Corriere della Sera - La Lettura
La vergogna della vergogna
Romanzi e saggi, serie tv e dibattiti esplorano una delle più sotterranee emergenze della società: il disagio giovanile e la sua conseguenza estrema. «Perché — spiega Pietropolli Charmet, psichiatra — se una generazione fa era il senso di colpa a scatenar
Disagio, solitudine, bullismo, senso di vergogna: la vita sul pianeta adolescenza è piena di contrasti e loro, i ragazzi, vogliono parlarne. Amano chi sa raccontarli con onestà e adesione, chi non nasconde la realtà e i suoi aspetti più oscuri. Anche dal tema del suicidio, il grande tabù da cui gli adulti tendono a ritrarsi impauriti (perché spesso privi di strumenti per affrontarlo), i ragazzi non fuggono. E non si tratta soltanto del successo di 13 Reasons
Why (Tredici ragioni perché), la conturbante serie di Netflix tratta dal romanzo young adult che Jay Asher pubblicò nel 2007. La storia di Hannah Baker, liceale che si toglie la vita lasciando su audiocassette numerate 13 ragioni (persone) che l’hanno portata a compiere quel gesto, è diventata una serie tv ed è stata uno degli eventi di quest’anno. Al di là degli elogi, degli allarmi e dei dibattiti, a volte rabbiosi, che ha suscitato, la serie ha avuto il merito di portare all’attenzione di tutti un tema importante su cui si accendono fiammate di interesse quando la cronaca lo sbatte in prima pagina. Eppure, come spiega a «la Lettura» Maurizio Pompili, responsabile del Servizio per la prevenzione del suicidio del Sant’Andrea di Roma, psichiatra che alla Sapienza insegna (unico in Italia) suicidologia, «secondo i dati dell’Oms è la seconda causa di morte dai 15 ai 29 anni. Un fenomeno aumentato fino al 300 per cento rispetto agli anni Sessanta». Sono spesso stime al ribasso perché, aggiunge Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra di formazione freudiana, autore di numerosi testi tra cui Uccidersi. Il
tentativo di suicidio in adolescenza, con Antonio Piotti (Raffaello Cortina), «l’epidemiologia è incerta e la classificazione dell’evento è spesso difficile per chi lavora in un pronto soccorso».
Jennifer Niven è l’autrice di alcuni libri youg adult che pesano il disagio con misura. Nell’ultimo, L’universo nei
tuoi occhi (DeA Planeta), racconta della ragazza più grassa della scuola e del bullo che la prende di mira. Ma il suo bestseller rimane Raccontami di un giorno perfetto (De Agostini), la storia di due adolescenti che si incontrano sul cornicione della loro scuola e guardano giù, tentati, per motivi diversi, dal lanciarsi di sotto. «Da quando è stato pubblicato — racconta a “la Lettura” — ho avuto la fortuna di girare il mondo per incontrare i ragazzi. Le cose che mi sono sentita dire più spesso sono: grazie per avermi fatto capire che non sono solo, che conto qualcosa e che merito amore». Niven è molto apprezzata anche in Italia (ha vinto il premio Mare di libri 2016) e queste cose le ha ascoltate anche dai ragazzi che al Festivaletteratura di Mantova, lo scorso settembre, hanno incontrato lei e Nina LaCour, altra autrice americana che ha scritto del disagio degli adolescenti, di una ragazza che si uccide e della sua amica che si trova ad affrontare il nuovo anno scolastico con quel banco vuoto accanto ( Ferma così, Edt- Giralangolo).
