Corriere della Sera - La Lettura
In carcere per Cristo. Negli Usa
Dilemmi Greta Lindecrantz, detective mennonita, non depone in tribunale: le sue parole potrebbero portare l’imputato alla condanna a morte. Il procuratore la attacca, gli attivisti e la sua gente (e i vescovi cattolici) la difendono
In carcere per la sua fede cristiana. Negli Stati Uniti, non in un Paese musulmano. Più precisamente in Colorado, contea di Arapahoe. Greta Lindecrantz è un’investigatrice privata che ha lavorato per la difesa in un caso di omicidio. L’imputato, Robert Ray, è stato condannato a morte perché colpevole di concorso nell’assassinio di un testimone in un altro processo. L’avvocato di Ray ha presentato appello perché la difesa non avrebbe potuto fare bene il suo lavoro. Il giudice ha convocato Greta per sentire dalla sua voce come sono andate le cose.
Per il diritto americano l’investigatrice ha l’obbligo di presentarsi e di dire la verità. Davanti alla citazione, Greta Lindecrantz si è resa conto che la sua testimonianza avrebbe potuto condurre il giudice a respingere l’appello e a confermare la sentenza capitale. Si sarebbe così resa complice della morte di un uomo, contro il comandamento di non uccidere sacro alla sua fede di cristiana mennonita. Così Greta ha detto di no. In tribunale, davanti al giudice. Il quale ne ha ordinato l’arresto. Quando è stata riportata davanti al giudice una seconda volta, stavolta nel completo arancio dei detenuti, non ha cambiato versione. Ha guardato il giudice e in lacrime ha detto: «È come se dovessi scegliere tra lei e Dio».
Nella foto segnaletica diffusa dalle autorità Greta è sorridente, porta bene i suoi 67 anni. Gli occhi azzurri e i lineamenti squadrati fanno pensare ai fratelli mennoniti tedeschi e olandesi di quattro secoli fa, costretti a fuggire dalle persecuzioni nell’Europa delle guerre di religioni, e infine a imbarcarsi per l’America. In un video girato in carcere, Greta Lindecrantz è invece prostrata. Ha in mano la cornetta con cui comunica con il giornalista dall’altra parte del vetro e dice che lei ha fatto soltanto il suo lavoro, che non avrebbe mai immaginato di trovarsi per questo privata della «libertà religiosa e personale». Fuori della casa di detenzione si è radunato un piccolo gruppo di mennoniti. È la comunità di Greta. Cantano gli inni che li hanno resi famosi.
La notizia rimbalza lontano. L’America è abituata a casi del genere ma non ne è mai stanca. Le piccole comunità protestanti sono nel suo Dna. La radicalità religiosa appassiona. Ogni nuova sfida all’autorità pubblica rinnova il ciclo vitale di credenti e uomini di Stato a confronto da una parte e dall’altra di quel muro di separazione tra chiese e Stato che la Corte suprema nel 1947 volle alto e impene- trabile, e che si dimostra ogni volta basso e poroso.
Il caso di Greta finisce così sul «Washington Post», sul «New York Times». Il procuratore distrettuale George Brauchler si presenta davanti alle tv: «Non sono qui per giudicare le sue convinzioni religiose o per determinarne la legittimità. Presumo siano sincere. La prendo sul serio. Dico però che avrebbe dovuto aspettarselo. Quando ha assunto un incarico così critico in un caso tanto delicato, quando ha accettato il lauto compenso pagato dai contribuenti, era ampiamente prevedibile che si sarebbe trovata in questa situazione».
Greta rischia di dover restare in carcere fino a un massimo di sei mesi. «La prigione è la prigione — dichiara — per me come per ogni altro detenuto». La fragilità del suo aspetto e l’emozione della voce contrastano con la determinazione. Un mennonita ha risorse profonde per far fronte alla durezza della condizione carceraria e all’ostilità dello Stato. Come i fratelli e le sorelle di fede, Greta è abituata alla fatica di una vita senza le comodità del progresso, alla solitudine del credente pacifista in una terra di credenti armati, alla testimonianza del non uccidere nella nazione della giustizia letale. Il primo emendamento alla Costituzione americana che Greta invoca dal carcere, quello del libero esercizio della religione, è per lei mennonita davvero il primo. Per masse di cristiani americani, invece, esso è pari al secondo emendamento, quello che garantisce la libertà di portare armi e di uccidere per autodifesa, per fare giustizia o per l’interesse nazionale.
I mennoniti sono solo qualche centinaio di migliaia negli Stati Uniti. Tuttavia gli americani sanno bene che la battaglia morale di pochi può accendere la coscienza di molti. I vescovi cattolici del Colorado si sono precipitati a manifestare la loro solidarietà con Greta e a chiederne la liberazione. «Come Paese, e come Stato — hanno dichiarato — abbiamo per lungo tempo riconosciuto il valore sociale del fare spazio a convinzioni religiose profonde».
L’avvocato di Greta Lindecrantz ha definito un abominio la sua carcerazione al fine «di spezzarne la volontà e di forzarla ad abbandonare la fede e accettare di essere complice nell’uccisione di un uomo da parte dello Stato». La potente organizzazione per i diritti civili American Civil Liberties Union ha attaccato la «devozione alla pena di morte» del procuratore Brauchler che ha a sua volta rincarato la dose con un tweet: «Ha partecipato. Volontariamente. Si è ben presa 390 mila dollari dei contribuenti». Il braccio di ferro continua. «È davvero dura, ma cercherò di sopravvivere qui dentro per i prossimi sei mesi». In tenuta arancione, mentre risuonano i canti dei suoi fratelli e delle sue sorelle, Greta si dice pronta alla prova: «La mia fede non cambia di fronte alle avversità. Non c’è periodo in prigione che possa cambiare la mia fede. Non mi renderò complice dell’uccisione di un altro uomo».