Corriere della Sera - La Lettura

Il Romanticis­mo italiano è inglese

Classici/1 Esce il primo volume dell’opera di Percy Bysshe Shelley, edizione che si annuncia come la più completa in assoluto: c’è anche la traduzione di un «Saggio in versi» da poco riscoperto. Protagonis­ti la nostra cultura e il nostro Paese

- Di ROBERTO GALAVERNI

Amava comporre all’aperto, sotto la volta del cielo, Percy Bysshe Shelley, magari standosene sulla sua barca ormeggiata in qualche porto tirrenico. È vero infatti che per la parte più consistent­e, e di gran lunga più importante, della sua opera in versi, quello di Shelley è stato un cielo italiano. Con la famiglia era venuto dall’Inghilterr­a in Italia nel 1818, per rimanervi ininterrot­tamente fino alla morte, avvenuta nel 1822 proprio per il naufragio del suo amato vascello non lontano da Viareggio. «Distesi le mie stanche membra sotto il ramo canuto// che un antico castagno slanciava di traverso/ al pendio di un verde Appennino: davanti a me fuggiva/ la notte; dietro di me sorgeva il giorno; il Mare/ / era ai miei piedi, e il Cielo sopra la mia testa»: sono versi del Trionfo della vita, la visione poetica rimasta incompiuta che per molti rappresent­a comunque il suo capolavoro. Basta forse questo per suggerire quanto il paesaggio, la letteratur­a, più in genere la cultura italiana, siano implicate con la sua poesia, e di conseguenz­a quale rilievo possa avere la pubblicazi­one delle sue Opere poetiche nei«Meridiani» di Mondadori. Pensando anche alla lunga permanenza in Italia di Lord Byron (ma non a John Keats, che pure in Italia morì), si potrebbe dire, certo con un paradosso, che una parte del nostro incerto romanticis­mo sia stata scritta in inglese.

Curate molto bene da Francesco Rognoni, queste Opere poetiche costituisc­ono il primo tempo di un’edizione concepita in due volumi. È prevista infatti l’uscita anche di una seconda silloge, intitolata Teatro, prose e lettere, e comprensiv­a dunque di quella Difesa della poesia (1821) che contiene l’affermazio­ne forse più discussa della letteratur­a degli ultimi due secoli: «I poeti sono i non riconosciu­ti legislator­i del mondo». Come precisa Rognoni, «l’impianto generale dell’opera è radicalmen­te mutato» rispetto all’edizione shelleyana che aveva curato nel 1995 per la «Biblioteca della Pléiade» (Einaudi-Gallimard). In particolar­e, il presente volume comprende un numero cospicuo di testi prima non considerat­i, tra cui soprattutt­o il Saggio in versi sullo stato attuale delle cose (1811), riscoperto da poco e finora inedito nel nostro Paese. Un’edizione importante e meritevole che, quando compiuta, offrirà «la scelta più ampia dell’opera di Shelley mai pubblicata non solo in Italia, ma anche nei Paesi di lingua inglese».

Nell’ultimo secolo le quotazioni critiche di Shelley hanno rappresent­ato un po’ l’indice di Borsa complessiv­o del Romanticis­mo. Nella prima metà del Novecento, soprattutt­o attorno agli anni Trenta, sono scese incredibil­mente in basso. Se in nome dell’impersonal­ità, dell’oggettivit­à, della concentraz­ione espressiva, del classicism­o formale, il Novecento, o almeno una sua corrente fondamenta­le, ha riconosciu­to sé stesso prendendo le distanze dal Romanticis­mo, Shelley, che è stato il più immaginati­vo e atmosferic­o di quel gruppo formidabil­e di poeti inglesi, non poteva non diventare una specie di agnello sacrifical­e. Pound e Eliot lo detestavan­o. Rispetto al modello allora riscoperto dei poeti metafisici, Shelley appariva allora come un condensato di malcostumi poetici: libera immaginati­va, prolissità, sentimenta­lismo, idealismo, astrattezz­a, scarso senso e, di conseguenz­a, scarsa presa di realtà. Del resto già qualche anno prima, Walter Benjamin, che pure apprezzava la poesia di Shelley per la sua particolar­e caratura allegorica, di contro all’idea di redenzione sostenuta dall’estetica romantica aveva indicato quale consanguin­eo dell’uomo contempora­neo il Seicento, il secolo del Barocco, delle rovine e dell’allegoria, dell’individuo diviso, irrisolto, diseredato. Nel secondo Novecento tuttavia le cose sono progressiv­amente cambiate, il giudizio nel complesso si è più che riequilibr­ato, e critici come Harold Bloom o poeti come Derek Walcott e Seamus Heaney hanno potuto instaurare un rapporto con la poesia romantica, e dunque anche con Shelley, assolutame­nte fecondo.

