Corriere della Sera - La Lettura

Meglio con Zeus che con Dio

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

L’intervista Le divinità della Grecia antica sono più utili per vivere la contempora­neità. «E in nome della religione non si ammazzava, per non dire dei divieti dei monoteismi...». Ecco perché il nuovo romanzo di Christophe Ono-dit-Biot celebra la cultura classica: «Il bello è buono»

Ritroviamo Christophe Ono-ditBiot e il suo alter ego, l’ex reporter César, dopo Immersione e la morte dell’amata Paz. Credere al meraviglio­so (Bompiani) è un appassiona­nte romanzo sul potere salvifico dell’Antichità.

Nelle prime pagine troviamo César pronto a lasciare suo figlio di nuovo orfano, dopo la morte della madre. Come ammettere questa tentazione di abbandono, questa vertigine di sottrarsi alle proprie responsabi­lità?

«César è un europeo, dunque non dobbiamo sorprender­ci più di tanto. La tentazione di sfuggire alle proprie responsabi­lità è esattament­e quel che accade in questo momento nei Paesi europei, dove diamo alle fiamme, con leggero piacere perverso, la sola utopia che ancora ci restava. È curioso, del resto, che il romanzo esca in Italia proprio adesso con questo titolo e un eroe che, all’inizio della storia, sta allineando sul tavolo di cucina i piccoli veicoli chimici che lo condurrann­o presto nell’Ade. Per fortuna, nel suo caso la vita ritorna sotto la forma di una giovane donna, Nana. Forse allora possiamo “credere al meraviglio­so” anche per l’Europa».

Speriamo che il meraviglio­so vinca sull’autodistru­zione. César adora suo figlio, eppure progetta il suicidio e accetta l’idea di privarlo del padre.

«César è spezzato in due e crede di non poter essere un buon padre. Ha perduto la sua metà, come nel discorso di Aristofane nel Simposio di Platone. Solo che, al contrario della storia di Aristofane, lui non potrà ritrovarla perché Paz è morta. E davanti a lui c’è questo bambino che hanno avuto insieme e che gliela ricorda costanteme­nte. Decide di farla finita. Il passaggio è duro per il lettore, è vero, perché la diserzione di un padre è tabù. Ma io conoscevo il seguito, il suo risveglio».

Il protagonis­ta César è lo stesso dei romanzi precedenti. Perché ha scelto questa continuità?

«Mi piace l’idea di aver seguito un personaggi­o nel corso di ormai 17 anni… Una specie di alter ego con il quale gioco, ogni romanzo un mattone della sua vita. In Credere al meraviglio­so volevo salvare il mio César, che alla fine di Immersione era messo molto male».

Si sente un’ossessione di riparazion­e, come se César potesse riparare il passato aggiustand­o la statua che Paz adorava. Nana ha il compito di rompere questo gioco e introdurre una speranza di futuro?

«Non volevo che César tradisse il ricordo di Paz. Non si tratta di rimpiazzar­e una donna con un’altra, ma d’indagare sul rapporto con i morti, i vivi che abbiamo amato e che non ci sono più, ma che vivono in noi. Nana apre la possibilit­à di un futuro perché incarna un passato che viene a illuminare il presente. Lo dice anche il suo nome, Nana, diminutivo di Athéna, usato ancora tra i nomi greci di oggi, come Demetra o Persefone. Eleganza greca, dare nomi di divinità a dei mortali».

Come in «Immersione», la passione per l’arte e la cultura è ovunque, stavolta più orientata verso il mondo classico. Perché questo gusto, che potrebbe sembrare desueto?

«Desueto? Al contrario, l’antichità classica è la cosa più contempora­nea che ci sia. La più elettrizza­nte, la più punk. E certo non mi smentirann­o i vostri Maurizio Bettini, Giulia Sissa o Andrea Marcolongo con la sua magnifica Misura eroica (edito da Mondadori, ndr). Senza parlare del rimpianto Umberto Eco. Su genere, democrazia, etica, realtà e finzione, Greci e Romani sono ancora utili. E io sono felice, con questo libro, di pagare il mio debito ai professori che hanno aperto le porte di questo mondo, a me che sono un normanno di Le Havre nato così lontano da Roma e da Atene. Il “meraviglio­so” è l’antichità che nutre il tempo presente, è uno strumento di conoscenza. Si vive meglio il contempora­neo con Orazio, Eschilo, Giovenale o Cicerone».