La narrativa del disagio
Niven e LaCour negli incontri raccontano la loro storia e i ragazzi raccontano la propria. «Credo che molti adolescenti si sentano a loro agio perché sanno che io li capisco, che sono passata attraverso la perdita, il dolore. In Italia ne ho incontrati molti. Sono appassionati, sensibili, diretti; vogliono parlare del suicidio da tutti i punti di vista. Fanno domande forti, dure, e non hanno paura di andare in profondità», dice Niven. La sua storia la offre spesso ai giovani: «Sono una sopravvissuta. Raccontami
di un giorno perfetto parla di un ragazzo che amavo e della nostra relazione. Un ragazzo che combatteva ogni giorno per stare al mondo. Era bipolare, depresso, ma era anche una delle persone più vive che io abbia mai in-
contrato». Anche Nina LaCour in America viene spesso invitata a parlare nelle scuole in cui si sono verificati casi di suicidio. «A volte gli educatori pensano che il mio romanzo possa aiutarli. Parlarne è difficile. Sono storie dolorose e lo stigma che le circonda è potentissimo». Anche lei, come Niven, condivide la sua storia personale. «Quando ero in prima superiore un compagno di classe si suicidò. Non era il mio migliore amico ma mi piaceva, facevamo insieme i compiti, parlavamo. Era intelligente, creativo; aveva un grande senso dell’umorismo. Sono passati vent’anni da allora e pensare a lui mi emoziona ancora. Non credo che sia un peso che si possa alleggerire con il tempo. Anzi, più invecchio e più mi sembra tragico che non abbia potuto ottenere l’aiuto di cui aveva bisogno». LaCour non è sicura che, per questo motivo, gli studenti si fidino di più di lei. «Io ricordo bene com’era avere la loro età e dover affrontare l’orrore, la confusione, la tristezza e questo mi aiuta a mettermi in relazione con loro. Non fingo di avere tutte le risposte perché non è così. Però c’è qualcosa di profondo nell’essere capace di dire: è successo, mi ha devastato e mi devasta ancora».
Bulli e cyberbulli
Del fatto che la morte sia «una storia da raccontare», anche ai più giovani, è convinto Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore per ragazzi. Anche il suo libro, Cosa saremo poi (Lapis), scritto con Luisa Mattia, racconta un tentato suicidio: Lavinia l’ha fatto dopo essere diventata, in rete, l’oggetto dello scherno dei suoi compagni. «Queste tematiche — ci dice — emergono sempre più precocemente. La nostra scelta, parlando di cyberbullismo, è stata di non fare pubblicità al male. C’è sempre una linea sottile». Lavinia fa un gesto forse più dimostrativo che altro: «Noi abbiamo cercato di dire come si recupera, come si ricomincia a vivere». All’inizio Jennifer Niven era intimidita all’idea di scrivere un libro che parlasse di suicidio: «L’ultima cosa che volevo era dare un’idea romantica di un soggetto così doloroso, sfruttarlo per vendere i libri. Così quando mi sono messa a lavorare ho scritto con il cuore e con l’esperienza, con la verità di ciò che conoscevo». Ballerini riassume: «Ci vuole onestà da parte dell’autore. La nostra società sta virando verso le emozioni. Ci sono corde che sono facili da far vibrare. Fare i furbi significa voler emozionare, commuovere piuttosto che proporre spunti di pensiero. Ma i ragazzi meritano qualcosa di più».
Il libro di Ballerini e Mattia centra una delle peculiarità del disagio adolescenziale dei giorni nostri. Perché, dice Pompili, «se, negli ultimi decenni, l’aumento dei casi di suicidio è dovuto a cause socio-culturali come l’abuso di sostanze e più recentemente ad altre condizioni come la difficoltà di vivere le differenze sessuali, il che crea uno strappo nel vissuto, oggi le cause sono sopratutto bullismo e cyberbullismo». Pochi giorni fa il ministero dell’Istruzione ha emanato le Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, previste dalla legge 71 del 29 maggio 2017 che attribuisce a una pluralità di soggetti compiti e responsabilità ben precisi, ribadendo il ruolo centrale delle scuole. È del cyberbullismo che gli esperti sono particolarmente preoccupati perché si tratta di un fenomeno in espansione, difficile da controllare: «Mentre il bullismo avveniva all’interno di una classe o di una scuola, quindi rimaneva in un ambito ristretto, la rete può potenzialmente allargarlo in modo esponenziale», dice Pietropolli Charmet. L’attenzione di genitori, insegnanti, operatori è concentrata su questo. «La maggior parte dei giovani usa i social network e si stima che uno su 6 sia soggetto a cyberbullismo. Le statistiche — spiega Pompili — ci dicono che prevale il sesso femminile, le ragazze sono due volte più soggette rispetto ai maschi. La cosa triste è che solo una su 10 tra le vittime riesce a chiedere aiuto e quindi gli altri 9 rimangono segnati, con una vulnerabilità che si portano dentro».