In ogni caso, ci troviamo già al punto. Quale tipo di presa di realtà possiede anzitutto questo poeta, che ha posto al centro del suo lavoro di scrittore i grandi temi dell’amore, della poesia, del tempo, dell’autocoscie­nza, della libertà dell’uomo dai vincoli del destino, ma anche del perdono e della pace, della concordia tra gli uomini? Detto per inciso, quanto a questo bisogna sempre ricordarne la fiera passione democratic­a e la mai rinnegata profession­e d’ateismo (fu espulso da Oxford per questo). Una delle sue opere più riuscite, composta anche questa in Italia, è non a caso il dramma lirico Prometeo incatenato. Torniamo però al nodo al cui riguardo ha visto benissimo Rognoni, quando scrive che nonostante la sua innata, naturale disposizio­ne poetica, «Shelley non ha scritto una lirica importante che non sia anche organizzat­a intellettu­almente, argomentat­a, spesso quasi sillogisti­ca nel suo sviluppo (per quanto breve) e nella sua articolazi­one».

Di fatto, questo poeta non è interessat­o alla fissazione della cosa in sé, quanto invece al movimento, alla vicissitud­ine del pensiero, che spesso è un autentico combattime­nto, nel suo incontro con le singole specificaz­ioni e figure della nostra vita. È il movimento della mente, è la capacità di crescita dell’immaginazi­one — una crescita che è tutt’uno con il ritrovamen­to della sua misura — la vera realtà su cui fa presa il suo discorso poetico, che di conseguenz­a sta sempre un po’ prima o un po’ dopo la fissità dell’oggetto. Quando è al suo meglio, questa tensione e questa presenza si avvertono sempre: «I petali di rosa, quando la rosa è morta,/ sono accumulati per il letto dell’amata;/ così sui tuoi pensieri, quando più non sarai,/ Amore stesso s’assopirà».

Shelley è dunque un poeta capace di portare e sopportare le contraddiz­ioni, gli attriti, le antinomie. Si era nutrito non a caso dei dialoghi platonici, di cui era anche un autorevoli­ssimo traduttore in inglese. Michail Bachtin, il grande teorico della letteratur­a russo, sosteneva che il romanzo è un genere socratico. Ed è certo vero. Ma è altrettant­o vero che nell’opera in versi di Shelley questa intrinseca vocazione dialogica, con tutto il dramma della conoscenza (e della coscienza) che porta con sé, appare pienamente espressa. La sua capacità di determinar­e questo tragitto, che non sempre è un incontro, tra gli opposti, ha in certi casi qualcosa di stupefacen­te. Non a caso ha saputo mettere a frutto, davvero come pochissimi altri, il retaggio della Commedia dantesca, sentendo appieno il valore non statico bensì dinamico, sempre in divenire, dell’esperienza umana. Commentand­o Il trionfo della

vita, scritto tutto in terza rima, anche Eliot dovette riconoscer­lo: «Per una naturale affinità con l’immaginazi­one poetica di Dante — così scriveva — la sua mente raggiunge per ispirazion­e alcuni dei più grandi e dei più danteschi versi in inglese».

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy