Corriere della Sera - La Lettura
Il futuro della Terra è negli abissi
Categorie La dimensione della profondità, ben presente agli antichi Greci, era scomparsa dalla nostra percezione del mondo, che a lungo ha subordinato il mare alla terraferma. Ma tecnica e mutamenti climatici ci impongono un nuovo cambio di modello
Quando è iniziata la globalizzazione? Dipende da dove si è, o dove si è nati. Se fossimo negli Stati Uniti non vi sarebbe nessuna incertezza: la globalizzazione si manifesta per la prima volta un secolo fa, con l’intervento statunitense nel primo conflitto mondiale europeo, data in cui per gli americani il mondo, per così dire, s’incurva, si flette funzionalmente per la prima volta in una inaspettata direzione. Per l’indiano Amartya Sen la globalizzazione invece comincia con le grandi scoperte geografiche del Rinascimento europeo. Per qualche europeo, a partire da chi scrive, essa è invece il frutto della rete, non ha dunque nemmeno mezzo secolo di vita. Per altri la globalizzazione è addirittura sempre esistita, da quando gli esseri umani sono comparsi sulla Terra. E altri la pensano ancora diversamente.
Nulla di strano in tale varietà di opinioni, anzi: se la Terra è ridotta alla sua superficie, appunto perché essa è una sfera (o quasi) tutti i punti possono essere il centro, il luogo d’emissione di un giudizio che si pretende generale, che valga anche altrove.
La vera questione, molto più radicale, è al contrario un’altra, e riguarda proprio la riduzione del nostro pianeta soltanto alla sua faccia: atto che comporta la sottrazione di una dimensione decisiva (nell’immagine che ne abbiamo) alla sua tridimensionale struttura, la sua trasformazione in un’estensione dotata soltanto di lunghezza e larghezza, in un’unica gigantesca mappa. Il passaggio dall’analogico al digitale ha principio proprio da tale archetipica operazione. Senza di essa non saremmo stati probabilmente in grado di sopravvivere, di addomesticare in maniera efficace il complesso degli elementi che ci circondano, di arrivare insomma fin qui. Ma adesso il funzionamento del mondo impone, in virtù dei suoi recenti e sconvolgenti cambiamenti, un’attitudine meno astratta e semplificatrice nei confronti della nostra casa comune, costringe all’adozione di un modello che a distanza di millenni rispetto all’origine dell’immaginario umano (di certo di quello occidentale) riconosca finalmente la Terra per come essa davvero è, e come abbiamo fin dall’inizio saputo che era senza avere il coraggio di riconoscerlo: un globo appunto, un organismo dotato anche di verticalità, cioè di profondità, che include cioè proprio ciò di cui abbiamo più paura, l’abisso. Questione urgente ma fin qui trascurata a nostro rischio e pericolo, da cui oggi dipende prima che da ogni altra cosa il futuro della stessa umanità.
Grazie agli effetti combinati della telematica, della cibernetica e dell’intelligenza artificiale ci troviamo di nuovo alle prese con l’arcaico. Ed è logico, perché se il mondo è una sfera (come il funzionamento stesso del mondo impone adesso di riconoscere) quel che nel nostro cammino ci lasciamo alle spalle ce lo ritroviamo prima o poi di fronte.
Il primo nome della Terra era Ctòn, racconta (nel VI secolo prima di Cristo) Ferecide, uno dei sapienti greci, come li chiamava Giorgio Colli: quei signori (più conosciuti con il nome di filosofi presocratici) di cui sappiamo pochissimo ma che misero a punto tutti i modelli che abbiamo ancora in testa. Ctòn: il rumore di un sasso che viene inghiottito dalle acque. È Oceano infatti, nella ricostruzione di Ferecide, il ministro che celebra le nozze della Terra con il Cielo, in seguito alle quali, al proprio nome originario la sposa aggiunge (come ancora accade nei nostri paesi) un secondo, e nel caso in questione diventa Gé, la Gaia dei Latini: la Terra intesa come visibilità, luminosità, orizzontalità, chiarezza. Dunque opposta alla sua natura ctonica cioè sotterranea, all’invisibilità, all’oscurità, alla verticalità, il rovescio — insomma — della sua dimensione originaria e costitutiva: il ribaltamento e insieme l’oblio del sottostante fondamento di ogni possibile, evidente manifestazione, di ogni riconoscibile fenomeno, perciò di ogni nostra plausibile possibilità conoscitiva. Per la quale vale dunque ciò che Ludwig Wittgenstein diceva a proposito della parola, semplice pellicola sulla superficie di una profondità abissale.
Per fare quattro passi nell’abisso basta oggi, a Venezia, visitare Prospecting Ocean, la mostra investigativa organizzata sulla soglia dei giardini della Biennale, all’Istituto di Scienze Marine, attraverso la collaborazione tra il Cnr e la ThyssenBornemisza Art Contemporary Academy. E dove Armin Linke, regista e fotografo che da anni gira il mondo muovendosi come un equilibrista tra arte e scienza, ha radunato immagini, manufatti e discorsi (di scienziati, attivisti, esperti legali) che scrutano, riguardo le profondità marine e la loro esplorazione, l’estetica degli apparati tecno-scientifici e insieme le modalità sempre più nervose della tensione tra sfruttamento politico ed economico degli oceani e loro protezione ecologica.
Ne risulta, a proposito della maniera di concepire la Terra, una rivoluzione paragonabile a quella che, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, diede forma al modello moderno. Prima di questo, la terra emersa era concepita ancora come ai tempi di Ferecide, una sola isola tutta circondata da un unico mare. Ma all’inizio della modernità tale schema viene rovesciato, proprio come un calzino: quel che fino ad allora era esterno, l’oceano, si frantuma in una serie di mari interni, e quel che era interno, la terra, diventa invece la cornice, il contenitore. Di qui all’idea di continente, inteso come grande estensione di terraferma, il passo sarà breve, soltanto un paio di secoli.
Ma il modello continentale è ancora valido? Domandano gli abitanti di Kiribati, repubblica composta da atolli ed isolette sgranate nel Pacifico centrale lungo l’equatore, e minacciata dal sollevamento del pelo dell’acqua oceanica: un Paese senza superficie al disopra del livello del mare cessa di esistere? Oppure ancora, e questo se lo chiedono oggi tutti: se la linea di base degli Stati costieri oscilla, che cosa è davvero la piattaforma continentale, a partire dalla quale vengono calcolate le acque territoriali di propria pertinenza? Dove comincia, e dove finisce? Dalla risposta a tali domande dipendono una serie di irrisolti problemi che non si riferiscono soltanto a semplici questioni territoriali ma investono l’accesso a sommerse e gigantesche risorse biologiche sempre più essenziali e spesso ancora poco note, ma la cui appropriazione già dà luogo a furibonde lotte tra enti pubblici e privati. E dal loro esito, o dalla loro ricomposizione, dipenderà il nostro prossimo armamentario cognitivo, la nostra nuova generazione di modelli non soltanto terrestri, cioè riferiti a quell’oggetto che è il nostro pianeta, ma conoscitivi in senso generale.
Come spiegava Ferecide: è dal modello della Terra che discendono tutte le mosse possibili della conoscenza umana.