Corriere della Sera - La Lettura
Via dalla pazza folla Ècolpa del sangue pazzo
Quasi una storia vera Il cantautore Simone Lenzi racconta la scelta di abbandonare Livorno e di trasferirsi in una campagna non lontana fisicamente ma che è comunque un altro mondo. Un pianeta diverso con fantasmi antichi e anime indimenticabili
Il nuovo romanzo di Simone Lenzi si apre con una bugia: «Questa non è una storia», scrive all’inizio, lo ripete più volte e lo ribadisce nel finale. Ma appunto — e per fortuna — si tratta di una bugia. Perché «in esilio» rischiava effettivamente di essere la spiegazione secca e fredda di come mai l’autore ha deciso di allontanarsi da tutto e tutti, il resoconto di un’operazione chirurgica su pagine sterili e anestetiche. Invece è una storia, la storia prepotente e sincera di come Lenzi è arrivato a dire addio alla propria città, agli amici, alle abitudini scolpite in cinquant’anni di esistenza. E dell’effetto deflagrante che questa scelta ha avuto su di lui, una bomba emotiva che ha travolto ricordi e paure, ansie e speranze, mille schegge di passato e futuro piantate una per una nella pelle del protagonista, che scrivendo del suo allontanamento non può usare il minimo distacco.
E aveva ragione lo scrittore nordirlandese Robert McLiam Wilson, «ogni storia è una storia d’amore», infatti queste pagine d’amore traboccano. L’amore più intenso e indisciplinato, quello che non si vorrebbe provare, e più si tenta di tenerlo chiuso dentro e più lui schizza fuori dagli occhi, dalla voce, dalle ferite aperte nella carne dalla passione per un mondo che si diverte a giocare con noi.
Ferite che l’esilio di Lenzi non rimargina, anzi alla distanza bruciano ancora di più. Lo si sente subito, dalla febbre che lo spinge nella lunga lista delle brutture contemporanee da cui fugge, rovesciate addosso al lettore come il fango di un fiume in piena: le notti davanti alla tv per guardare malattie imbarazzanti e coppie di fedifraghi che si confessano, obesi che cercano di dimagrire e cuochi piacioni che invitano a ingoiare qualsiasi cosa, macchine da sogno e paesi esotici dove parassiti letali ci usano come nido per la loro prole orripilante. E ancora il culto pagano degli aperitivi, lo slang che regola i nuovi rituali del vivere civile, le follie tutte di una vita sempre di corsa per risparmiare tempo e poi spenderlo sui social, regalando al mondo la nostra opinione su ogni argomento. Sono le imprese di quella che Lenzi chiama «la Legione», e da cui si sente sempre più distante, fino alla decisione di sparire.
Una decisione che come spinta di partenza rischiava di dare il via a un libro pieno di sentenze, fatte cadere sull’umani t à dal l a prospett i va pi ù s bagl i a t a quando si tratta di scrivere, e cioè dalle vette di una presunta superiorità. Invece le parole di Lenzi non hanno il tono pomposo di una sentenza, ma quello dolente di una canzone lenta, che vorrebbe dire addio e intanto continua a trattenersi nel languido abbraccio di quel che è stato.
Perché è vero, lui e la moglie hanno venduto la casa a Livorno, dov’è nato e cresciuto, per trasferirsi in una campagna che se non è lontana fisicamente è comunque un altro mondo, un’abitazio- ne più spaziosa da riempire, un pianeta diverso da esplorare, giorni da reinventare. Eppure, oltre alle sedie e alle tende nuove, nelle stanze appena imbiancate si aggirano fantasmi antichi.
Alcuni stavano qua ad aspettarlo, in un angolo di campagna toscana dove la voglia del «caratteristico» non ha ancora soffocato il carattere del posto, e dove è difficile e insieme entusiasmante vincere la diffidenza dei locali, abituati a cittadini invaghiti del verde la cui visione della Natura viene dritta dai cartoni animati della Disney. Ma la maggior parte degli spettri Lenzi se l’è portata dietro. Dalla Livorno appena abbandonata, e da certe notti romane con le loro grottesche tentazioni politiche, quando l’abbraccio della metropoli lo ha convinto definitivamente di non essere fatto per il vivere sociale.
E forse la colpa non è tutta sua, ma del sangue che scorre nelle vene matte della sua famiglia. Infatti proprio da qui, dal regno vorticoso del suo passato, arrivano i fantasmi più prepotenti, portando in dono le pagine più memorabili del romanzo.
Qua Lenzi conferma la sua abilità nel disegnare anime indimenticabili, nel farti commuovere e ridere nello spazio di due righe, descrivendo parenti prossimi oppure persi laggiù in fondo alla storia e alla leggenda, con le loro traiettorie formidabili e sciagurate insieme. Gente così cocciuta nella tendenza a deragliare che l’autore teme di avere addosso la stessa condanna, un’eredità che ha deciso tutto nella sua vita, dalle stravaganze dell’infanzia alle incertezze dell’adolescenza, fino a questo esilio volontario che probabilmente Lenzi si portava dentro dalla nascita.
Perché possiamo vendere la nostra casa, possiamo dire addio ad amici e parenti e correre lontano, ma non importa dove andiamo, noi siamo da dove veniamo. E se nuovi luoghi ci offrono nuovi fantasmi, non per questo ci lasceranno in pace quelli vecchi. Sempre addosso a noi, sempre intorno al collo come sciarpe pesanti, che un po’ ci scaldano e un po’ ci soffocano, mentre per qualche motivo continuiamo a correre.
Di questa corsa scalmanata, In esilio è la storia appassionata e appassionante, verso un orizzonte misterioso là davanti che ci chiama e ci confonde. E noi, spersi e convinti di scappare, inevitabilmente ritorniamo.