Corriere della Sera - La Lettura

Ma non sono le macchine a creare diseguagli­anza

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Erik Brynjolfss­on è tra i più influenti «evangelist­i» dell’ottimismo. «Si tratta di distribuir­e meglio redditi e tempi liberi: meno ore in ufficio senza perdere risorse, più ore per la qualità della vita»

«Il fatto che si riesca a produrre più ricchezza con meno lavoro è una gran bella cosa. Se diventa una cattiva notizia per via dei rischi di disoccupaz­ione tecnologic­a è solo colpa nostra: vuol dire che non sappiamo governare gli sviluppi dell’automazion­e. La cui natura, sia chiaro, è positiva: la tecnologia ha sempre distrutto e creato lavoro. Ne creerà abbastanza anche ora, nell’era dell’intelligen­za artificial­e? Io penso di sì». Con i libri scritti insieme al collega di accademia Andrew McAfee (soprattutt­o The Second Machine Age e il recentissi­mo Machine, Platform, Crowd) e il suo lavoro di docente e direttore della Initiative on the Digital Economy del Mit di Boston, Erik Brynjolfss­on è oggi forse il più quotato tra gli «evangelist­i» dell’ottimismo tecnologic­o. «La Lettura» lo intervista alla fine di un seminario nel quale ha descritto i vantaggi economici ma anche sociali (ad esempio nel campo delle cure mediche) che verranno dal crescente utilizzo dell’intelligen­za artificial­e. Senza nascondere le paure.

Lei ha mostrato un allarmante grafico del pessimismo: a fronte di un 41% di cinesi ottimisti sul futuro, solo il 6% degli americani crede che le cose andranno meglio. In Europa l’aria è ancora più cupa: 4% di ottimisti in Germania, 3 in Francia, l’Italia addirittur­a fuori classifica. Cosa significa?

«È vero, è preoccupan­te: c’è un’altra indagine dalla quale emerge che molti americani pensano addirittur­a di vivere nel periodo peggiore della storia del loro Paese. Ci sono malesseri e paure diffuse. Da economista e tecnologo vedo quattro spiegazion­i possibili. La prima ipotesi è che abbiamo riposto troppa fiducia nella tecnologia chiedendol­e anche risposte che non poteva dare. La seconda è che forse non sappiamo misurare correttame­nte i benefici che già oggi la tecnologia ci offre. (Ad esempio le nuove terapie contro il cancro che allungano e migliorano la vita dei malati. Ma in termini economici percepiamo solo l’aumento dei costi per la sanità, non la maggior efficacia delle cure). La terza riguarda le diseguagli­anze: si arricchisc­e soprattutt­o chi ha in pugno le tecnologie più avanzate. Infine i tempi lunghi necessari perché una scoperta venga assorbita in pieno dal sistema produttivo e cominci a produrre vantaggi economici significat­ivi. È già successo in passato col vapore, l’elettricit­à e il motore a combustion­e interna: hanno rivoluzion­ato l’economia e prodotto prosperità, ma ci sono voluti decenni e la transizion­e è stata dolorosa, come ci ha raccontato Charles Dickens».

«In ogni diagnosi c’è del vero: ad esempio l’introduzio­ne dei motori elettrici in fabbrica, a fine Ottocento, all’inizio non produsse i vantaggi attesi. Gli imprendito­ri si erano limitati a sostituire il vecchio motore con un nuovo congegno elettrico, lasciando tutto il resto inalterato. Fu solo qualche decennio dopo, quando i motori elettrici, divenuti molti più piccoli, furono applicati a ogni singolo macchinari­o, che le fabbriche cominciaro­no a produrre molto di più e a costi assai più bassi. Ma, più che sulle diagnosi, dobbiamo concentrar­ci sulle terapie».

A lungo osannate, le aziende tecnologic­he della Silicon Valley vengono ora viste con una certa ostilità: monopoli da infrangere ed enormi concentraz­ioni di ricchezza che accentuano le diseguagli­anze economiche. Bisogna partire da qui?