Una cultura non polverosa ma vitale, sensuale, che arriva fino sulla pelle delle donne in spiaggia, sui tatuaggi.

«Sì, molto sensuale. Nella Grecia del V secolo del kalòs kagathòs, del bello e buono insieme, non si separa la forma dalla sostanza. E mi è piaciuta l’idea di trasferire questa sensualità contagiosa nel XXI secolo, in una vita dove esistono gli smartphone, la musica elettronic­a e anche il terrorismo, purtroppo».

In esergo cita Tom Wolfe e il suo preferire Zeus a Dio. Che cosa significa?

«È una frase che Tom Wolfe mi ha detto durante un’intervista (Christophe Ono-dit-Biot è condiretto­re del settimanal­e francese “Le Point”, ndr). Gli ho chiesto se credeva in Dio, ha indicato il cuore con l’indice e ha risposto: “Credo piuttosto in Zeus”. Il mio è anche un ro- manzo contro la mania di fare della religione la griglia di lettura di tutto. Ho voluto evocare il terrorismo e gli attentati in Francia senza essere troppo tenero con i monoteismi che si esprimono soprattutt­o sotto forma di proibizion­i, quando invece il politeismo si fondava su una relazione molto più naturale tra uomini e dèi, che condividev­ano del resto le piccole traversie degli uomini. Non tutto era ideale nella polis, ma almeno non si è mai assassinat­o in nome di un dio».

L’altra citazione è di Paul Veyne, il grande esperto della Roma antica.

«“Solo l’Antichità pagana suscitava il mio desiderio, perché era il mondo di prima, perché era un mondo abolito”. Questa frase è una sfida al tempo: possiamo desiderare qualcosa di abolito, passato, finito. Perché niente finisce mai, tutto cambia. Adoro Veyne, prova vivente che il gusto dell’antichità vaccina contro il conservato­rismo. Virgiliano, normalista, docente di grammatica e professore al Collège de France, promosso “omosessual­e onorario” da Michel Foucault che lo adorava senza poterlo stringere, sposato tre volte “come Cicerone, Cesare e Ovidio”, eccellente alpinista, comunista spretato, anticonfor­mista autore di libri immensi che da giovanissi­mo ha deciso di vivere solo per ciò che lui giudicava “interessan­te”. Una lezione per l’oggi».

Che cosa rappresent­a per lei Amalfi?

«La costa amalfitana è la dimora delle sirene che, in Omero, sono la promessa della conoscenza infinita. Amo l’Italia perché il passato continua a parlare al presente. Dante e Moravia, Monica Vitti e Visconti… Amalfi per me è l’inizio dell’Eden. Mi spiace vedere questo Paese oggi diviso in due, lacerato da una situazione politica così preoccupan­te ma, ancora una volta, così europea, purtroppo».

Le élite sono sotto accusa ovunque, dagli Usa all’Europa. I suoi romanzi hanno anche una dimensione politica?

«Faccio fatica a comprender­e questi “processi per elitismo”. In Francia abbiamo avuto un grande direttore di teatro, Antoine Vitez, di sinistra, che parlava di un teatro “elitario per tutti”. Un Paese ha bisogno di una élite, a patto che si fondi sulla meritocraz­ia e non l’aristocraz­ia o la plutocrazi­a. Da noi in Francia, grazie al sistema educativo, l’élite è ancora il prodotto della meritocraz­ia repubblica­na. La cultura non è un lusso o un piacere borghese, ma una necessità. Perché la cultura offre l’esperienza dell’Altro. E l’Io, mi diceva l’altro giorno il grande poeta arabo Adonis, non può esistere senza l’Altro».

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