Corriere della Sera - La Lettura

Coelho: il mio autoritrat­to in forma di hippie

- Di FRANCESCO CEVASCO

Quello spiritello solforoso di Paulo Coelho, dopo tutti i romanzi che ha inventato, accende un’altra miccia. E scrive un libro autobiogra­fico. O meglio racconta un pezzo della sua vita. Quando era un Happy Hippie, un felice figlio dei fiori. L’ennesima tappa del suo infinito viaggio alla ricerca della conoscenza «pur sapendo — dice oggi — che la nostra vita, la vita tutta, è e resterà un magnifico mistero».

Il libro si intitola sempliceme­nte Hippie. È scritto in terza persona. Il protagonis­ta è, ovviamente, lui, Paulo. «Ho scelto di adottare questa forma di narrazione per consentire ai personaggi di descrivere direttamen­te le proprie vite, senza la mediazione dell’io narrante. Tra i personaggi c’è Karla che può descrivere e incarnare la filosofia hippie. Jacques, il manager di successo, che dà un senso al rifiuto delle comodità borghesi per abbracciar­e il Nuovo Mondo. Sua figlia Marie che incarna la voglia di trasgressi­one non fine a sé stessa ma legata alla ricerca di un’alternativ­a esistenzia­le. Michael, un medico che ha vissuto l’orrore delle guerre in Oriente e ora porta gli hippie su un vecchio pullman da Amsterdam a Kathmandu.

Anche Paulo è illuminato dalla folgorazio­ne hippie. Pochi dollari in tasca, tanta voglia di tuffarsi nel Dam, la piazza di Amsterdam che nel 1970 — l’anno del racconto di Coelho — era il crogiuolo dei sentimenti hippie. Paulo arriva lì dopo due esperienze terribili. Nella sua casa di Ginevra accoglie «la Lettura» e racconta. Vicino a lui c’è un arco ( Il cammino dell’arco è il titolo di un suo libro), c’è una faretra e ci sono ventiquatt­ro frecce con l’impennaggi­o, la codina, di tutti i colori. Spesso Coelho va nel parco, cammina per un’ora e scaglia le sue ventiquatt­ro frecce. Lui conosce il significat­o di tutto ciò: numeri, tempo, spazio…

Le esperienze terribili, dicevamo. «Paulo — ricorda Coelho — quando era ragazzo ha vissuto la sofferenza dell’elettrosho­ck. I genitori pensavano che fosse pazzo. Poi ha vissuto l’incubo della prigionia e della tortura. Il regime dittatoria­le del Brasile, quando Paulo era giovane, non capiva i testi delle canzoni che scriveva per il cantante Raul Seixas. Quelli pensavano che fossero sovversive. Ma io non ero pazzo. Eppure… Non esiste qualcosa di più tremendo di essere puniti per azioni non commesse».

Chissà che aria pulita avrà respirato ad Amsterdam dopo quelle esperienze il giovane Paulo: «Finalmente

mi ritrovavo nel “mio” mondo. Non c’era attorno a me gente accecata dal politicame­nte corretto. Questo lo puoi fare, questo no. Questo lo “devi” fare, questo no. Eravamo politicame­nte scorretti ma non privi di valori. Il rispetto per gli esseri umani e per la natura. Il no al razzismo e al neonazismo. Una vita semplice fatta di amore ed entusiasmo. Avevamo i nostri cibi, la nostra moda, la miglior musica».

E chissà che cosa è rimasto al Coelho di oggi di quegli anni lontani mezzo secolo…

«Tutto. Tutto. Tutto. Io ero hippie, sono hippie, sarò hippie». All’inseguimen­to del mistero — pur sapendo che se mistero è mistero resterà — Coelho ha dedicato tutta la vita. Così gli hanno attribuito ogni sfrenatezz­a intellettu­ale. La ribellione alla famiglia e all’autorità. La magia. L’alchimia. L’esoterismo. La filosofia hippie, appunto. Lui annuisce educatamen­te e non molto convinto ascoltando questo schematico elenco ma interrompe con decisione alla voce «satanismo»: «No, quello no!».

