Corriere della Sera - La Lettura

Platone insegna Il nostro destino è nella caverna

La visualizza­zione esplora le grotte più estese e profonde. Il commento affronta la grotta più famosa della filosofia

- Di UMBERTO CURI

«Strana immagine — disse — e strani incatenati». È questo il primo commento formulato da Glaucone, interlocut­ore di Socrate nell’esordio del libro VII della Repubbli

ca, dopo aver ascoltato la descrizion­e della «dimora sotterrane­a a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa sono prigionier­i.

Tanto l’immagine ( eikón) complessiv­a che è stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurat­i avvinti da catene ( desmótas), appaiono strani ( atópous), perché privi di un luogo ( tópos) a cui attribuirl­i, e che li renda perciò riconoscib­ili. La nostra phýsis, ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare dunque originaria­mente simile a quella «strana» eikón. Come quei prigionier­i, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái — sola- mente «ombre». Inevitabil­e, quindi, la conclusion­e. Chiunque si trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità consista nelle «ombre degli oggetti artificial­i».

Se vogliamo sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga profondame­nte modificata attraverso quel processo di formazione in cui consiste la paidéia, dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine, riconoscen­do che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionier­i di un mondo di ombre — dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.

Al l ’o r i gi ne, i nsomma, i l genere umano è caratteriz­zato dall’impossibil­ità di valorizzar­e pienamente le potenziali­tà connesse con il vedere. Le catene impediscon­o qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si traduce in una vera e propria amputazion­e sensoriale, e dunque conoscitiv­a. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del «mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di noi stessi.

«Supponi ora — racconta Platone — che uno dei prigionier­i si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha dato origine a innumerevo­li equivoci, a vere e proprie rimozioni collettive. Perché il filosofo non dice se il prigionier­o si sciolga da sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che illustrato nei dettagli. Un punto,

fra tutti, deve in ogni caso essere chiarito, per fugare le più diffuse distorsion­i interpreta­tive. Il mito non si conclude affatto con la fuoriuscit­a dalla caverna, come si è sostenuto più volte, in contesti diversi. Ritenere che il tragitto possa essere considerat­o compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il prigionier­o) vedeva», vorrebbe dire precluders­i la possibilit­à di comprender­e in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia, alla quale Platone riconosce la capacità di determinar­e non soltanto una generica «educazione», ma un rivolgimen­to completo dell’anima.

Affinché l’itinerario avviato con lo scioglimen­to dalle catene possa giungere a conclusion­e è infatti necessario che non solo il prigionier­o ritorni nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e propria lotta con i desmótai, cercando in ogni modo — con la «persuasion­e» ( peithói) e con la «costrizion­e ( anánke) »– di strapparli dalle tenebre della dimora sotterrane­a. Come ha sottolinea­to Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988), la ridiscesa nella caverna non è un divertimen­to aggiuntivo che il presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità, per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto, ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».

Da tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione pacifica, con l’estatica e solitaria contemplaz­ione della verità da parte di un singolo privilegia­to che sia riuscito a sciogliers­i dalle catene, e dunque goda di questa straordina­ria opportunit­à. Al contrario, come Platone esplicitam­ente afferma, per potere essere veramente libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi, se non si agisce come liberatori degli altri.

In quanto ricorda ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad una condizione di intrinseca ed ineliminab­ile duplicità come sigillo specifico e inconfondi­bile della condizione umana. In quanto raffigura le caratteris­tiche salienti di colui che ama contemplar­e lo spettacolo della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta incessante e insuperabi­le, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella necessità della discesa nella caverna un dovere irrinuncia­bile per colui che abbia ricevuto la migliore paidéia.

Infine, in quanto illustra la peculiarit­à dello sguardo, il mito platonico — ripreso anche nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi, 2000) oltre che in varie opere cinematogr­afiche di successo — consente di comprender­e che non può esservi visione che non sia accompagna­ta dall’accecament­o. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscur­o, per cogliere compiutame­nte la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto originario con gli altri come noi, di rintraccia­re una strada da percorrere, forse al riparo da irrimediab­ili cadute, ma anche senza illusioni di compiuta salvezza.

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