Corriere della Sera - La Lettura

Giallo storico e no: conta

Uno si è affermato con intrecci ambientati nella Napoli degli anni Trenta e con una serie su poliziotti contempora­nei. L’altro deve la sua fama a dieci romanzi collocati nel Medioevo e nell’età moderna. Maurizio de Giovanni e Marcello Simoni hanno scelto

- conversazi­one tra MAURIZIO DE GIOVANNI e MARCELLO SIMONI a cura di ALESSIA RASTELLI

Entrambi appassiona­ti sostenitor­i della fedeltà storica dei romanzi all’epoca in cui sono ambientati (al punto di controllar­e il meteo o il tipo di stoffe usate nel periodo in cui si svolge la trama). Entrambi orgogliosi difensori della narrativa di genere, «perché ci piace avere tanti lettori». Entrambi autori d’intrecci a base di omicidi e indagini. Ma che avvengono in secoli diversi.

Maurizio de Giovanni ha inaugurato nel 2005 la serie di libri con il commissari­o Ricciardi nella Napoli degli anni Trenta. Sette anni dopo, alla città di epoca fascista si affianca quella odierna dei Bastardi di Pizzofalco­ne, di cui uscirà il 5 dicembre l’ottavo libro, Souvenir. Marcello Simoni ha pubblicato finora dieci thriller storici (l’undicesimo, Il monastero delle ombre perdute, lo sta scrivendo in questo periodo). Tutti ambientati nel passato lontano. Il Medioevo enigmatico de Il mercante di libri maledetti ma pure la Firenze del Quattrocen­to del recente L’eredità dell’abate nero.

«La Lettura» li ha messi attorno a un tavolo per parlare di un genere, il giallo, che ha ormai assunto tantissime sfumature e declinazio­ni. E che si conferma in buona salute: duemila i titoli prodotti nel 2012, secondo l’ Ufficio studi dell’Associazio­ne italiana editori, pariall’ 11,8%d el totale della narrativa, diventati 2.375 (12,6%) nel 2016. Del tema si parlerà a BookCity, di cui i due scrittori sono ospiti (nella scheda a destra, i dettagli). Perché avete scelto uno l’età contempora­nea e uno i secoli passati?

MAURIZIO DE GIOVANNI — L’ambientazi­one negli anni Trenta è stata all’inizio casuale. Mi iscrissi a un concorso, vinsi. Da lì mi è sembrato divertente narrare un periodo che la memoria collettiva dell’Italia vede come preparator­io di un evento tragico, la Seconda guerra mondiale, e che invece ebbe in sé bellissime energie, almeno nella prima metà di quel decennio. A Napoli avevo pure ascoltato i tanti ricordi della generazion­e dei miei genitori. Poi a un certo punto mi sono reso conto che il romanzo nero è anche una modalità di analisi della realtà, e sono nati i Bastardi. Il delitto è un modo di raccontare la strada, l’aria che tira in un momento e in un luogo. La cronaca ricostru-

isce i fatti, l’attività giudiziari­a le responsabi­lità, mentre il perché, le motivazion­i di un evento non si possono spiegare se non narrandone la storia. Ricciardi serve dunque a capire un’epoca, i poliziotti di Pizzofalco­ne quello che ci circonda adesso. Siccome però non c’è modo di interpreta­re il presente se non se ne conoscono le cause, credo che Ricciardi e i Bastardi siano l’alfa e l’omega di un discorso necessaria­mente complement­are.

MARCELLO SIMONI — Io ho iniziato da subito a scrivere storie ambientate nel passato. Mi interessav­a richiamare il meccanismo delle favole, il «c’era una volta». Il romanzo è una forma di fiction che ci fa riscoprire emozioni, paure, tensioni che abbiamo fin da bambini ma di cui poi ci dimentichi­amo. Tanto più, se prendo un lettore e lo faccio immergere in una storia lontana dal tempo in cui vive, l’effetto si amplifica. Da un lato ho cercato di sviluppare un senso di alienità — l’uomo del Medioevo — dall’altro di fare capire che quell’individuo non è poi così diverso da quello di oggi. L’ambientazi­one storica consente rispetto a quella nel presente una mag-

giore possibilit­à di evasione?

MARCELLO SIMONI — Io sono un maniaco della documentaz­ione. Quando inizio un romanzo, dedico un mese a entrare nel modo di pensare dell’epoca. La storia è un argomento delicato. Se parli di un calvinista o di un luterano, non puoi rischiare di venire frainteso. Chi però scrive un romanzo storico con la pretesa di voler insegnare e si mette in cattedra, compie un errore. Perché bisogna comunque affascinar­e il lettore, costruire un gioco di prestigio che lo faccia divertire. Il trucco è nel linguaggio e nel ritmo.

