riesce. La bellissima Letizia Stancanelli, madre di Sergio Perroni — lo scrittore ed editor — prega suo fratello Salvatorino di accompagnare il giovane Isgrò a vedere i quadri di Balla e Depero nella villa di un loro zio, il futurista Guglielmo Jannelli, in Sicilia. Uno di quei dipinti — un laghetto di montagna, con i cigni — s’innesta nello sguardo di Isgrò come un seme che attende le giuste traiettorie per radicare, nell’educazione sentimentale di Emilio, il migliore regalo che si può avere dalla vita: andarsene.
In direzione di Milano, quindi, tra le salutari nebbie che rendono finalmente redenti i cupi lupi di Sicilia. Giusto per vedere gli occhietti vispi di Piero Chiara offuscarsi di ardore e lago — Chiara è un cupo lupo innestatosi a Luino come un catanese «scappato dal Bell’Antonio di Brancati».
A Milano, dunque, per finire recensito con favore sulla rivista «Il Punto» da Pier Paolo Pasolini e così acchiappare tutto il manicomio di fantasia che deriva dal capirne, finalmente, di donne con tre occhi à la Picasso, di Inge Feltrinelli che indossa il poncho regalatole da Salvador Allende, e poi anche di Cantatrice calva. Quella di Eugéne Ionesco «che si pettina sempre allo stesso modo».
Chi esce, riesce. E c’è Venezia — sempre Serenissima — dove dal 1960 al 1967 Isgrò cura le pagine culturali del «Gazzettino», e la passione irresistibile per la scrittura gli scatenerà, per contagio, quella per le arti visive. Eccola, la Laguna di Isgrò. Fosse pure per aggirarsi con una torcia elettrica nel flebile albeggiare tra San Zaccaria e Santa Maria Formosa. Intirizziti dall’emozione più che dall’umido. Tra le impegnative sorprese di un mestiere, quello della parola, con la voce di assordante silenzio di Ezra Pound o quella adolescenziale di un Aldo Palazzeschi ancora innamorato di Filippo Tomaso Marinetti: «Un motore irresistibile, rombante, impetuoso».
Sono, quelli di questo ragazzo, i sogni di chi realizza qualcosa d’importante, possibilmente con le parole ma «anche con altri strumenti». E tutto quel lavorare corrisponde a un’idea italianissima del genio: il fare con le mani equivale al pensare con la testa. L’intelligenza è arte artigiana. Un’azione in sintesi, al pari di un’occhiata.
Alla Mostra del Cinema, con il supercinico Alberto Sordi — sordidamente avaro, e felice di tale fama — Isgrò va di torneo: «È vero che quando si siede si leva i pantaloni per non rovinare il fondo?». La risposta dell’attore è già una sceneggiatura: «Uso i pantaloni di panno ruvido che durano di più; me li levo semplicemente per non rovinare la sedia». Ancora più cinico, nella carrellata dei vecchi fusti, Giorgio de Chirico: «Se non che poteva anche accadere, almeno così si spettegolava a Venezia, che l’Optimus disconoscesse i propri lavori per autenticare i falsi se erano dipinti con più gusto e sapienza di quanto fossero i suoi».
Senza neppure una cancellatura — non un’omissione, non un aggiustamento biografico — ecco dunque l’autobiografia di Emilio Isgrò, l’inventore del quasi niente che resta, ma di quel niente che è sublime. L’espuntore — se così si può dire di lui — tanto del necessario quanto del superfluo, nel compatto fluire della vita in cui mappazze di civismo tipo la Costituzione della Repubblica italiana o distillati sacrissimi quali le parole di Francesco d’Assisi, per tramite dei suoi tratti di penna, si lasciano scorgere senza incombere. Ed è, tanto nell’opera quanto nel metodo di Isgrò, un proseguire per tracce, per seminativi o, per dirla con Martin Heidegger, Holzwege, ovvero sentieri interrotti, spesso disseminati di formichine, proprio quelle che le scolaresche di bimbi in visita alle mostre vanno a inseguire lungo le pareti per la disperazione delle signorine maestre e per il divertimento del sommo artista.
Isgrò è il Maestro con la maiuscola, per come lo appella il ministro Angelino Alfano; e la sua arte di mastro concertatore, arrangiatore e compositore di segni e concetti (al netto degli spagnolismi formali di chi lo evoca nello sproposito delle cerimonie di Stato), è presagio inverato dello svolgersi di uomini e cose.
Il maresciallo di Sedotta e abbandonata (1964), nel film di Pietro Germi, sfinito dalla peggior vita paesana, circospetta e tortuosa, si attiva in una performance. Con la mano cancella la Sicilia dalla carta geografica appesa in caserma. Lo fa per vedere l’effetto che fa. Ed è un bell’effetto quel cancellare. La cancellazione, come reclama la produzione artistica di Isgrò, è infatti uno scolpire in levare. Un elevare il nocciolo di ogni questione a quintessenza dell’espressione, quel far uscire il meglio da ogni meglio. Ed è sempre una gara a chi cancella meglio e più veloce, nel territorio dell’arte, libero pascolo «dove si faceva volontariato come negli ospedali». E il meglio di ogni meglio, si sa, è l’Assenza. Come Dino Campana giudicando a occhio l’interlocutore strappava pagine dei suoi Canti orfici, così Isgrò, decidendo nel semplice gesto, segna con tratti di penna — cancella — l’ombra di ogni tempo e lo spazio in ogni ombra.
Battere e levare, dunque. È l’estate del 1954. Arriva a Barcellona Pozzo di Gotto un certo Enzo Tortora. Gira per tutte le piazze d’Italia e allestisce con microfoni e luci il talent dell’epoca: l’Ora del dilettante. Il non ancora Maestro Isgrò, in calzoni corti, si presenta al cospetto del conduttore Rai e si offre di cantare Cara Rusina. Parte il brano. Musiche di papà Peppino e del signor Edoardo Russo. Parole scritte da Emilio medesimo, che è ancora un figghiolo. Tortora non finisce di fargli i complimenti, «convinto di avere scoperto un genio». E siccome nei sogni a occhi aperti la verità dell’arte si sovrappone alla realtà di ogni giorno, va a finire che chi esce, riesce.
Isgrò se ne esce dalla Sicilia e riesce a Milano. La notte di San Silvestro del 1976, nella tenuta di Eugenio Carmi, pittore, in una dimora ricavata da un ex monastero benedettino, si ritrova a battere il tempo col piede mentre Umberto Eco suona il flauto dolce e Gillo Dorfles il pianoforte. Ed è un frammento di poesia più che un dettaglio scritto in curriculum. La felicità fa curriculum. Si diventa felici a godere della felicissima fantasia dei poeti e dei recidivi creatori del segno.