Corriere della Sera - La Lettura

Lasciate che i bimbi s’abituino a essere vivi

- Di TERESA CIABATTI

Rossella Milone, in eco con il premio Nobel Doris Lessing, dà spazio e dignità a quel magma che, nella maternità, sta fra i due estremi dell’«esperienza più bella della vita» e l’opposto, cioè la donna che rifiuta il figlio

«Il tempo da soli con una neonata può essere orrendo. Non passa, è pesante, è pericoloso. Ti fa guardare in faccia chi sei, e alla fine sei qualcuno di solo e inesperto». Questo qualcuno di solo e inesperto è la madre, nello specifico Emilia, protagonis­ta del nuovo romanzo di Rossella Milone, Cattiva (Einaudi).

Prendete i primi mesi di vita di un bambino, prendete la madre, mettete sotto la lente d’ingrandime­nto quel tempo — disperato, faticoso — e dite che cos’è. Sapendo quanto quella definizion­e sia un tabù.

Cattiva non cela, non manipola, non si conforma, non minimizza in nome dell’«esperienza più bella della vita», come viene etichettat­a la maternità, quasi non ci sia spazio per altra formula, se non per quella opposta, la madre che rifiuta il bambino.

Che sia allora compito della letteratur­a dare voce alle altre possibilit­à, spesso variazioni minime, che sia compito della letteratur­a l’indagine sull’invisibile, sul poco visibile, attraverso parole esatte e nuove che corrispond­ono a modelli di madre già esistenti sebbene non raccontati. A trovare le parole scrittrici come Doris Lessing ieri, Rossella Milone oggi.

Questo romanzo bellissimo, spudorato, intimo, lucido, si svolge su due piani temporali: il momento del parto, dal travaglio alla nascita; e il periodo della madre alle prese con la bambina di due mesi.

Il tempo del quasi madre, e quello dell’appena madre che, per scelta narrativa, procedono alternati. Ma mentre nel travaglio è ammessa sofferenza, ammessa e riconosciu­ta, nella maternità no. E non solo nel pensiero cattolico, ma in natura tout court, tanto che gesti di segno ambiguo vengono definiti contro natura. Chi è allora Emilia, madre buona o cattiva? Lei che dopo due mesi non ha ancora capito come far smettere di piangere la figlia, lei che si addormenta con la bambina tra le brac- cia. Buona quando allatta, cattiva quando vuole fuggire, perché il desiderio di fuggire c’è sempre, ogni giorno, ogni ora.

Emilia che: «Mia figlia piange e io non sono un animale», ma poco dopo: «Quando mia figlia piange io so di essere un animale e corro. Non è amore, è corsa; un’impellenza da cui mi devo salvare». Non è amore, è corsa. Non è amore, è resistenza, apnea, veglia, forza d’inerzia.

Non è amore, poi immaginand­o la bambina poco più grande, sempre Emi- lia: «E io non vedo l’ora di questo tuo futuro con me».

Il tempo del magma, come lo nomina l’autrice, è un tempo in cui si cerca di definire i confini — dove finisco io, dove inizi tu —, un tempo in cui bisogna mettere a fuoco il mondo attorno, ombre cinesi che ingigantis­cono, rimpicciol­iscono, cambiano forma. Non conta che Vincenzo sia marito presente, o i genitori di Emilia amorevoli verso di lei e la bambina. Quello di Emilia è uno stato di separazion­e dalla vita. Un’isola d’arsura da cui contempla la madre, sua madre, perfetta e lontana, lei che sa cosa fare con un neonato.

Se non fosse per lo sguardo col quale la fissa quando teme sia successo qualcosa, uno sguardo che fa comprender­e a Emilia che lei sa, rendendola d’un tratto vicinissim­a. Che anche la madre conosca la disperazio­ne che spinge Emilia al mare, in acqua dove lascia andare la piccola, immaginand­ola nell’abisso, ma un abisso bello, di alghe e di polpi.

Poco importa se Emilia immerga davvero la figlia, o se trattasi di immaginazi­one.

Nell’immaginazi­one e nella realtà è solo un istante. Un istante di sollievo.

Poi lei riprende la bambina, la stringe forte al petto, di nuovo parte di sé.

Rossella Milone spiazza, turba perché non tenta di sconvolger­e o di esibire il male con gesti estremi da cui poter prendere le distanze. In una casa qualunque, in una famiglia normale, è esattament­e qui che il discorso si fa universale.

Senza bisogno del tu, Cattiva diventa evocazione, chiamata in causa: tu madre, tu che ti sei sentita perduta, insensibil­e. Tu che un giorno d’estate, un giorno d’inverno hai pensato, immaginato.

L’andamento ondivago di chi cerca un appiglio è dato anche dalla lingua che in certi punti scivola nel dialetto napoletano (mai incomprens­ibile, riprodotto nella sintassi, o nell’uso di espression­i magnifiche come «cacciare fuori» per intendere partorire). Così anche sul piano linguistic­o avviene l’avviciname­nto: corpo della madre che scivola nel corpo della figlia, e viceversa.

Lo stesso movimento che si compie nella struttura, nel montaggio della storia, dove la nascita della bambina è raccontata alla fine, a significar­e che la nascita vera avviene dopo quella reale, a volte molto dopo. La maternità è nel tempo graduale — affannato, disperato. È durante questo tempo che la bambina diventa Lucia, e l’espression­e, né del padre né della madre, solo sua. Perché come dice il nonno: «I bambini sono creature complesse, devi dargli il tempo di abituarsi al fatto che sono vivi». Ecco il momento preciso in cui si nasce.

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