Il corpo è un campo di battaglia
Gustavo Pietropolli Charmet, che a BookCity sarà protagonista di un incontro sulle difficoltà dei passaggi esistenziali, è fondatore dell’Istituto Minotauro di Milano dove dirige il consultorio gratuito lavorando quasi esclusivamente «con ragazzi che hanno attaccato il corpo». È stato, per 8 anni, direttore del comitato scientifico al Crisis Center de L’amico Charly, l’onlus nata nel 2001 a Milano dopo la tragica scomparsa di Charly Colombo, allora sedicenne. Con i suoi colleghi si è occupato di circa 800 ragazzi (e delle loro famiglie) che hanno tentato il suicidio. «Il cyberbulling è particolarmente efficace — spiega — perché nell’adolescenza internet è il mezzo attraverso cui dovrebbe arrivare la fama, la notorietà, l’ammirazione. Invece arrivano dileggio, denigrazione, calunnie. Fino a 20-25 anni fa si pensava che il suicidio in adolescenza fosse innescato, favorito, da un profondo sentimento di colpa, riattivato da un momento di fallimento. L’adolescente voleva riscattarsi e il suicidio aveva un aspetto espiatorio, punitivo. Parlando con gli adolescenti è abbastanza facile capire come il sentimento prevalente invece oggi non sia la colpa ma la vergogna».
È il contesto sociale ed educativo che è cambiato: «I valori morali, la colpa, il peccato si sono molto alleggeriti e dominano invece il bisogno di bellezza, di successo, la rincorsa verso l’ammirazione». La vergogna come causa e il gruppo dei coetanei («la classe, la squadra,
l’oratorio») come giudici chiamati a decidere dell’adeguatezza, della legittimità a vivere degli altri. «Se il giudizio è negativo — continua Pietropolli Charmet — bisogna farsene carico attaccando violentemente il corpo». I modi sono diversi: «Per esempio dimagrendo come nel caso di disturbi alimentari, oppure facendolo scomparire dallo sguardo degli altri, come nel caso degli hikikomori, ragazzi che vivono reclusi in casa. Oppure cercando di ottenere modificazioni importanti attraverso la palestra, allenamenti intensivi o altro. Il corpo invece di diventare una risorsa diventa il nemico». Allora il principale fattore di rischio è quella che Pietropolli Charmet definisce «la fragilità narcisistica» che si combina con «l’istigazione da parte della società in cui vivono a una competizione molto elevata: scolastica, sportiva, sociale, sessuale. Pensi di essere perdente e pensi di esserlo per una causa non modificabile, cioè la biologia che ti ha dato un corpo che non va bene».
Insomma non è l’etica ma l’estetica che condanna. «Sono inadeguato, faccio schifo, meglio che mi tolga di mezzo, sono i pensieri che prevalgono», dice Pietropolli Charmet. «Bisogna punire il corpo che dovrebbe esprimere la tua vera femminilità o la tua virilità, cioè canoni che sono qualcosa di più della bellezza, che esprimono il tuo valore intimo, la tua appartenenza al genere». Ciò che prova un ragazzo che si sente umiliato e rifiutato è una rabbia molto intensa, un senso di vendetta, un desiderio di farla pagare agli altri e un bisogno di trionfo. «Purtroppo il suicidio o il tentato suicidio — continua lo psicoterapeuta — mettono a disposizione, regalano direi, tutti questi elementi ampiamente consolatori e vendicativi».
Alla base, sottolinea Pompili, c’è comunque una vulnerabilità: «Questi soggetti, in generale, non soltanto i giovani, vivono una condizione di dolore mentale che prende sempre più piede: sono emozioni negative con cui ci si confronta e si soffre. Per il dolore mentale non abbiamo rimedi così prontamente disponibili come quelli che abbiamo per il dolore fisico. Quando la soglia di dolore viene superata ci si convince che la morte sia l’unica soluzione. Spesso però non si vuole morire ma essere aiutati a superare una sofferenza. Bisogna riuscire a inserirsi in questo dialogo interiore». La rete spesso funziona da amplificatore: «Perché ci sono siti che promuovono il suicidio, che spiegano come fare e che andrebbero censurati».
