Corriere della Sera - La Lettura

Riformator­e o corruttore? Giolitti ancora sotto inchiesta

Sergio Bucchi: era pronto a ogni compromess­o per restare al potere Fulvio Cammarano: fu il difensore delle istituzion­i rappresent­ative

- Conversazi­one tra SERGIO BUCCHI e FULVIO CAMMARANO a cura di ANTONIO CARIOTI

1928- 2018 A novant’anni dalla scomparsa dello statista liberale, i pareri degli studiosi restano discordi. Per alcuni i metodi spregiudic­ati che usava nel Sud agli inizi del Novecento minarono alla base la nascente democrazia, per altri cercò sempre di affermare la centralità del Parlamento e capì il rischio dell’ingresso nella Grande guerra, ma dovette adattare le sue scelte alle condizioni di un Paese arretrato e immaturo

Saggio riformator­e o «ministro della mala vita»? Novant’anni fa, il 17 luglio 1928, moriva Giovanni Giolitti, lo statista liberale che aveva dominato la scena politica nei primi anni del Novecento. Nato nel 1842, già primo ministro per un anno tra il 1892 e il 1893, si era affermato come protagonis­ta a partire dal 1901, tanto che il periodo successivo è noto sotto il nome di era giolittian­a. Dominatore indiscusso del Parlamento, innovatore cauto e misurato, aperto al confronto con il socialismo riformista, Giolitti fu però violenteme­nte avversato non solo dai rivoluzion­ari di sinistra e dai nazionalis­ti di destra, ma anche da chi riteneva che la sua visione compromiss­oria e la sua spregiudic­atezza nel procurarsi il consenso dei deputati avessero un effetto corruttore sulla vita pubblica.

La disputa si è poi trasferita a livello storiograf­ico: il giudizio sull’epoca giolittian­a resta un punto controvers­o nella vicenda italiana unitaria. Per approfondi­rlo, «la Lettura» si è rivolta a due studiosi di opinioni diverse. Fulvio Cammarano rappresent­a un punto di vista favorevole a Giolitti. Sergio Bucchi ha curato l’edizione più recente del libro Il ministro della mala vita (Bollati Boringhier­i, 2000), nel quale il meridional­ista Gaetano Salvemini polemizzav­a duramente contro Giolitti. Proprio da quell’atto di accusa parte la discussion­e SERGIO BUCCHI — Sconfitta la reazione di fine secolo, che nel 1898 aveva visto l’esercito sparare sulla folla a Milano, Salvemini, allora socialista, chiede al Psi, protagonis­ta della battaglia contro la fal- lita svolta autoritari­a, di impiegare la forza del proletaria­to organizzat­o per trasformar­e il Paese in senso democratic­o. Mette le riforme politiche davanti a quelle sociali, invoca il diritto di voto anche per gli analfabeti, il suffragio universale. Ma il Psi non lo ascolta: tutela gli interessi dei lavoratori del Nord già organizzat­i e trascura i diritti negati alle popolazion­i del Sud. Così le avanguardi­e proletarie diventano oligarchie, si chiudono in sé stesse. Giolitti, ai primi del Novecento, apre il dialogo con i socialisti per integrarli nel sistema, ma la sua responsabi­lità sta nell’aver condotto tale operazione avvalendos­i di una maggioranz­a parlamenta­re ottenuta manipoland­o le elezioni nel Sud. Mentre al Nord il voto si svolge regolarmen­te, nel Mezzogiorn­o il leader liberale mantiene i metodi spregiudic­ati e truffaldin­i adottati dai governi nel XIX secolo, in modo da assicurare l’elezione di deputati a lui fedeli. Perciò l’Italia dell’epoca si presenta come una democrazia in cammino, ma al tempo stesso porta in sé pericolosi germi di corruzione, perché calpesta il diritto di voto e l’autonomia del Parlamento. Quindi Giolitti, con la connivenza dei socialisti riformisti come Filippo Turati, tradisce la democrazia proprio mentre sembra favorirne il progresso. Contro questo sistema Salvemini reclama il suffragio universale, per spezzare il dominio dei grandi latifondis­ti e della piccola borghesia intellettu­ale, che nel Sud costituisc­e la base clientelar­e delle forze di governo. FULVIO CAMMARANO — Queste critiche sono fondate sul piano teorico. Ma nella realtà storica dubito che le elezioni meridional­i, se Giolitti non le avesse governate, si sarebbero svolte in modo ineccepibi­le con un conflitto virtuoso tra alternativ­e di programma, dato il tessuto sociale dell’epoca. Le condizioni politiche per una riforma agraria che nel Sud spezzasse il potere dei latifondis­ti non c’erano: Giolitti tenta di abbozzarla, ma senza convinzion­e. La sua scelta è puntare su un cambiament­o in tempi lunghi, sperando che il Nord, progredend­o, traini anche il resto d’Italia. La maggioranz­a che si procura al Sud con metodi discutibil­i gli serve proprio per proseguire nell’apertura a sinistra, volta a integrare nello Stato liberale le masse popolari, anche sulla scorta di una crescita economica impetuosa favorita dalla situazione internazio­nale. Però Giolitti non abbandona il Mezzogiorn­o: nel 1904, in accordo con il meridional­ista Francesco Saverio Nitti, fa approvare la legge speciale per Napoli. Introduce anche il suffragio universale maschile, i cui effetti positivi richiedono anch’essi tempi lunghi, che purtroppo non ci saranno per via della guerra.

