Corriere della Sera - La Lettura
Il Romanticismo italiano è inglese
Classici/1 Esce il primo volume dell’opera di Percy Bysshe Shelley, edizione che si annuncia come la più completa in assoluto: c’è anche la traduzione di un «Saggio in versi» da poco riscoperto. Protagonisti la nostra cultura e il nostro Paese
Amava comporre all’aperto, sotto la volta del cielo, Percy Bysshe Shelley, magari standosene sulla sua barca ormeggiata in qualche porto tirrenico. È vero infatti che per la parte più consistente, e di gran lunga più importante, della sua opera in versi, quello di Shelley è stato un cielo italiano. Con la famiglia era venuto dall’Inghilterra in Italia nel 1818, per rimanervi ininterrottamente fino alla morte, avvenuta nel 1822 proprio per il naufragio del suo amato vascello non lontano da Viareggio. «Distesi le mie stanche membra sotto il ramo canuto// che un antico castagno slanciava di traverso/ al pendio di un verde Appennino: davanti a me fuggiva/ la notte; dietro di me sorgeva il giorno; il Mare/ / era ai miei piedi, e il Cielo sopra la mia testa»: sono versi del Trionfo della vita, la visione poetica rimasta incompiuta che per molti rappresenta comunque il suo capolavoro. Basta forse questo per suggerire quanto il paesaggio, la letteratura, più in genere la cultura italiana, siano implicate con la sua poesia, e di conseguenza quale rilievo possa avere la pubblicazione delle sue Opere poetiche nei«Meridiani» di Mondadori. Pensando anche alla lunga permanenza in Italia di Lord Byron (ma non a John Keats, che pure in Italia morì), si potrebbe dire, certo con un paradosso, che una parte del nostro incerto romanticismo sia stata scritta in inglese.
Curate molto bene da Francesco Rognoni, queste Opere poetiche costituiscono il primo tempo di un’edizione concepita in due volumi. È prevista infatti l’uscita anche di una seconda silloge, intitolata Teatro, prose e lettere, e comprensiva dunque di quella Difesa della poesia (1821) che contiene l’affermazione forse più discussa della letteratura degli ultimi due secoli: «I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo». Come precisa Rognoni, «l’impianto generale dell’opera è radicalmente mutato» rispetto all’edizione shelleyana che aveva curato nel 1995 per la «Biblioteca della Pléiade» (Einaudi-Gallimard). In particolare, il presente volume comprende un numero cospicuo di testi prima non considerati, tra cui soprattutto il Saggio in versi sullo stato attuale delle cose (1811), riscoperto da poco e finora inedito nel nostro Paese. Un’edizione importante e meritevole che, quando compiuta, offrirà «la scelta più ampia dell’opera di Shelley mai pubblicata non solo in Italia, ma anche nei Paesi di lingua inglese».
Nell’ultimo secolo le quotazioni critiche di Shelley hanno rappresentato un po’ l’indice di Borsa complessivo del Romanticismo. Nella prima metà del Novecento, soprattutto attorno agli anni Trenta, sono scese incredibilmente in basso. Se in nome dell’impersonalità, dell’oggettività, della concentrazione espressiva, del classicismo formale, il Novecento, o almeno una sua corrente fondamentale, ha riconosciuto sé stesso prendendo le distanze dal Romanticismo, Shelley, che è stato il più immaginativo e atmosferico di quel gruppo formidabile di poeti inglesi, non poteva non diventare una specie di agnello sacrificale. Pound e Eliot lo detestavano. Rispetto al modello allora riscoperto dei poeti metafisici, Shelley appariva allora come un condensato di malcostumi poetici: libera immaginativa, prolissità, sentimentalismo, idealismo, astrattezza, scarso senso e, di conseguenza, scarsa presa di realtà. Del resto già qualche anno prima, Walter Benjamin, che pure apprezzava la poesia di Shelley per la sua particolare caratura allegorica, di contro all’idea di redenzione sostenuta dall’estetica romantica aveva indicato quale consanguineo dell’uomo contemporaneo il Seicento, il secolo del Barocco, delle rovine e dell’allegoria, dell’individuo diviso, irrisolto, diseredato. Nel secondo Novecento tuttavia le cose sono progressivamente cambiate, il giudizio nel complesso si è più che riequilibrato, e critici come Harold Bloom o poeti come Derek Walcott e Seamus Heaney hanno potuto instaurare un rapporto con la poesia romantica, e dunque anche con Shelley, assolutamente fecondo.
In ogni caso, ci troviamo già al punto. Quale tipo di presa di realtà possiede anzitutto questo poeta, che ha posto al centro del suo lavoro di scrittore i grandi temi dell’amore, della poesia, del tempo, dell’autocoscienza, della libertà dell’uomo dai vincoli del destino, ma anche del perdono e della pace, della concordia tra gli uomini? Detto per inciso, quanto a questo bisogna sempre ricordarne la fiera passione democratica e la mai rinnegata professione d’ateismo (fu espulso da Oxford per questo). Una delle sue opere più riuscite, composta anche questa in Italia, è non a caso il dramma lirico Prometeo incatenato. Torniamo però al nodo al cui riguardo ha visto benissimo Rognoni, quando scrive che nonostante la sua innata, naturale disposizione poetica, «Shelley non ha scritto una lirica importante che non sia anche organizzata intellettualmente, argomentata, spesso quasi sillogistica nel suo sviluppo (per quanto breve) e nella sua articolazione».
Di fatto, questo poeta non è interessato alla fissazione della cosa in sé, quanto invece al movimento, alla vicissitudine del pensiero, che spesso è un autentico combattimento, nel suo incontro con le singole specificazioni e figure della nostra vita. È il movimento della mente, è la capacità di crescita dell’immaginazione — una crescita che è tutt’uno con il ritrovamento della sua misura — la vera realtà su cui fa presa il suo discorso poetico, che di conseguenza sta sempre un po’ prima o un po’ dopo la fissità dell’oggetto. Quando è al suo meglio, questa tensione e questa presenza si avvertono sempre: «I petali di rosa, quando la rosa è morta,/ sono accumulati per il letto dell’amata;/ così sui tuoi pensieri, quando più non sarai,/ Amore stesso s’assopirà».
Shelley è dunque un poeta capace di portare e sopportare le contraddizioni, gli attriti, le antinomie. Si era nutrito non a caso dei dialoghi platonici, di cui era anche un autorevolissimo traduttore in inglese. Michail Bachtin, il grande teorico della letteratura russo, sosteneva che il romanzo è un genere socratico. Ed è certo vero. Ma è altrettanto vero che nell’opera in versi di Shelley questa intrinseca vocazione dialogica, con tutto il dramma della conoscenza (e della coscienza) che porta con sé, appare pienamente espressa. La sua capacità di determinare questo tragitto, che non sempre è un incontro, tra gli opposti, ha in certi casi qualcosa di stupefacente. Non a caso ha saputo mettere a frutto, davvero come pochissimi altri, il retaggio della Commedia dantesca, sentendo appieno il valore non statico bensì dinamico, sempre in divenire, dell’esperienza umana. Commentando Il trionfo della
vita, scritto tutto in terza rima, anche Eliot dovette riconoscerlo: «Per una naturale affinità con l’immaginazione poetica di Dante — così scriveva — la sua mente raggiunge per ispirazione alcuni dei più grandi e dei più danteschi versi in inglese».