Corriere della Sera - La Lettura
Ritratti d’Italia (e di italiani) visti dagli stranieri
Una personalità inquieta, mobile. Regista, ma anche sceneggiatore, scrittore, critico, fotografo, musicista, produttore, finanche schermitore. Un eclettico? No. Davide Ferrario è un narratore che, nel corso del suo lungo itinerario, ha provato a declinare la propria vocazione affabulatoria su diversi registri linguistici. In fondo, il suo plurale lavoro potrebbe essere letto proprio come un ostinato tentativo per reinventare i modi, le forme e le pratiche dello storytelling.
Questo temperamento mercuriale è apparso con evidenza già nei suoi film di maggior successo ( Tutti giù per terra, Figli di Annibale, Guardami, Dopo mezzanotte), che rivelano il bisogno di far convivere la tradizione della commedia popolare con soluzioni stilistiche spesso ardite (nelle riprese, nel montaggio).
Da qualche anno, però, Ferrario avverte con forza crescente la volontà di portarsi oltre i riti propri del cinema classico. Distante da quei registi che abitano i territori del puro intrattenimento, sorretto da un temperamento istintivamente avanguardistico, concepisce il proprio mestiere come ricerca continua. Sperimentazione. Navigazione in geografie non ancora frequentate. Questa curiosità lo ha portato a scrivere romanzi ( Dissolvenza al nero e Sangue mio), a curare progetti fotografici ( Foto da galera), a pubblicare articoli su «la Lettura» e saggi eccentrici (come il recente Scherma, schermo).
In questo itinerario segnato da sistematici sconfinamenti un posto di rilievo è occupato dai documentari (tra gli altri, Lontano da Roma, Mondonuovo, La strada di Levi, Seex, Accademia Carrara). E dalle videoinstallazioni. Come quella dedicata alla memoria (basata su un’intervista-confessione di Umberto Eco), presentata alla Biennale di Venezia del 2015. E come Reverse Angle, dal prossimo 22 giugno alle Ogr di Torino, che in pochi mesi sono diventate tra gli spazi artistici più vivaci e attivi in Italia. Si tratta di un intervento che ha dietro di sé una lunga gestazione. Nel 2017 Ferrario viene coinvolto in una mostra collettiva su arte e immigrazione (nell’ambito del Salone del libro di Torino), che non verrà realizzata. Eppure, quell’appuntamento mancato gli offre la possibilità di interrogarsi su una questione di bruciante attualità. Nello stesso periodo gira un documentario il cui protagonista è Marco Paolini, che recita i passaggi di uno struggente reportage nel quale il giornalista Domenico Quirico descrive in prima persona l’esperienza dell’attraversamento del Canale di Sicilia a bordo di un barcone di migranti. La location delle riprese: una chiesa di Pecetto, dove da anni vive lo stesso regista bergamasco. Che, in quell’occasione, sceglie come comparse circa trenta ragazzi africani residenti in quel paese dell’hinterland torinese grazie a un programma di accoglienza diffusa. «La scena riuscì bene. Ma il cinema, per chi lo fa, non è solo ciò che si vede sullo schermo: è anche quello che succede sul set. E io non potevo fare a meno di notare che i ragazzi, per quanto disponibili, non erano molto interessati. E, nelle pause, stavano a