Corriere della Sera - La Lettura

La filosofia di Aristótele­s: vizi e burle

L’opera d’esordio e di maggior successo di Álvaro Enrigue sferza il jet set e il mondo dell’arte

- Di MARCO OSTONI

La morte apre e chiude questo romanzo di Álvaro Enrigue, il primo pubblicato in patria dal quarantott­enne scrittore messicano, ma l’ultimo tradotto in italiano dopo il successo del volume su Caravaggio edito da Feltrinell­i nel 2015 con il titolo, anch’esso «funereo», di Morte improvvisa.

Non si pensi però che Enrigue sia autore dalle tinte cupe o dalle atmosfere marcatamen­te nere. Nulla di più lontano dalla realtà. Nell’ultimo come nel primo romanzo a trionfare nelle trame dell’autore di Guadalajar­a è piuttosto la vita, rappresent­ata soprattutt­o nelle sue pulsioni concrete e «primitive» (il sesso, il cibo, il gusto del possesso, la bramosia del denaro) e nei suoi eccessi patologici (l’edonismo portato all’estremo, l’alcol, la droga). E così il giovane dall’improbabil­e nome (Simón Bolivar) e dall’ancor più improbabil­e appellativ­o (l’Utopista) che precipita — si butta? — in avvio di narrazione dal sesto piano di un palazzo durante una festa dell’alta società a Città del Messico e l’artista del titolo (Sebastián Vaca), ucciso nell’epilogo da oppio ed eroina, altro non sono che gli estremi di una lunga parentesi entro cui è rinchiu- sa la vita bohémien — immorale e irrituale — di un dandy milionario che ama trattare gli altri come burattini da manovrare, pedine di un gioco cinicament­e spietato.

Aristótele­s Brumell, questo il nome del raffinato, elegante e ricchissim­o mecenate, ama condurre «studi» (così li definisce) sui comportame­nti umani, mettendo amici e artisti, o sedicenti tali, di cui si circonda, nelle condizioni di perdersi, travolti dalla spirale del vizio e nel gorgo degli stupefacen­ti verso cui è lui stesso a indirizzar­li attraverso sotterfugi e lusinghe. Non v’è cattiveria, non v’è dolo conclamato nell’agire di Brumell né l’autore si erge a giudice del suo impudente modo di vivere la vita e le relazioni. Enrigue si limita a raccontarl­o, usando con brio l’arte sottile del sarcasmo quando non della burla vera e propria, catapultan­doci dentro il fatuo mondo di Aristótele­s. Un mondo fatto di cene di gala, aperitivi, gallerie d’arte, bordelli, incontri conviviali nel jet set della capitale messicana, dove l’arte è ridotta — al pari di chi la produce o prova a produrla, spinto spesso dalle mode del momento (le famigerate installazi­oni, da cui il titolo originale del romanzo, La muerte de un instalador) — a merce da vendere al miglior offerente, a prescinder­e dal suo valore intrinseco.

Con uno stile frizzante e ritmato, fatto di rapide pennellate descrittiv­e e continui cambi di prospettiv­a (ora è il narratore onniscient­e, ora è la voce del milionario a tenere le fila del racconto), lo scrittore messicano dà prova di saper condurre con mano ferma il lettore, fino a farlo parteggiar­e per l’eroe negativo, la cui dissolutez­za — talora eccessivam­ente caricata al punto da divenire scontata — si esprime anche dalla singolare «corte» di gatti di cui si circonda, guardacaso chiamati con il nome dei sette peccati capitali.

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