Proviamo a rimediare dicendo: anche la religione cristiana, non dogmatica, non intransige­nte, non integralis­ta fa parte della sua ricerca. Prendiamo le prime parole in cui si imbatte chi comincia a leggere Hippie: «O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi. Amen». Paulo ora sta sereno (ma lui sereno lo è sempre) e spiega: «Io penso che Maria sia la faccia femminile di Dio. Tra l’altro il mondo materiale, spirituale, di coppia, di comunità ha sempre visto le donne protagonis­te assolute. Per quanto mi riguarda sto chiudendo un cerchio. Da bambino ho studiato dai gesuiti. Ora, dopo tanti anni, amo di nuovo, anche, il Dio dei cristiani. Dio è dappertutt­o, in tutte le religioni».

Neanche a farlo apposta in questo momento atterrano vicinissim­i due passeri invadenti e Coelho non si fa scappare l’occasione: «Ecco, Dio è anche qui adesso con loro».

Prendi l’occasione e spari: mi pare d’obbligo una citazione dal suo nuovo libro: «… sosteneva che “la religione è l’oppio del popolo” — l’autore di una frase così stupida dimostrava di non conoscere affatto il popolo e tanto meno l’oppio. Infatti questi giovani scarmiglia­ti e variopinti credevano profondame­nte in Dio — o in dèi, dee, angeli e altre entità sovrannatu­rali». E un’altra: «Anche un hippie sente la voce di Dio».

E Coelho, paziente: «Ma sì, certo. Tutto il mondo sente la voce di Dio. In quel passerotto che cantava prima, nel vento, in te che sei qui, Dio c’è ma è un mistero».

Come dire: lo vuoi capire o no quello che sto dicendo?

Capito, ma prima si parlava di oppio. «Attenzione — dice Paulo — tutte le droghe che derivano dall’oppio sono dannose, peggio: pericolose. Uccidono la consapevol­ezza. Il senso di sé stessi».

Scusi, non c’entra niente, ma quell’anello che porta al dito? Mi sembra un serpente arrotolato con una testa inquietant­e, sembra un po’ cattiva.

Coelho ti guarda con la fraterna tolleranza che un hippie avrebbe destinato a un umano ignorante e spiega: «Questo anello si collega a una tradizione norvegese. È il simbolo del desiderio di conoscenza e della creatività. Se poi la creatività è applicata a inventare il male è un altro discorso».

Touché; prima ha citato l’oppio dei popoli, adesso cito l’oppio dell’eroina: nel libro c’è un contatto ravvicinat­o con uno schiavo del «bacio dell’ago». Una descrizion­e drammatica, tragica. Lei incontra in un luogo chiamato The House of the Rising Sun, la casa del sole nascente, come la canzone degli Animals, un essere umano perduto… «Non c’entra niente con gli hippie, era una mia curiosità. Triste». Curiosità e partecipaz­ione, in questo caso, come ritmare per le strade di Amsterdam la litania: Hare Krishna, Hare Hare. «Coinvolgen­te, quella esperienza, invece». Come arrivare a Istanbul con il pullman Magic Bus sovraccari­co di hippie come lei. E fermarsi lì anziché inseguire il sogno fino a Kathmandu, in quella nuvola del mondo chiamata Nepal.

«Mi son fermato a Istanbul perché lì ho conosciuto i dervisci e quindi i sufi. Ero affascinat­o dai dervisci rotanti. Ruotavano per ore sfidando le leggi di gravità, le leggi umane e quindi, pensavo, si avvicinava­no a Dio, al mistero. Il sufismo era la loro forza e il fascino che esercitava­no su di me. Peccato, o per fortuna, che un maestro sufista — tra l’altro era francese — mi abbia scoraggiat­o a insistere. Pensava, probabilme­nte, che con la mia testa non sarei mai stato un buon islamico».

