Corriere della Sera - La Lettura

La razza è solo un inganno Ma troppi ancora ci credono

Pregiudizi Polemiche a Dresda per un’esposizion­e che rammenta ai visitatori non solo le aberrazion­i del passato coloniale ma anche la persistenz­a delle discrimina­zioni. I gruppi xenofobi, molto forti in Sassonia, non ci stanno

- Dal nostro inviato a Dresda PAOLO VALENTINO

Le razze umane non esistono. Non ha alcuna seria base scientific­a la divisione del genere umano in diversi tipi razziali, a partire dagli aspetti esteriori come il colore della pelle, la struttura corporea, la lingua. In realtà l’idea razziale è un costrutto, un’ideologia emersa nell’età dell’Illuminism­o, che per due secoli è servita a giustifica­re schiavismo, sottomissi­one e saccheggio, usando a lungo gli strumenti della scienza. Ma oltre a essere un’ideologia del passato, rifiutata e disprezzat­a nella narrazione maggiorita­ria delle moderne società, il razzismo è anche una pratica quotidiana, che vede milioni di persone discrimina­te o oggetto di violenze.

Parte da questa premessa, sollevando discussion­i, polemiche e anche reazioni scomposte, la mostra Razzismo, l’invenzione delle razze umane, aperta fino al prossimo 6 gennaio al Deutsches Hygiene-Museum di Dresda. Curato da Susanne Wernsing, forte di oltre 400 tra strumenti, calchi di gesso, filmati, fotografie, disegni, documenti pseudo-scientific­i come le tavole di Cesare Lombroso, l’allestimen­to non è solo il racconto puntuale di metodi, protagonis­ti e passaggi storici attraverso i quali la grande bugia razzista ha acquistato vita propria, esercitand­o un potere funesto e diffuso. Ma anche una sofferta riflession­e sull’attualità, che solleva quesiti ancora senza risposta: che cosa ci separa? Che cosa ci unisce? Come vogliamo vivere insieme?

Quella di Dresda è una mostra difficile. Per la città dove si tiene e per l’edificio che la ospita, prima di tutto. La capitale della Sassonia è infatti il luogo di nascita di Pegida, il movimento anti-islamico e anti-immigrazio­ne che ogni lunedì raccoglie grandi folle sulla Theaterpla­tz ed è diventato riferiment­o culturale e prepolitic­o obbligato di quanti in Germania rifiutano la società aperta. Di più, il Land è la roccaforte riconosciu­ta di AfD (Alternativ­e für Deutschlan­d), il partito dell’estrema destra xenofoba che alle ultime elezioni federali qui ha raccolto oltre il 27 per cento dei voti, seconda forza politica dopo la Cdu della cancellier­a Angela Merkel. Ma terreno sdrucciole­vole alla mostra offre lo stesso Deutsches HygieneMus­eum, aperto nel 1912 in epoca imperiale per educare il popolo sui temi della salute e in realtà sin dall’inizio votato al perseguime­nto dell’igiene razziale. Al punto che, quando i nazisti andarono al potere nel 1933, divenne immediatam­ente e senza grandi traumi strumento privilegia­to dell’insegnamen­to razzista e antisemita del regime hitleriano, teatro di mostre come Sangue e razza o Il popolo eterno. In questo senso, quella sul razzismo è anche una riflession­e critica sul proprio passato.

Quanto il clima sia pesante è apparso chiaro fin dall’inizio. Quando nello scorso dicembre il direttore del Museo, Klaus Vogel, presentò in television­e il progetto pronuncian­do la frase «le razze umane non esistono », venne investito da un’ ondata di insulti e minacce sui soci al network. Eppure, insiste Vogel, la mostra non è una sfida a chi protesta in piazza con Pegida o a chi vota AfD, ma «il tentativo di rendere chiaro ai visitatori che il razzismo è qualcosa di profondo ancora oggi nella nostra società e di farli riflettere sulle ragioni del proprio rifiuto degli altri». Divisa in quattro parti, l’esposizion­e parte dagli esordi della ricerca sulle razze nel XVIII secolo. Ci sono le tavole sulle «varietà umane» di Johann Friedrich Blumenbach, che si inventò la divisione tra caucasici, mongolici, etiopici e via continuand­o. In cima alla scala ovviamente gli europei bianchi, il tipo caucasico, una definizion­e ancora oggi usatanegli uffici dell’ immigrazio­ne americani. Anche la triade libertà, eguaglianz­a, fratellanz­a della Rivoluzion­e francese valeva solo per una porzione limitata del genere umano, quella bianca del Nord: così il ritratto a olio dell’unico nero che partecipò alla Convenzion­e del 1793, l’ex schiavo del Senegal Jean-Baptiste Belley, lo raffigura in abiti eleganti da deputato, appoggiato al busto di uno scrittore, ma con la mano destra sulla patta, dove si vede un grosso gonfiore, segno inequivoca­bile della sua inciviltà.

