Corriere della Sera - La Lettura
Quel che resta degli oceani
Francesca Piqueras insegue relitti del mare dal Bangladesh alla Mauritania: un caos di metalli, coaguli, concrezioni. Una mostra a Massa ospita 25 immagini di grande formato. Carmen Pellegrino, scrittrice di luoghi abbandonati, riflette sul senso della fi
Come fossero resti su una tavola a cui ieri eravamo seduti e, a seconda delle pance, abbiamo bevuto e mangiato, i relitti dicono di noi, talvolta in modo insopportabile. Non siamo forse quel che di noi ritroviamo? Residui industriali, ferrame, navi in secca o spezzate dai venti, trame di ruggine-licheni-polvere, questi resti vanno a marcire con tutti i segni del danno, agganciati alla sabbia, semiemersi dal mare, oppure fra le ortiche di uno spiano.
Sempre sono l’indizio di una storia che si è consumata altrove. Hai visto mai le vecchie piattaforme petrolifere: quante vite per un solo barile? E oggi, quante? Riscoprire relitti è un po’ questo: riprendersi il dimenticato (spesso rimosso, con un sospetto che chiama in causa lo scorno) per scoprire cosa ci ha portato fin qui, e in che modo. Una volta riscoperto, potrebbe divenire ricordo di cui impadronirsi per articolare storicamente il passato, come scrive Walter Benjamin nel suo Angelus Novus, strappandolo al conformismo che è in procinto di sopraffarlo. E, a quel punto, farlo nostro per difenderci dalla successione edipica del nuovo, l’agguato del sempre attuale che deve soppiantare il meno nuovo ancor prima che sia datato, come quest’ultimo aveva fatto con l’ormai vecchio. Dunque cose morte, per l’opinione corrente. Lacerti di passato e quindi ingombro, quasi un insulto alla vita, come tenersi intorno dei cadaveri. Cose morte senza essere inumate: il contagio è dietro l’angolo.
Ma sono davvero morte se scalfiscono l’impassibilità del tempo nella sua corsa? Il fatto è che dobbiamo essere felici, mostrarci tali dandocene l’aria. Il dovere di contribuire alla felicità collettiva è in capo ai singoli, non a caso nella Dichiarazione d’indipendenza americana viene fatto un chiaro riferimento al suo perseguimento. Ne consegue che le visioni malinconiche peccano contro la felicità, rischiano di contaminarci di cupezza, di farci sera sul viso, come certe vie strette di paese, con i lampioni fulminati e i portoni chiusi e guasti. Eppure, nel confondersi con ciò che non serve più si potrebbe restare fortificati, come dinanzi a una fine già avvenuta, che non spaventa più perché è anch’essa passata.
Se frughiamo i relitti con uno sguardo che non è solo esercizio retinico, sospendendo il pigro dire «rottami», potremmo da questi addirittura essere decifrati. «Giriamo in silenzio attorno al relitto, sprofondiamo nella stiva. Sono lei: sono lui», scrive Adrienne Rich in Esplorando il relitto.
C’è modo e modo di guardare ciò che resta quando la funzione cessa, quando il compito si è esaurito. Queste fotografie ne mostrano uno, il più suggestivo. Quando le cose smettono di essere oggetti comincia un brulicare di vita clandestina. Si rivestono di felci, muschi, ruggine e vogliono dirci qualcosa. In quello spazio liminare ci sopravvivranno, raccontando a chi andrà a domandare. Bisognerebbe averne cura, anche solo per ciò che potrebbero dire.