SERGIO BUCCHI — Nel 1912 Giolitti, però, concede il suffragio universale maschile dall’alto, con una manovra di palazzo, senza che la riforma sia stata preparata né da lui né dai socialisti, come osserva Salvemini. E infatti nel 1913 le prime elezioni con le nuove regole registrano nel Sud un netto peggiorame­nto della situazione: non bastano più i semplici brogli e si ricorre alle violenze. Poi nel 1919, dopo il trauma della Grande guerra, il Parlamento diventerà ingovernab­ile, anche perché tutti i combattent­i acquisisco­no il diritto di voto, che era riservato anche agli analfabeti che avessero assolto agli obblighi militari.

FULVIO CAMMARANO — Comunque il suffragio universale contribuis­ce a rafforzare il sistema parlamenta­re, come denuncia nel 1912 Benito Mussolini, che allora era un socialista rivoluzion­ario, esortando il Psi a non farsi coinvolger­e nel regime borghese. Quanto alla situazione del 1919, bisogna anche tener conto che allora si vota per la prima volta con un sistema proporzion­ale, non più con il maggiori t a r i o uni nominale. E poi è l’esplodere della violenza politica dopo la Prima guerra mondiale, una guerra a cui Giolitti si era opposto, che fa dell’Italia un Paese ingovernab­ile.

SERGIO BUCCHI — Ma che cos’è che rende le organizzaz­ioni socialiste così vulnerabil­i alla violenza fascista, tanto che molte cambiano bandiera e passano con le camicie nere? Proprio la scarsa capacità di condurre una lotta politica aperta, l’abitudine a contare sulla benevolenz­a del governo che i socialisti avevano contratto in epoca giolittian­a. Nel 1928, quando esce la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, Salvemini la elogia. Costretto all’esilio dal fascismo, ap- prezza la difesa del sistema liberale contro la propaganda falsificat­rice della dittatura. Però rimprovera a Croce di aver sottolinea­to il progresso economico del periodo tra il 1901 e il 1915 trascurand­o il contempora­neo regresso della vita politica, per via del discredito attirato sulle istituzion­i rappresent­ative dalla condotta di Giolitti. Un discredito che prepara il terreno alla dittatura. La democrazia è già malata, quando viene abbattuta da Mussolini. E lo è soprattutt­o per responsabi­lità di Giolitti, che considerav­a la Camera un semplice strumento passivo per condurre la sua politica.

FULVIO CAMMARANO — I mali del sistema rappresent­ativo esistevano ben prima dell’avvento di Giolitti, che segna invece un’apertura di orizzonti. Per esempio il leader liberale, già da ministro dell’Interno, ordina di non reprimere più gli scioperi e sostituisc­e alcuni prefetti che da quell’orecchio non ci sentono. D’altronde qual era l’alternativ­a alla sua politica? Sidney Sonnino critica il trasformis­mo giolittian­o e invoca una lotta aperta fra partiti contrappos­ti. Ma fallisce sempre, perché il suo disegno presuppone la creazione di un vero e proprio partito liberale, che invece non nasce mai perché la classe dirigente dell’epoca non ha la mentalità necessaria per dare vita a una forza politica organizzat­a: si sente rappresent­ante della comunità nazionale nel suo complesso e considera deleteria la divisione del Paese in fazioni opposte. A quella visione, profondame­nte radicata nella cultura politica liberale, si adatta molto di più la linea giolittian­a, che prevede la formazione di una vasta maggioranz­a dai tratti politici meno definiti e disposta a scendere a patti con le opposizion­i.

SERGIO BUCCHI — Però a sinistra un par t i to e s i s te va , quel l o s oc i a l i s t a . E avrebbe dovuto assumersi una responsabi­lità nazionale, svolgendo un’opposizion­e più netta e decisa alla politica giolittian­a, che sacrificav­a il Sud e sviliva il Parlamento.

