Corriere della Sera - La Lettura
Più che realtà Tutti dimezzati i successi politici di
Un leader cui mancò il tempo mito John F. Kennedy
Letto oggi, il discorso inaugurale che John F. Kennedy pronunciò il 30 gennaio 1961 di fronte a una platea in cui spiccavano Truman e Eisenhower, mi è sembrato retorico, messianico e presuntuoso. Per molti americani, invece, il discorso fu una svolta storica. Uscivano dalla scena i testimoni e i protagonisti di due grandi eventi del recente passato (il New Deal e la Seconda guerra mondiale). Vi entravano gli esponenti brillanti e impazienti di una nuova generazione. Agli occhi di molti, Kennedy aveva tutte le qualità necessarie per impersonare il cambiamento. Era bello e ricco, aveva combattuto coraggiosamente nel Pacifico, era stato gravemente ferito, aveva sposato una donna elegante e colta, portava con sé alla Casa Bianca le speranza dei neri e le simpatie del mondo cattolico. Con lui l’America sarebbe stata meno Wasp ( white, Anglo-Saxon, Protestant; bianca, anglosassone, protestante) e più adatta a dialogare con il mondo nuovo del dopoguerra.
Ma prima di lavorare per il futuro, Kennedy dovette completare un discutibile disegno ereditato dal suo predecessore: una operazione militare contro Cuba organizzata dalla Cia con quasi duemila esuli anticastristi. Ebbe il merito di tagliare corto, senza ricorrere all’aeronautica americana, quando la resistenza castrista nella Baia dei Porci si dimostrò più efficace del previsto. Ma l’esordio non fu brillante; e altrettanto infelice fu il vertice con il leader dell’Urss Nikita Krusciov un mese dopo a Vienna, mentre a Berlino stava per scoppiare una nuova crisi. Il sovietico fu brusco, spigliato, aggressivo, e Kennedy riconobbe di non avere saputo tenergli testa. A Berlino, due anni dopo, fece un brillante discorso che entusiasmò gli abitanti della città con un abile slogan («Ich bin ein berliner»); ma la vera soluzione della crisi fu quella che l’Urss impose agli Stati Uniti con la costruzione del Muro.
Non meno discutibile fu la sua gestione della questione vietnamita. La presenza militare americana in Vietnam divenne particolarmente consistente durante la presidenza di Lyndon Johnson; ma fu Kennedy che cominciò nel 1961 l’invio di consiglieri militari e ne aumentò notevolmente il numero (circa 15 mila) nel 1962. Forse cercava in Vietnam quella dimostrazione di forza che non era riuscito a dare nei Caraibi.
Si riscattò a Cuba nell’ottobre dell’anno seguente. Quando gli aerei americani rivelarono la costruzione di rampe missilistiche nell’isola, Kennedy accettò lo scontro e ordinò alla flotta di impedire alle navi sovietiche di raggiungere le coste dell’isola. Era un atto di guerra a cui Mosca avrebbe potuto reagire con mosse altrettanto bellicose. Ma il buon senso prevalse e i sovietici fecero un passo indietro. La leggenda, bene orchestrata dalla stampa americana, vuole che Kennedy abbia vinto la partita. In realtà gli Stati Uniti ottennero il ritiro dei missili sovietici con due concessioni: si impegnarono a rispettare la sovranità territoriale di Cuba (l’isola era stata una sorta di protettorato americano) e a ritirare i loro missili dall’Italia e dalla Turchia.
Durante la campagna elettorale Kennedy si era presentato alla comunità afro-americana come eloquente protettore dei diritti civili. Durante la sua presidenza fece gesti generosi e promettenti. Ma nel momento della morte, il 22 novembre 1963, non aveva ancora firmato la legge, più volte discussa e annunciata, che avrebbe eliminato le numerose astuzie burocratiche con cui gli Stati del Sud impedivano ai neri di esercitare il diritto di voto. Quella legge fu firmata da Lyndon Johnson il 6 giugno 1964, sei mesi dopo la morte del predecessore.
L’attentato di Lee Oswald a Dallas ha fatto di Kennedy una icona e della sua morte un martirio. Tutti gli americani hanno pianto la sua scomparsa, tutti sanno dove erano e che cosa facevano nel momento in cui hanno appreso la notizia. Con il tempo, tuttavia, l’immagine si è appannata e gli storici hanno cominciato a rileggere criticamente la sua presidenza. Qualcuno ha ricordato che il voto, soprattutto a Chicago, sarebbe stato conquistato grazie ai rapporti del padre con ambienti della criminalità organizzata. Altri hanno rivangato pagine licenziose della sua vita privata, fra cui il rapporto con Marilyn Monroe. Secondo altri, infine, la sua politica estera fu una sequenza di mezze vittorie. Non sarebbe giusto dimenticare, tuttavia, che ottenne dal Congresso generosi finanziamenti per la politica spaziale e che in America le iniziative coraggiose si prendono abitualmente durante il secondo mandato: un tempo supplementare di cui fu drammaticamente privato.