Non indurre in emulazione
L’elemento mediatico ha avuto un forte impatto anche su una delle emergenze più recenti, «la Blue Whale — dice Pietropolli Charmet — e tutte quelle proposte di riti iniziatici che mettono alla prova, sfidano». Nonostante il suicidio giovanile si configuri come un’emergenza, parlarne è ancora tabù. L’esperienza di Ballerini dice proprio questo: «Per i ragazzi di solito il problema è: non sappiamo con chi parlarne». «Si teme che facendolo si possa aumentare il rischio — sostiene Pompili — ma non ci sono prove a sostegno di questa ipotesi. Parlarne è l’elemento preventivo principale ma bisogna farlo con strumenti in mano e modalità opportune». Il problema, dice Pietropolli Charmet, è che «non ci sono in circolazione, in famiglia e nella scuola, adulti disponibili a parlarne nonostante si sappia che il 20 per cento degli adolescenti che frequentano la scuola superiore flirta con la morte». Un dato a cui si è arrivati attraverso una grande raccolta di questionari che, per quanto siano «strumenti di valutazione opinabili perché non sono un approfondimento qualitativo ma tentativi di quantificare il fenomeno», concordano a livello internazionale.
Ma che cosa significa flirtare con la morte? «Significa — risponde Pietropolli Charmet — avere una fantasia che di solito a una certa età si esaurisce ma, in alcuni casi, diventa progettuale. Bisognerebbe riuscire a captare i segnali quando l’adolescente configura lo scenario di morte». La sfida, secondo Ballerini, è accettare che «quello sulla morte è un pensiero che può venire e, come tutti i pensieri, va sottoposto a giudizio. Credo che il suicidio sia una svista, l’impressione di una soluzione quando in realtà è il gesto che le annulla tutte. Poterlo mettere a tema, renderlo dicibile è un passaggio importante. Le questioni che premono hanno bisogno di essere dette, e anche di essere lette, per esempio nei libri».
Si tratta sempre di un equilibrio difficile tra un bisogno di dire e una discrezione che nasce dalla necessità di «non fare promozione, non indurre in tentazione», continua Ballerini. Il rischio dell’emulazione c’è sempre ed è reale. «In una scuola dove un ragazzo si è suicidato — dice Pietropolli Charmet — ce n’è spesso un altro che dice: ecco, lui sì che è stato coraggioso, l’ha fatto sul serio. Perché a quell’età chi è morto sul campo di battaglia è un eroe». Il rischio dell’emulazione è ampiamente verificato e codificato. «Nel limitare il fenomeno del contagio una grande responsabilità — avverte Pompili — ce l’hanno anche i media che dovrebbero adeguarsi a linee guida condivise, anche a livello internazionale. Quindi: riportare le notizie in maniera non sensazionalistica e porre attenzione quando c’è di mezzo un personaggio famoso per non far passare un messaggio eroico».
Vittime e Survivor
Quella che viene chiamata postvention (gli interventi che si mettono in atto dopo un suicidio) è, in un certo senso, una forma di prevenzione. «Da anni — aggiunge Pietropolli Charmet — noi facciamo questo monitoraggio rispondendo alle richieste da parte degli istituti in cui si è verificato o un suicidio o un tentativo serissimo. Veniamo chiamati per aiutare classi ferite e traumatizzate. Basta entrare in un’aula il giorno dopo, vedere il banco vuoto per capire il dolore dei coetanei, lo sgomento, la confusione. Spesso i professori non sanno che cosa fare e tutti delegano o al preside o allo psichiatra. In realtà è un complicato momento educativo, utile se si vogliono prevenire altri comportamenti simili. Non bisogna mai prendere alla leggera un tentativo di suicidio, per quanto possa sembrare che i mezzi per togliersi la vita siano del tutto inadeguati».
Anche i survivor, cioè i famigliari, gli amici, i compagni di classe di chi si è suicidato vanno sostenuti, spiega Pompili. «E per loro si fa molto poco, lo ricorderemo il 18 novembre nella Giornata internazionale dedicata ai sopravvissuti». La struttura che dirige viene contattata da un gran numero di persone e di famiglie: «Sul territorio non c’è molto. Eppure è un tema forte perché il suicidio, soprattutto di un adolescente, è un evento che squarcia famiglie, comunità, scuole».
Lo psichiatra Maurizio Pompili: «La prevenzione si fa parlandone». L’autore per ragazzi e psicoanalista Luigi Ballerini: «Poter portare in primo piano una questione dolorosa, renderla dicibile, è indispensabile». Le esperienze personali delle scrittrici Jennifer Niven e Nina LaCour: «Le condividiamo con i ragazzi»