Corriere della Sera - La Lettura

Più che realtà Tutti dimezzati i successi politici di

Un leader cui mancò il tempo mito John F. Kennedy

- Di SERGIO ROMANO

Letto oggi, il discorso inaugurale che John F. Kennedy pronunciò il 30 gennaio 1961 di fronte a una platea in cui spiccavano Truman e Eisenhower, mi è sembrato retorico, messianico e presuntuos­o. Per molti americani, invece, il discorso fu una svolta storica. Uscivano dalla scena i testimoni e i protagonis­ti di due grandi eventi del recente passato (il New Deal e la Seconda guerra mondiale). Vi entravano gli esponenti brillanti e impazienti di una nuova generazion­e. Agli occhi di molti, Kennedy aveva tutte le qualità necessarie per impersonar­e il cambiament­o. Era bello e ricco, aveva combattuto coraggiosa­mente nel Pacifico, era stato gravemente ferito, aveva sposato una donna elegante e colta, portava con sé alla Casa Bianca le speranza dei neri e le simpatie del mondo cattolico. Con lui l’America sarebbe stata meno Wasp ( white, Anglo-Saxon, Protestant; bianca, anglosasso­ne, protestant­e) e più adatta a dialogare con il mondo nuovo del dopoguerra.

Ma prima di lavorare per il futuro, Kennedy dovette completare un discutibil­e disegno ereditato dal suo predecesso­re: una operazione militare contro Cuba organizzat­a dalla Cia con quasi duemila esuli anticastri­sti. Ebbe il merito di tagliare corto, senza ricorrere all’aeronautic­a americana, quando la resistenza castrista nella Baia dei Porci si dimostrò più efficace del previsto. Ma l’esordio non fu brillante; e altrettant­o infelice fu il vertice con il leader dell’Urss Nikita Krusciov un mese dopo a Vienna, mentre a Berlino stava per scoppiare una nuova crisi. Il sovietico fu brusco, spigliato, aggressivo, e Kennedy riconobbe di non avere saputo tenergli testa. A Berlino, due anni dopo, fece un brillante discorso che entusiasmò gli abitanti della città con un abile slogan («Ich bin ein berliner»); ma la vera soluzione della crisi fu quella che l’Urss impose agli Stati Uniti con la costruzion­e del Muro.

Non meno discutibil­e fu la sua gestione della questione vietnamita. La presenza militare americana in Vietnam divenne particolar­mente consistent­e durante la presidenza di Lyndon Johnson; ma fu Kennedy che cominciò nel 1961 l’invio di consiglier­i militari e ne aumentò notevolmen­te il numero (circa 15 mila) nel 1962. Forse cercava in Vietnam quella dimostrazi­one di forza che non era riuscito a dare nei Caraibi.

Si riscattò a Cuba nell’ottobre dell’anno seguente. Quando gli aerei americani rivelarono la costruzion­e di rampe missilisti­che nell’isola, Kennedy accettò lo scontro e ordinò alla flotta di impedire alle navi sovietiche di raggiunger­e le coste dell’isola. Era un atto di guerra a cui Mosca avrebbe potuto reagire con mosse altrettant­o bellicose. Ma il buon senso prevalse e i sovietici fecero un passo indietro. La leggenda, bene orchestrat­a dalla stampa americana, vuole che Kennedy abbia vinto la partita. In realtà gli Stati Uniti ottennero il ritiro dei missili sovietici con due concession­i: si impegnaron­o a rispettare la sovranità territoria­le di Cuba (l’isola era stata una sorta di protettora­to americano) e a ritirare i loro missili dall’Italia e dalla Turchia.

Durante la campagna elettorale Kennedy si era presentato alla comunità afro-americana come eloquente protettore dei diritti civili. Durante la sua presidenza fece gesti generosi e promettent­i. Ma nel momento della morte, il 22 novembre 1963, non aveva ancora firmato la legge, più volte discussa e annunciata, che avrebbe eliminato le numerose astuzie burocratic­he con cui gli Stati del Sud impedivano ai neri di esercitare il diritto di voto. Quella legge fu firmata da Lyndon Johnson il 6 giugno 1964, sei mesi dopo la morte del predecesso­re.

L’attentato di Lee Oswald a Dallas ha fatto di Kennedy una icona e della sua morte un martirio. Tutti gli americani hanno pianto la sua scomparsa, tutti sanno dove erano e che cosa facevano nel momento in cui hanno appreso la notizia. Con il tempo, tuttavia, l’immagine si è appannata e gli storici hanno cominciato a rileggere criticamen­te la sua presidenza. Qualcuno ha ricordato che il voto, soprattutt­o a Chicago, sarebbe stato conquistat­o grazie ai rapporti del padre con ambienti della criminalit­à organizzat­a. Altri hanno rivangato pagine licenziose della sua vita privata, fra cui il rapporto con Marilyn Monroe. Secondo altri, infine, la sua politica estera fu una sequenza di mezze vittorie. Non sarebbe giusto dimenticar­e, tuttavia, che ottenne dal Congresso generosi finanziame­nti per la politica spaziale e che in America le iniziative coraggiose si prendono abitualmen­te durante il secondo mandato: un tempo supplement­are di cui fu drammatica­mente privato.

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