Corriere della Sera - La Lettura
Che romantici gli Iron Maiden!
La band, uno dei gruppi più potenti dell’heavy metal, torna in Italia per tre tappe (Firenze, Milano, Trieste). Lo scrittore Mirko Zilahy ha letto e riletto i loro testi: grande debito verso la straordinaria tradizione inglese che risale a Samuel Taylor Coleridge — perché il vecchio marinaio, lo sappiamo, suona rock metallico; e poi anche Poe, Lovecraft, Conrad, Huxley, Golding e persino Eco
L’albatro scivola dal tappeto d’aria ove galleggia, fin dentro la nave. Cade come cade un pezzo di carne e di piume. Cade insieme all’improvviso silenzio che ruba l’anima al mare. E con l’animale morto cade anche il vento. La nave è in bonaccia. Gli uomini fissano increduli l’assurda distesa equorea che li circonda, immobile. È stato il vecchio marinaio a colpire l’uccello sacro con un dardo della balestra, e da quel momento in poi la storia della ciurma, e quella del romanticismo inglese, non sarà più la stessa.
Siamo nel 1798 (anno di nascita di Leopardi) e Samuel Taylor Coleridge — il più dotato, geniale, visionario poeta della coppia che, con Wordsworth, compone il manifesto delle Lyrical Ballads — pubblica The Rime of the Ancient Mariner. È la storia di un uomo costretto da una maledizione a narrare, fino alla fine dei suoi giorni e a chiunque incontri sulla propria strada, l’infausto viaggio per mare e l’immondo peccato di cui si è reso colpevole. E così, ogni volta, principia descrivendo l’orribile tempesta che ha condotto la nave su cui viag- giava, insieme a una nutrita ciurma, dall’equatore al Polo Sud dove si è incagliata tra le gelide calotte di ghiaccio. Quando tutto sembra perduto, un albatro si posa sull’albero del natante e gli uomini lo accolgono come un segno propizio, tanto che gli offrono il poco cibo che resta a bordo. E il vento pare quasi riaversi. È a quel punto che il vecchio, stremato, folle di paura, gli occhi scintillanti, con un atto violento e insensato, scocca la freccia e uccide l’albatro macchiandosi della più orribile delle colpe. Per i suoi compagni, il marinaio è il responsabile del lento e inesorabile naufragio che spinge l’imbarcazione in acque sempre più perigliose e sconosciute e l’albatro gli viene appeso al collo come monito. È l’inizio della fine.
Cala la notte e la nave è inchiodata al mare come un quadro sul muro; non c’è vento, nulla si muove attorno. Poi, la speranza che arriva da lontano, ecco un vascello. La ciurma esulta, certa di essere prossima alla salvezza, ma appena quello si accosta, la disperazione dell’equipaggio si tramuta in orrore. Il vascello è vuoto, tranne che per due lugubri figure sul ponte. Morte e Vita-inMorte sono lì, diafane e ghignanti, a giocarsi a dadi le
vite dei marinai e quella del peccatore che ha commesso l’atto nefasto. La carcassa del vascello spettrale sembra galleggiare sopra le acque e il vecchio, soffocando un moto d’orrore, scopre di essere il premio di Vita-inMorte che ha vinto la partita a dadi. La Morte, invece, si accontenta dei duecento uomini che, uno dopo l’altro, bagnati dall’incantata luce della luna, cadono vittime della sete, nel paradossale mare d’acqua che li circonda. Resta, per ultimo, il vecchio, condannato a espiare la sua colpa. Sette giorni e sette notti di solitudine e orrore, circondato da un mare solcato da immondi mostri marini che nel suo percorso d’espiazione si trasformano in abbaglianti creature divine. Condotti dalla Vergine e dagli angeli la nave e il suo ospite toccheranno infine il porto, dove avrà inizio la maledizione di Vita-inMorte.
Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), critico, giornalista e poeta inglese del Devonshire dotato di una stupefacente cultura umanistica, filosofica e scientifica, ha composto — qualcuno ipotizza sotto l’effetto dell’oppio di cui era dipendente per sedare immani dolori reumatici — la sua straordinaria Ballata rifacendosi a un genere popolare per lo più cantato, infarcendolo di elementi eruditi e componendo un mosaico chiaroscurale con l’utilizzo di un lessico tecnico ed evocativo che dalla popolarità si allontana per divenire un unicum magico e sublime.
Non è certo un caso se, facciamo un salto di quasi settant’anni, siamo nel 1866, Gustave Doré si innamora dello spirito dell’opera di Coleridge e racconta a modo suo, con una serie di incisioni oggi custodite alla British Library — celebri quelle per la Commedia dantesca, l’Orlando furioso, Paradise Lost e la Bibbia —, le scene più potenti del Vecchio marinaio. L’uso ossessivo dei contrasti, i vuoti e i pieni, illumina la nave di una luce di paglia, bagna d’ombre silenti i corpi senza vita dei marinai, congela in uno scatto fantasmatico la partita a dadi tra le due oscure signore. L’arte di Doré, le tenebre nel tratto fantastico, medioevale, si specchia perfettamente nella sua versione, assieme letteraria e popolare, solida e grottesca, che ammanta ogni verso della Ballata del vecchio marinaio. La potenza e il mistero delle incisioni traducono in un altro sistema di segni, ma con un’aderenza ammirevole, la vivida cupezza della maledizione dell’albatro e del suo assassino.
Stavolta con un doppio salto mortale, ma con lo stesso graffio raffinato e feroce, ci ritroviamo al 3 settembre 1984, quando la band inglese degli Iron Maiden resuscita e trasforma, ancora una volta, il capolavoro di Coleridge in una song grandiosa e incantata nell’album
Powerslave. All’apice del successo planetario, i Maiden inventano questo capolavoro di sintesi riuscendo a conservare, potenziandola, l’anima nera, romantica e misteriosa, della Ballata. Lunga oltre 13 minuti, per tener fede all’originale, viene «tradotta» dal bassista Steve Harris in un sistema di quartine giambiche capaci di rinvigorire l’epica ipnotica e drammatica della dannazione del vecchio marinaio. Oltre alle citazioni nel testo della canzone vivono ovunque passaggi ripresi da Coleridge in una metrica che ne conserva l’andatura cavalcante e la ripropone mediata dalle terzine metalliche del basso arrembante di Harris:
(Giorno dopo giorno, l’uno dopo l’altro/ Fermi, senza vento né movimento/ Immoti come una nave dipinta/ sopra un oceano dipinto./ Acqua, acqua ovunque/ e tutte le assi si ritirano/ Acqua, acqua ovunque/ma nemmeno una goccia da bere). Il brano, maestoso, complesso, è pervaso da un
sound solido su cui si eleva la voce potente e lirica, al massimo della sua capacità tecnica ed espressiva, di Bruce Dickinson che narra la storia quasi verso dopo verso. I possenti riff delle due chitarre, i contrappunti dei piatti della batteria, le rullate e i controtempi simulano la furia inesausta e snervante del mare in tempesta finché giunge l’oscuro presagio, e la desolazione spezza la canzone in blocchi che ricalcano la divisione in stanze del poema di Coleridge. A metà della ballad, un in- terludio improvviso, dove ogni strumento s’attenua, in consonanza con la paralisi dell’aria e dell’acqua, della distesa di ghiaccio del Polo Sud. Solo il lieve arpeggio di basso, i tenui cigolii della nave e la desolante parte recitata fanno il resto. Gli uomini, uno a uno cadono vittime della maledizione:
(Sotto la luna e la sua corte astrale/ Neppure il tempo per un sospiro o un grido/ Si voltarono, uno per uno, in quell’agonia spettrale/ Maledicendomi con lo sguardo./ Quattro volte cinquanta uomini vivi/ (e non udii né un grido né un sospiro)/ ciascuno con un tonfo, come cose senza vita,/ caddero uno dopo l’altro).