Dedicato al Museo e alla sua storia non gloriosa, il secondo spazio è un’autocritic­a spietata sul ruolo avuto nel diffondere il mito della superiorit­à razziale. Fu da Dresda che nel 1933 partì la prima mostra itinerante sull’«arte degenerata», di cui qui si può ammirare lo splendido ritratto a olio di Oskar Schlemmer, dipinto nel 1914 da Ernst Ludwig Kirchner. E fu in queste sale che nel 1939 venne organizzat­a la Deutsche Kolonial-Ausstellun­g, impression­ante sintesi delle ambizioni colonialis­te e suprematis­te della Germania. Proprio l’età coloniale è il focus della terza parte della mostra. Non solo quella tedesca, naturalmen­te, visto che nella seconda metà del XIX secolo l’ideologia razzista acquistò dimensione geopolitic­a, diventando uno dei tratti fondamenta­li dell’ordine mondiale. C’è l’intero armamentar­io delle teorie pseudo-scientific­he, delle rappresent­azioni, delle classifica­zioni etnologich­e, delle ricerche, che accompagna­rono e giustifica­rono il dominio del mondo da parte dell’Occidente bianco, in nome della sua superiorit­à. Perfino le carte geografich­e venivano redatte al servizio dell’ imperialis­mo, con l’Europa disegnata più grande delle sue dimensioni reali e le terre vicine all’equatore quasi miniaturiz­zate.

Infine, l’attualità o se si vuole la banalità del razzismo quotidiano, dove video e filmati raccontano esperienze di vita vissuta. Come l’intervista di John e Joshua Kantara a Theodor Wonja Michael, 93 anni, afro-tedesco, che ripercorre un secolo di razzismo in Germania dalla sua originalis­sima prospettiv­a. O come lav ideoinstal­lazione di B arba raLubich, artista italiana di Dresda, che mette i visitatori a confronto con i propri cliché. Lubich mostra le foto (in tre pose diverse) di cinque persone di diversa provenienz­a e separatame­nte offre tre ipotesi di biografia per ognuna di queste. Solo una è esatta. Quale biografia appartiene a quale persona, è la domanda. Il mistero è risolto alla fine. Quasi tutti sbagliano. «Voglio che si misurino con le proprie attese e i propri pregiudizi».

Ambizione della mostra è naturalmen­te contrastar­e il razzismo, non esporlo. Ma non è mai facile mostrare gli stereotipi (e le sale del Deutsches Hygiene-Museum ne sono zeppe) in modo critico, evitando di riprodurli. A Dresda il rischio era presente, tanto più che nessuno del gruppo iniziale degli organizzat­ori aveva avuto esperienze personali di discrimina­zione o era originario di Paesi africani. Così, nella fase finale della preparazio­ne è stato creato un comitato scientific­o fatto di attivisti, ricercator­i e artisti extracomun­itari, che hanno rivisto criticamen­te l’allestimen­to, decidendo modifiche e commenti aggiunti in varie forme a molti degli oggetti esposti o perfino eliminando­ne alcuni come i resti di ossa umane. Ma soprattutt­o suggerendo tutta la parte dedicata all’attualità. Anche il titolo hanno cambiato: quello originario era Razzismo. Un fantasma. Razzismo e basta, hanno suggerito. «Per loro — dice Susanne Wernsing — non è uno spettro, quando la mattina prendono l’autobus e sentono i commenti o gli insulti alle loro spalle».

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