MAURIZIO DE GIOVANNI — L’intratteni­mento è necessario, altrimenti scriveremm­o saggi. Una storia non deve avere per forza una morale. Poi è ovvio che l’analisi sociale diventa più rilevante se la trama è ambientata nel contempora­neo o in un’epoca recente, perché è condivisa dal lettore. In una vicenda del Quattrocen­to contano di più i personaggi, come si muovono, i loro sentimenti in un periodo così diverso dal nostro. Come definirest­e il genere dei vostri libri?

MAURIZIO DE GIOVANNI — Parlerei di romanzo nero.

MARCELLO SIMONI — Io di thriller storico, per quanto viviamo in un’era d’ibridazion­e e nelle mie storie c’è anche altro, come l’avventura o l’amore.

MAURIZIO DE GIOVANNI — La nostra è una narrativa di genere che ci piace moltissimo, ma che alla critica letteraria sembra quasi un ghetto. Da parte mia invece sono contento di essere in contatto diretto con una platea di lettori enorme.

MARCELLO SIMONI — Anche io sono un narratore popolare, inteso come un autore di libri che vogliono farsi leggere ma non per questo banali.

Se il giallo classico alla Sherlock Holmes era ispirato alla fiducia nella ragione e nei metodi d’indagine, l’affermarsi del noir a partire dagli anni Novanta scardina le certezze. Come vi collocate in questo percorso?

MAURIZIO DE GIOVANNI — Il giallo classico è un enigma da risolvere, che di fatto non si scrive più dagli anni Cinquanta. La vittima non è un personaggi­o ma solo l’accensione di un procedimen­to che porta l’astuto, intelligen­te, abilissimo investigat­ore a dipanare la matassa. Nel noir l’eroe è spesso un criminale. Per i miei libri parlo appunto di romanzo nero, ovvero di una storia che indaga l’ani- ma e le ossessioni, l’invidia, la gelosia che proviamo tutti e che, per fortuna, solo in una minoranza estrema sfocia nel crimine. Queste emozioni, però, dal punto di vista della causa, di come si formano, le riconoscia­mo. Ed è per questo che ne subiamo l’orribile fascino. Gli investigat­ori moderni, Maigret, Montalbano, sono camminator­i delle strade, dei quartieri, della notte. Indagatori dell’umano più che ricercator­i di colpevoli.

MARCELLO SIMONI — Lo stesso Umberto Eco ne Il nome della rosa fa il verso a Sherlock Holmes, creando un detective medievale in quello che di fatto non è più un giallo, o almeno non solo un giallo, in cui ogni volta che si va a scoperchia­re un personaggi­o si scopre che non c’è nessuno del tutto pulito. Succedeva già con Orlando, che da eroe senza macchia diventa furioso. Noi amplifichi­amo questo aspetto, forzando gli schemi del giallo. Tanto più nel thriller storico, dove ci si può isolare dalla forma mentis del nostro tempo.

Ne «La società dell’indagine» (Bompiani, 2008) Alessandro Perissinot­to sostiene che l’investigaz­ione è il modello conoscitiv­o privilegia­to della nostra epoca, caratteriz­zata dalla mentalità del complotto e da un inappagato senso di verità. Siete d’accordo?

MARCELLO SIMONI — La sua lettura sembra più da giallo, la mia più da noir. Per me l’indagine è solo uno strumento, mi interessa il delitto in sé, il cono d’ombra dentro ogni essere umano.

MAURIZIO DE GIOVANNI — L’omicidio è la relazione più intima, forte e definitiva che ci può essere tra due esseri umani. Più della maternità: una madre può non riconoscer­e un figlio alla nascita e perderlo per sempre; l’omicidio unisce due persone per l’eternità. Non credo quindi che il successo della nostra narrativa sia legato all’epoca. Al più il giallo ita-

liano può essere favorito dalla sua varietà, tra città e città. A differenza di quello nordico, ad esempio, in cui c’è sempre la stessa atmosfera all’interno della quale all’improvviso succede qualcosa.

Su «la Lettura» #310 del 5 novembre Frank Spotnitz, autore delle serie «I Medici», ha detto di trovare lecite le falsificaz­ioni nelle fiction storiche, visto che tutti i dettagli del passato non potrebbero comunque essere ricostruit­i con esattezza. Che cosa ne pensate?

MARCELLO SIMONI — Non mi è piaciuta la serie sui Medici. Cosimo non era come ce lo fanno vedere. C’è anche nel mio ultimo romanzo, come personaggi­o secondario, ma l’ho studiato a lungo: già a sei anni era consapevol­e di avere talento per gli affari e la politica. Vederlo ritratto come un bellone, un ingenuo che non vuole fare il mestiere del padre e non capisce nulla di quello che gli succede intorno, mi ha fatto rivoltare lo stomaco. Il tappeto storico non va modificato. È come se de Giovanni decidesse che la Seconda guerra mondiale l’ha vinta la Germania.

MAURIZIO DE GIOVANNI — Ci si può benissimo ispirare a fatti storici e raccontare altro negli spazi bianchi che comunque ci sono, senza usare nomi reali. Non ne capisco la necessità se non quella di sfruttare la popolarità di certi personaggi tra il pubblico.

Alcune serie televisive sembrano andare nella direzione della semplifica­zione e del mercato. Questo può condiziona­re negativame­nte anche la scrittura?

MAURIZIO DE GIOVANNI — C’è tv e tv. Netflix non è la television­e generalist­a, essa stessa diversa al suo interno. I lettori inoltre esigono raffinatez­za, i telespetta­tori invece sembrano non poter fare a meno di una netta divisione tra bene e male. Così come di un protagonis­ta. Nei libri sui Bastardi i personaggi hanno pari dignità; nella trasposizi­one televisiva c’è stato bisogno di dare più rilevanza all’ispettore Lojacono. Nella scrittura dei romanzi non mi faccio comunque condiziona­re, sarebbe una drammatica resa alla banalità. Diversamen­te è andata per il nuovo fumetto con il commissari­o Ricciardi, pubblicato da Sergio Bonelli. L’attore in carne e ossa infatti è sempre un compromess­o, mentre i protagonis­ti delle tavole sono anch’essi di fantasia. Il disegnator­e mi ha sottoposto una pluralità di bozzetti, e a mano a mano i personaggi sono nati. Alla fine ho potuto vederli di persona, mentre prima li conoscevo solo dall’interno e non dall’esterno.

MARCELLO SIMONI — Io sto aspettando il produttore televisivo giusto. Ho diversi lavori in lettura, ma l’ambientazi­one storica richiede molti investimen­ti, a meno di non voler fare una cosa alla Elisa di Rivombrosa. Di serie ne guardo tantissime: sempliceme­nte ce ne sono alcune riuscite bene e altre male. Mi piacciono I pilastri della Terra, ispirata a Ken Follett, Taboo, nella Londra vittoriana, The Musketeers, basata su I tre moschettie­ri di Dumas, Downton Abbey, a cui mi sono molto appassiona­to.

MAURIZIO DE GIOVANNI — Downton Abbey è straordina­ria. Ha una meraviglio­sa maniera di intrecciar­e la storia della servitù a quella della famiglia aristocrat­ica, attraverso la chiave dell’affetto di una classe sociale verso l’altra e non della consueta invidia o rottura. Le vicende personali sono trattate con garbo e intelligen­za, nel pieno rispetto dell’epoca.

MARCELLO SIMONI — È ve r o , g l i spunti storici, come la guerra, si riflettono nella vicenda della famiglia. E si entra a pieno nella forma mentis del periodo.

Un cellulare che aggancia una cella, il Dna: il progresso tecnico-scientific­o renderà le trame meno fantasiose?

MAURIZIO DE GIOVANNI — Non per me, perché l’individuaz­ione del criminale è secondaria rispetto alla motivazion­e del crimine. La ragione per cui una madre ha ucciso un figlio è più importante di una scansione di Dna. Csi lo trovo di una noia mortale. Poi è ovvio che nei Bas t a rdi di Pi z zof a l cone i l l a voro del l a scientific­a ci sia e abbia un ruolo significat­ivo, ma mai come la soluzione dell’indagine, semmai come l’inizio o la prova.

MARCELLO SIMONI — È così anche per me. Certo nel Medioevo non c’erano le telecamere, il gps, i cellulari, ma le prove e gli indizi sì. Gli strumenti ovviamente si evolvono nel tempo ma non mi interessan­o in quanto tali. Piuttosto conta la met a mor fo s i , l ’e n o r me t r a u ma c h e esplode nel cervello di chi decide di uccidere, di prendere un pugnale e affondarlo nella carne di un altro. La filigrana sottilissi­ma tra bene e male rende fratelli gli uomini di ogni epoca. De Giovanni scriverà un thriller storico e Simoni un noir nel presente?

MAURIZIO DE GIOVANNI — Mi piace leggere Marcello ma non avrei la competenza tecnica per ambientare i miei intrecci altrove. MARCELLO SIMONI — Cre do c he neppure io tenterò con un thriller nell’oggi. Sono innamorato della storia. Quando iniziai a scrivere era uscito da poco Dan Brown. Ma anche parlare di passato in un libro ambientato nel presente non fa per me. Preferisco il «c’era una volta». A meno di non scrivere un romanzo con de Giovanni. A quattro mani, alla Glenn Cooper.

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Gli scrittori e le epoche Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958, in alto) ha scritto per Einaudi Stile libero romanzi neri ambientati negli anni Trenta e nell’età contempora­nea. Marcello Simoni (Comacchio, Ferrara, 1975, qui sopra) è autore di thriller...
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