La Vergine di Ferro riporta l’opera simbolo del Romanticismo inglese all’interno del genere ballata conservandone l’indole popolare ma lirica e potenziandone e diffondendone, com’è proprio del rock, forme e contenuti. Nel territorio insalubre e palustre della letteratura ri-immaginata e raccontata, gli Iron Maiden ci restituiscono la sua dimensione orale, musicale, in un connubio che sviluppa una forza evocativa superiore. La prosecuzione naturale del percorso poetico di Coleridge — soprattutto nei concetti di Immaginazione e Fantasia, nell’interesse per Cosmologia e Fisica, e nelle atmosfere a cavallo tra mistico e misterico — dalla Bal
lata del vecchio marinaio giunge, quarant’anni dopo e molte miglia oltre l’Atlantico, a contaminare la poetica di Edgar Allan Poe. Non è un caso che dello scrittore americano (nato a Boston e morto quarantenne a Baltimora) e della sua opera più oscura s’interessasse, ancora una volta, Gustave Doré, illustrandone stupendamente la poesia più celebre dei suoi tempi, The Raven ( Il corvo). E forse non è neppure un caso se, sul filo nero appena tracciato, si muovano nuovamente le note degli Iron Maiden che nell’album Killers (1981) s’inventano un pezzo arrembante e selvaggio, Murders in the
Rue Morgue, riscritto a partire dall’omonimo racconto di Poe (1841), di cui è protagonista l’antesignano di tutti i detective, Auguste Dupin.
All’interno dell’imponente produzione maideniana (ormai 16 album in studio e vari live) gli autori che trovano spazio sono spesso loschi gaglioffi delle lettere, maledetti o visionari, sempre ammantati d’un’aura oscura e misterica. Nella medesima galleria di perle si colloca l’opera più celebre di Gaston le Roix, Il fanta
sma dell’opera che diventa Phantom of the Opera nell’album di esordio, Iron Maiden. Persino l’iconologia maideniana si giova di citazioni letterarie come da La
città senza nome di Lovecraft che compare sulla copertina di Live after Death: That is not dead which can eternal lie, yet with strange aeons even death may die.
(Non è morto ciò che può attendere in eterno/ e col volgere di strani eoni anche la morte può morire). Gli Iron negli anni hanno spaziato dalla mitologia, con il rovesciamento del mito di Icaro e Dedalo, in Flight of Icarus contenuto in Piece of Mind (1983) alla storia greca nella canzone-biografia Alexander the Great (1986). La commistione di alto e basso (lettere e metal) avrebbe fatto sussultare di gioia Umberto Eco, il cui Nome della rosa ha ispirato la solenne The Sign of the Cross. C’è il Conrad di Cuore di tenebra nella song The Edge of Darkness, si passa per la letteratura fantascientifico-distopica con Brave New World di Aldous Huxley e si arriva a William Golding col grandioso Lord of the
Flies.
I Maiden saranno in Italia per il Legacy of the Beast
tour (Firenze 16 giugno, Milano 9 luglio, Trieste 17 luglio), con Dickinson al top dopo il tumore alla gola e una straordinaria serie di effetti speciali che, nella loro migliore tradizione, sarà il pirotecnico collante tra musica, spettacolo e poesia. ©
Day after day, day after day We stuck, nor breath nor motion As idle as a painted ship, Upon a painted ocean. Water, water everywhere And all the boards did shrink Water, water everywhere, Nor any drop to drink One after one, by the star-dogged Moon Too quick for groan or sigh Each turned his face with a ghastly pang And cursed me with his eye. Four times fifty living men, (And I heard nor sigh nor groan) With heavy thump, a lifeless lump, They dropped down one by one.