Corriere della Sera - La Lettura
Tutti cannibali sotto E un Bambino si crede
L’epos di Yan Lianke Mao Gesù
«Il campo di rieducazione costituisce l’elemento storico e l’espressione più peculiare di questo Paese, proprio come le cicatrici sul tronco di un vecchio albero, e finisce per diventare l’occhio attraverso cui contemplare il mondo». È a metà romanzo che uno dei personaggi di Yan Lianke svela il senso de I quattro libri. Che, comprensibilmente censurato in Cina, è l’opera potente ed efficace di uno scrittore importante, affermatosi con Servire il popolo, vorticosa satira sul maoismo.
I quattro libri parte, senza esplicitarlo, dagli anni del «Grande balzo in avanti» che sfociarono in una catastrofica carestia (1958-1962): eventi che la propaganda ufficiale evita di maneggiare, anche se storici coraggiosi come Yang Jisheng ( Tombstone, 2012) hanno cominciato a indagare scomode verità. La storia si svolge nella Sezione 99, un campo di rieducazione per intellettuali collocato non a caso lungo il Fiume Giallo, liquido pilastro della civiltà cinese. Il laogai è guidato dal Bambino, un giovane uomo che amministra il potere con una singolare combinazione di assolutismo e misericordia, arbitrio e premi. Intorno a lui orbitano lo Scrittore, il ricercatore, un devoto cattolico (il Religioso), la Musicista, la Dottoressa, tutti in equilibrio precario fra resilienza e meschinità.
Ma non è il realismo la cifra di Yan. C’è un’esuberanza lirica (l’«odore rosso pallido» del ferro, l’aria «piena di luce e di frammenti di echi») e insieme metaforica che accompagna la corsa alla produzione agricola (con obiettivi irrealistici), la fusione di acciaio (idem), fino alla penuria di cibo che diventa fame e cannibalismo («Cinquantadue cadaveri in tutto, e non ce n’è più nemmeno uno integro...»). L’autore dissemina indizi, simboli, allusioni da interpretare e ricomporre. Intanto il tono iniziatico: un’ironia che non dà scampo e ricorre a figure della tradizione cristiana. Così i «quattro libri», cioè i fatti affidati a quattro diverse narrazioni (l’escamotage è quello universale dei testi ritrovati), evocano i Vangeli ma anche i «quattro libri» del confucianesimo. E ancora, a cascata: il Bambino e i suoi deliri «cristologici» paiono rimandare alla ribellione cristiano-messianico dei Taiping (1850-64) che seminò l’anarchia, e qui Yan denuncia il caos sotto Mao, di cui non fa il nome ma è «l’uomo eminentissimo che si trovava all’apice della gerarchia». Se poi lo Scrittore che spia i compagni suona come un’autocritica dell’autore sul proprio ruolo, la sequenza sul sangue con il quale vengono irrigati i campi di cereali si rifà ai «panini inzuppati nel sangue umano» con i quali Lu Xun (1881-1936) sferzava l’immoralità della Cina. Infine l’autocannibalismo che lo Scrittore s’infligge per espiare: un’eucarestia, quasi.
Yan mette insieme un puzzle che sembra restituire un giudizio drastico e definitivo sulla Cina, un’antropologia del pessimismo resistente alle grottesche seduzioni dell’ideologia e all’amnesia a comando. La Cina è Sisifo, ognuno di noi è un povero Sisifo. Il mondo una Sezione 99. «Non appena l’uomo si adatta alla sofferenza ed entra in sintonia con i cambiamenti, la noia, l’assurdità e la morte che derivano dal castigo, ecco che la punizione perde la sua ragion d’essere» e se riparte il tormento «nuovamente ci si abitua».