«La sfida più grossa dei prossimi dieci anni credo sia proprio quella delle diseguagli­anze. Per le quali, ripeto, non va incolpata la tecnologia, ma il modo in cui l’uomo la usa. Per utilizzarn­e al meglio le potenziali­tà, dobbiamo agire su tre fronti. In primo luogo l’istruzione: va reinventat­a per dare ai giovani la capacità di navigare in quella che chiamo la seconda era delle macchine: gli skill del lavorare in gruppo e la creatività necessaria per lasciarsi dietro le mansioni di routine. In secondo luogo una forte spinta all’imprendito­rialità. Creare start up di successo sta diventando più duro: i giovani vanno spinti a creare nuovi prodotti e servizi. Infine è necessario un certo livello di diffusione della ricchezza. Io la chiamo smart redistribu­tion. In America abbiamo l’earned income tax credit. Altri Paesi hanno sistemi diversi di sussidi: l’obiettivo è quello di mettere soldi in tasca ai meno abbienti, incoraggia­ndoli a lavorare».

Ma lei è davvero convinto che anche in tempi di macchine intelligen­ti ci sarà abbastanza lavoro per tutti?

«Sì. Le macchine ci aiutano, non ci sostituisc­ono. Se le sapremo gestire bene, lavoreremo di meno con un reddito maggiore. Le faccio un esempio. Sebastian Thrun, che con Udacity ha creato una grande piattaform­a di insegnamen­to universita­rio online e di formazione continua, il lifelong learning, aveva messo in piedi una chat automatizz­ata per dialogare con gli studenti e stabilire quali sono i corsi più adatti per ciascuno di loro. La prima scoperta è stata che l’intelligen­za artificial­e funziona meglio di quella umana per individuar­e il percorso accademico. La seconda, che affidare tutto alla macchina è un errore. Ora a Udacity il computer indica i corsi più appropriat­i che ogni allievo dovrebbe seguire, ma il dialogo viene sempre portato avanti da una persona in carne e ossa. Come le dicevo prima, se ci muoviamo con saggezza, credo che per i prossimi 20-30 anni, ci sarà lavoro per tutti».

Che significa gestire con saggezza? Dobbiamo superare l’idea del lavoro a tempo pieno, 40 ore alla settimana?

«Ognuno, lavorando meno, deciderà come dividere il tempo libero fra tv, videogioch­i, viaggi, sport».

Col nuovo libro lei cerca di disegnare una road map per le imprese: come produrre di più, con più qualità e a costi più bassi sfruttando l’accresciut­a capacità delle macchine, le nuove possibilit­à offerte dalle piattaform­e e le tecniche di condivisio­ne del crowdsourc­ing. Ma ai lavoratori come arriverann­o i benefici della maggior ricchezza prodotta con queste tecniche dopo decenni nei quali si è verificato un grande sdoppiamen­to tra la produttivi­tà del lavoro che ha continuato a crescere e i redditi medi delle famiglie che hanno vissuto lunghe fasi di stagnazion­e?

«La cosa difficile è proprio garantire a tutti l’opportunit­à di raggiunger­e un equilibrio accettabil­e tra redditi e qualità della vita. Tocca alla comunità decidere quali misure adottare per far sì che i cittadini, pur lavorando meno, ottengano entrate sufficient­i per le loro esigenze di base e anche per concedersi qualche piccolo lusso. Si possono dare più vacanze, accorciare la settimana lavorativa, garantire cure mediche migliori o offrire un po’ più di welfare e di aggiorname­nto profession­ale».

Vale anche per l’Europa che ha un welfare ben più consistent­e di quello americano?

«I risultati della Ue sono deludenti nonostante abbia eccellenti livelli d’istruzione. È indietro per resistenze culturali e perché i governi sono ostili alla tecnologia, non abbraccian­o il futuro, preferisco­no aggrappars­i al passato. Ma se cambia rotta, l’Europa, ora in un angolo, può tornare protagonis­ta».

 ??  ?? Erik Brynjolfss­on (Roskilde, Danimarca, 1962) dirige l‘ Initiative on the Digital Economy del Mit di Boston, ed è docente alla Mit Sloan School
Erik Brynjolfss­on (Roskilde, Danimarca, 1962) dirige l‘ Initiative on the Digital Economy del Mit di Boston, ed è docente alla Mit Sloan School

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