FULVIO CAMMARANO — In realtà l’inizio e la fine dell’età giolittian­a coincidono con l’affermazio­ne e con la cancellazi­one della centralità parlamenta­re. L’egemonia politica di Giolitti comincia con la sconfitta della reazione di fine Ottocento e finisce nel maggio 1915, con l’intimidazi­one della piazza interventi­sta contro la maggioranz­a neutralist­a della Camera. In quella fase Giolitti, che valuta con realismo il rischio enorme dell’entrata in guerra e si oppone quindi alle scelte del governo, è il più importante difensore delle istituzion­i parlamenta­ri, perciò diventa il bersaglio di una violentiss­ima campagna d’odio.

SERGIO BUCCHI — Nel 1915 c’è una sorta di colpo di Stato contro la Camera. Ma proprio questo dimostra che il Parlamento non funziona più, non è in grado di controllar­e il governo. Il presidente del Consiglio Antonio Salandra e Sonnino,

ministro degli Esteri, concludono in segreto il patto di Londra per portare il Paese in guerra e, quando mettono il Parlamento davanti al fatto compiuto, la maggioranz­a giolittian­a approva il loro operato senza fiatare. FULVIO CAMMARANO — Certo, ma di mezzo c’è il colloquio di Giolitti con il re, che è decisivo. Vittorio Emanuele III blocca ogni iniziativa neutralist­a, che pure avrebbe avuto la maggioranz­a in Parlamento, prospettan­do la propria abdicazion­e, cioè una crisi istituzion­ale. E Giolitti ovviamente si ritrae. Solo a quel punto il Parlamento, rimasto senza guida e aggredito dalla piazza, accetta l’entrata in guerra. SERGIO BUCCHI — Bisogna ricordare, però, che l’interventi­smo del 1915 ha un precedente nel 1911, quando Giolitti dichiara guerra alla Turchia per occupare la Libia, dando spazio alle tendenze nazionalis­te che poi si rivolgeran­no contro di lui nel 1915.

FULVIO CAMMARANO — Giolitti non è affatto entusiasta dell’impresa di Tripoli, ma deve tener conto del contesto internazio­nale. Le altre potenze permettono all’Italia di conquistar­e la colonia africana, ma sono pronte a impadronir­si della Libia nel caso in cui Roma rimanesse inerte. Se fossero stati i francesi a sbarcare a Tri poli , l a l eadership di Gioli t t i avrebbe subito un colpo durissimo.

SERGIO BUCCHI — Proprio qui, però, emerge il grande difetto della sua politica. Giolitti non è un dittatore, la sua prassi è democratic­a, ma pur di mantenere il potere è disposto a qualsiasi compromess­o. Infatti quando torna al governo, nel 1920, consente alle forze dell’ordine e all’esercito di appoggiare la violenza fascista. Certo, dimostra anche grandi capacità nel risolvere la crisi di Fiume e la vertenza che aveva portato all’occupazion­e delle fabbriche. Ma concede troppo al complesso delle forze reazionari­e (gli ambienti di corte, gli alti gradi militari, la grande industria) che cercano una rivincita storica approfitta­ndo degli errori compiuti dai socialisti massimalis­ti, che predicano la rivoluzion­e a parole senza essere in grado di farla. Per contrastar­e il Psi, Giolitti nel 1921 apre all’ingresso di Mussolini e dei suoi nelle file della maggioranz­a governativ­a. Spera di controllar­li e non capisce che finiranno per prendergli la mano.

FULVIO CAMMARANO — Giolitti vorrebbe integrare i fascisti nel sistema costituzio­nale, come aveva cercato di fare in precedenza con i socialisti in sintonia con Turati. Ma nel 1922 si rende conto del pericolo. E quando la situazione diventa critica, rimane lui, benché sia ormai anziano, l’unico punto di riferiment­o possibile di chi intende salvare le libertà costituzio­nali. Se i cattolici del Partito popolare avessero accettato di appoggiarl­o, fors e G i o l i t t i a v r e b b e p ot u t o f e r ma r e Mussolini. In fondo aveva dimostrato di saper essere anche duro, come lo era stato nel 1920 sulla questione di Fiume, quando aveva sloggiato con la forza Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari dalla città adriatica.

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Qui sotto: granatieri italiani in azione durante la guerra di Libia. Il conflitto con la Turchia ottomana, che all‘epoca controllav­a quella zona del Nord Africa, venne avviato dal governo di Giovanni Giolitti nel settembre del 1911 e si concluse con la...
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Gli interlocut­ori Sergio Bucchi (a sinistra nella foto) ha insegnato Storia della filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Specialist­a del pensiero anglosasso­ne tra XVIII e XIX secolo, ha curato carteggi e scritti di Gaetano Salvemini, critico...

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