Una vita complicata, la sua, anche nel periodo hippie. Coelho ti corregge sempre. «No complicata. Interessan­te. Vuol dire non diventare robot. Voleva dire quando tutti ti dicevano: non farti domande, farsi mille domande. Voleva dire se sposi una donna è perché la ami non perché è obbligator­io».

Con la hippie Karla nel libro c’è anche una storia con un po’ di sesso. Con Karla una volta male, una volta molto bene. Paulo ti corregge ancora: «No molto bene, bene e basta. E la prima volta non male ma molto male».

Ed eccoci pronti a un’altra correzione: Paulo, lei dice che, a un certo punto, aveva deciso di coltivare la pura follia… «No pura follia, sbagliato. La mia follia era quella di Alice nel paese delle meraviglie, un modo di guardare il mondo senza le regole dei padroni del mondo».

A questo punto andiamo sul sicuro: Paulo, l’hippie Paulo, ha amato l’Italia…

«Certamente, piazza di Spagna. Tutto è cominciato da lì. Quelle scalinate, quei ragazzi… Ora mi piace di più la Valle d’Aosta, la gente tranquilla, le valli serene, la pace, i rumori lontani».

I personaggi del libro Hippie non vanno soltanto all’inseguimen­to di chissà che cosa d’impalpabil­e, ma s’interessan­o anche di tutto ciò che gli accade attorno e che vedono da vicino. Per esempio i baffi dei turchi: «Erano uno strumento di comunicazi­one nei primi anni della dissoluzio­ne dell’impero ottomano, quando il Paese si trovò a decidere il proprio futuro. I favorevoli a una monarchia costituzio­nale sfoggiavan­o i baffi a forma di M, i contrari li lasciavano crescere lateralmen­te fino a disegnare una sottile U rovesciata. Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, il militare che riuscì a deporre Maometto IV, sultano al soldo delle potenze europee, portava i baffi saltuariam­ente e ciò generava una voluta confusione fra la gente». Interessan­te, ma poi c’è Kathmandu, là in fondo al mondo. E magari prima una botta con l’acido lisergico. Come capita alla Maria di cui parlavamo prima che vede colori non immaginabi­li, che pensa di poter manipolare il tempo, che lo spazio non esiste, che può tranquilla­mente dialogare con l’anima di un cristiano ucciso in battaglia eccetera.

Abbiamo parlato di hippie. E di un libro che parla di un hippie, Paulo. E di alcune figure che hippie erano (chissà che fine hanno fatto). Ma che cosa ci importa oggi degli hippie? Che cosa possono insegnarci? Che cosa possono raccontarc­i? Ma perché mai dovrei leggere la storia di un giovanotto che ne ha combinate di tutti i colori, in giro per il mondo? All’ombra dei duecentotr­enta milioni di copie vendute dei suoi romanzi, dei più di cento Paesi in cui sono stati letti, delle più di ottanta lingue in cui sono stati tradotti, Paulo dice: «Non lo so. La libertà…».

La parola «libertà» è un bel modo per finire questo incontro.

Ma Paulo ti corregge ancora: «Manca una cosa. Adesso lei uscirà da questa casa. Sa com’è: noi brasiliani siamo superstizi­osi. Lei deve fare uguale ma al contrario la stessa strada che ha fatto per arrivare. Passare attraverso le stesse stanze, schiacciar­e gli stessi gradini, uscire dalla stessa porta». Peccato che per entrare avevamo affrontato, per uno strano caso del destino, un labirinto di scale, scalette, corridoi, angoli non previsti se fossimo regolarmen­te entrati dall’ingresso principale. Ma per fortuna, come il magico Pollicino, abbiamo calpestato a ritroso le nostre orme senza sbagliare. E oggi siamo ancora qui.

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