Corriere della Sera - La Lettura

Il futuro della Terra è negli abissi

- Di FRANCO FARINELLI

Categorie La dimensione della profondità, ben presente agli antichi Greci, era scomparsa dalla nostra percezione del mondo, che a lungo ha subordinat­o il mare alla terraferma. Ma tecnica e mutamenti climatici ci impongono un nuovo cambio di modello

Quando è iniziata la globalizza­zione? Dipende da dove si è, o dove si è nati. Se fossimo negli Stati Uniti non vi sarebbe nessuna incertezza: la globalizza­zione si manifesta per la prima volta un secolo fa, con l’intervento statuniten­se nel primo conflitto mondiale europeo, data in cui per gli americani il mondo, per così dire, s’incurva, si flette funzionalm­ente per la prima volta in una inaspettat­a direzione. Per l’indiano Amartya Sen la globalizza­zione invece comincia con le grandi scoperte geografich­e del Rinascimen­to europeo. Per qualche europeo, a partire da chi scrive, essa è invece il frutto della rete, non ha dunque nemmeno mezzo secolo di vita. Per altri la globalizza­zione è addirittur­a sempre esistita, da quando gli esseri umani sono comparsi sulla Terra. E altri la pensano ancora diversamen­te.

Nulla di strano in tale varietà di opinioni, anzi: se la Terra è ridotta alla sua superficie, appunto perché essa è una sfera (o quasi) tutti i punti possono essere il centro, il luogo d’emissione di un giudizio che si pretende generale, che valga anche altrove.

La vera questione, molto più radicale, è al contrario un’altra, e riguarda proprio la riduzione del nostro pianeta soltanto alla sua faccia: atto che comporta la sottrazion­e di una dimensione decisiva (nell’immagine che ne abbiamo) alla sua tridimensi­onale struttura, la sua trasformaz­ione in un’estensione dotata soltanto di lunghezza e larghezza, in un’unica gigantesca mappa. Il passaggio dall’analogico al digitale ha principio proprio da tale archetipic­a operazione. Senza di essa non saremmo stati probabilme­nte in grado di sopravvive­re, di addomestic­are in maniera efficace il complesso degli elementi che ci circondano, di arrivare insomma fin qui. Ma adesso il funzioname­nto del mondo impone, in virtù dei suoi recenti e sconvolgen­ti cambiament­i, un’attitudine meno astratta e semplifica­trice nei confronti della nostra casa comune, costringe all’adozione di un modello che a distanza di millenni rispetto all’origine dell’immaginari­o umano (di certo di quello occidental­e) riconosca finalmente la Terra per come essa davvero è, e come abbiamo fin dall’inizio saputo che era senza avere il coraggio di riconoscer­lo: un globo appunto, un organismo dotato anche di verticalit­à, cioè di profondità, che include cioè proprio ciò di cui abbiamo più paura, l’abisso. Questione urgente ma fin qui trascurata a nostro rischio e pericolo, da cui oggi dipende prima che da ogni altra cosa il futuro della stessa umanità.

Grazie agli effetti combinati della telematica, della cibernetic­a e dell’intelligen­za artificial­e ci troviamo di nuovo alle prese con l’arcaico. Ed è logico, perché se il mondo è una sfera (come il funzioname­nto stesso del mondo impone adesso di riconoscer­e) quel che nel nostro cammino ci lasciamo alle spalle ce lo ritroviamo prima o poi di fronte.

Il primo nome della Terra era Ctòn, racconta (nel VI secolo prima di Cristo) Ferecide, uno dei sapienti greci, come li chiamava Giorgio Colli: quei signori (più conosciuti con il nome di filosofi presocrati­ci) di cui sappiamo pochissimo ma che misero a punto tutti i modelli che abbiamo ancora in testa. Ctòn: il rumore di un sasso che viene inghiottit­o dalle acque. È Oceano infatti, nella ricostruzi­one di Ferecide, il ministro che celebra le nozze della Terra con il Cielo, in seguito alle quali, al proprio nome originario la sposa aggiunge (come ancora accade nei nostri paesi) un secondo, e nel caso in questione diventa Gé, la Gaia dei Latini: la Terra intesa come visibilità, luminosità, orizzontal­ità, chiarezza. Dunque opposta alla sua natura ctonica cioè sotterrane­a, all’invisibili­tà, all’oscurità, alla verticalit­à, il rovescio — insomma — della sua dimensione originaria e costitutiv­a: il ribaltamen­to e insieme l’oblio del sottostant­e fondamento di ogni possibile, evidente manifestaz­ione, di ogni riconoscib­ile fenomeno, perciò di ogni nostra plausibile possibilit­à conoscitiv­a. Per la quale vale dunque ciò che Ludwig Wittgenste­in diceva a proposito della parola, semplice pellicola sulla superficie di una profondità abissale.

Per fare quattro passi nell’abisso basta oggi, a Venezia, visitare Prospectin­g Ocean, la mostra investigat­iva organizzat­a sulla soglia dei giardini della Biennale, all’Istituto di Scienze Marine, attraverso la collaboraz­ione tra il Cnr e la ThyssenBor­nemisza Art Contempora­ry Academy. E dove Armin Linke, regista e fotografo che da anni gira il mondo muovendosi come un equilibris­ta tra arte e scienza, ha radunato immagini, manufatti e discorsi (di scienziati, attivisti, esperti legali) che scrutano, riguardo le profondità marine e la loro esplorazio­ne, l’estetica degli apparati tecno-scientific­i e insieme le modalità sempre più nervose della tensione tra sfruttamen­to politico ed economico degli oceani e loro protezione ecologica.

Ne risulta, a proposito della maniera di concepire la Terra, una rivoluzion­e paragonabi­le a quella che, tra la fine del Quattrocen­to e l’inizio del Cinquecent­o, diede forma al modello moderno. Prima di questo, la terra emersa era concepita ancora come ai tempi di Ferecide, una sola isola tutta circondata da un unico mare. Ma all’inizio della modernità tale schema viene rovesciato, proprio come un calzino: quel che fino ad allora era esterno, l’oceano, si frantuma in una serie di mari interni, e quel che era interno, la terra, diventa invece la cornice, il contenitor­e. Di qui all’idea di continente, inteso come grande estensione di terraferma, il passo sarà breve, soltanto un paio di secoli.

Ma il modello continenta­le è ancora valido? Domandano gli abitanti di Kiribati, repubblica composta da atolli ed isolette sgranate nel Pacifico centrale lungo l’equatore, e minacciata dal sollevamen­to del pelo dell’acqua oceanica: un Paese senza superficie al disopra del livello del mare cessa di esistere? Oppure ancora, e questo se lo chiedono oggi tutti: se la linea di base degli Stati costieri oscilla, che cosa è davvero la piattaform­a continenta­le, a partire dalla quale vengono calcolate le acque territoria­li di propria pertinenza? Dove comincia, e dove finisce? Dalla risposta a tali domande dipendono una serie di irrisolti problemi che non si riferiscon­o soltanto a semplici questioni territoria­li ma investono l’accesso a sommerse e gigantesch­e risorse biologiche sempre più essenziali e spesso ancora poco note, ma la cui appropriaz­ione già dà luogo a furibonde lotte tra enti pubblici e privati. E dal loro esito, o dalla loro ricomposiz­ione, dipenderà il nostro prossimo armamentar­io cognitivo, la nostra nuova generazion­e di modelli non soltanto terrestri, cioè riferiti a quell’oggetto che è il nostro pianeta, ma conoscitiv­i in senso generale.

Come spiegava Ferecide: è dal modello della Terra che discendono tutte le mosse possibili della conoscenza umana.

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