Corriere della Sera - La Lettura
L’orecchino dei nobili longobardi
Un gioiello che ci giunge da un passato a lungo misterioso, da quell’Alto Medioevo per troppo tempo considerato un’epoca buia e che invece ci regala pezzi di puro artigianato e di rara oreficeria. Come quelli che fino al 3 dicembre sono esposti al Castello Visconteo di Pavia nella mostra Longobardi. Un popolo che cambia la storia, che poi verrà trasferita dal 21 dicembre al Mann di Napoli, per approdare infine ad aprile 2018 all’Ermitage di San Pietroburgo.
Nella penombra dello spazio espositivo delle Scuderie del Castello fasci di luce illuminano splendidi manufatti che testimoniano una notevole abilità nella lavorazione dei metalli da parte del popolo «dalle lunghe barbe». E questo orecchino d’oro, lungo poco più di 6 centimetri e spesso soltanto 4 millimetri, mostra tutta la sua raffinatezza, con il piccolo pendente cruciforme e la parte anteriore del gancio formati dalla combinazione di inserti in pasta vitrea policroma. Ma è il centro del gioiello che cattura subito il nostro sguardo con l’immagine clipeata di un busto femminile circondato da setti aurei a raggiera e da sottili occhielli un tempo destinati, come quelli ai lati del gancio, a ospitare un filo di perle andato perduto. Il verso presenta l’impressione del rovescio di un solido bizantino dell’imperatore Costante II (641-668), che suggerisce una datazione alla seconda metà del VII secolo e che, come ci ha segnalato Caterina Giostra, una dei curatori della mostra e docente di Archeologia medievale all’Università Cattolica di Milano, essendo realizzato nella parte nascosta di un monile femminile, più che a una funzione estetica o sociale, rimanda forse a un significato magico-apotropaico, come anche altri elementi decorativi ritrovati nella parte posteriore di fibule e cinture longobarde.
Se infatti impressioni di monete su oggetti rinvenuti in tombe maschili posso- no essere giustificati con il legame tra il defunto e il suo signore, per ornamenti femminili la spiegazione va ricercata in elementi culturali che risultano oggi avvolti da un alone di mistero.
La tecnica del gioiello, a smalto cloisonné, che era già nota nell’antico Egitto e che trova piena realizzazione in epoca bizantina, prevede l’inserimento dello smalto colato all’interno degli spazi tra i setti metallici applicati a un supporto, ricreando quasi un prezioso mosaico in miniatura; una tecnica «additiva» differente dalla decorazione champlevé di natura «sottrattiva», maggiormente diffusa più avanti in epoca romanica.
In mostra, vicino al piccolo capolavoro, è esposto anche un altro orecchino, quasi del tutto identico a questo tranne che per la chiusura, e una serie di preziosi oggetti di oreficeria provenienti dall’Archeologico di Napoli e noti come «Ori di Senise», dal nome della località in provincia di Potenza in cui sono stati rinve- nuti. Gli orecchini, una sottile croce, una fibula a disco, alcuni anelli e un frammento con incastonate piccole pietre indicano che i personaggi con essi sepolti dovevano essere di alto rango poiché utilizzavano gioielli di una produzione che seguiva il nuovo gusto dell’epoca.
Manufatti di grande pregio dimostrano come le oreficerie longobarde furono rivitalizzate dall’incontro con le influenze provenienti da Oriente — testimoniate in mostra anche dalla serie dei cosiddetti «ori bizantini» — e le tecniche di origine peninsulare diffuse nelle officine campane. Si tratta di gioielli prodotti nel ducato di Benevento, insieme a quello di Spoleto possedimento longobardo nella parte centro-meridionale della penisola, separato da quel regno nel Nord Italia che i re longobardi governavano dal loro palazzo di Pavia, da cui oggi parte questa «riabilitazione storica» di un popolo per lungo tempo considerato a torto barbaro.