Corriere della Sera - La Lettura
Benedetto XIV l’inventore delle encicliche
Chiesa Nel Settecento con Papa Lambertini le lettere «circolari» acquisirono il rilievo odierno
Il titolo di «enciclica» suona al nostro orecchio particolarmente solenne, da quando il 3 dicembre 1740 Prospero Lambertini, divenuto nell’agosto precedente Papa col nome di Benedetto XIV, spedì una lettera a tutti i vescovi dall’impegnativo titolo di Epistola encyclica et
commonitoria ad omnes episcopos. In realtà, una corretta traduzione suona all’incirca così: «Lettera circolare di istruzioni a tutti i vescovi», esattamente come un funzionario di livello più elevato invia una «circolare» ai suoi sottoposti. Il vocabolo latino encyclica è infatti un calco dal greco en kyklio, «in cerchio», e in latino dovrebbe essere tradotto con circularis; ma, si sa, nella prosa ecclesiastica il suono del greco fa tutto un altro effetto.
In realtà, scrivere lettere indirizzandole a un insieme di più destinatari è stata una pratica comune sin dalle origini del cristianesimo: la maggior parte dei testi raccolti nel Nuovo Testamento è costituita da missive di questo tipo, mirate a raggiungere il massimo numero di lettori possibile, anche se apparentemente indirizzate a un singolo o a una comunità, come nel caso delle lettere di Paolo e degli altri apostoli.
Proprio rifacendosi a questo modello, nel corso dei secoli i vescovi presero a scrivere analoghe «lettere apostoliche» o «lettere pastorali», in cui si rivolgevano al proprio gregge o, nel caso degli arcivescovi e dei metropoliti, ai confratelli nell’episcopato che dipendevano da loro.
Un caso tipico di lettera pastorale era quella indirizzata dal vescovo ai fe-
deli della propria diocesi in occasione della Quaresima: nel cristianesimo antico di ambito egiziano rappresentò un genere letterario, la «lettera festale», in cui era annunciata la data della festa della Pasqua e, insieme, comparivano insegnamenti morali, riferimenti all’attualità religiosa, esposizioni dottrinali.
Analogamente facevano i Pontefici romani, la cui produzione epistolare venne assumendo un rilievo sempre maggiore in parallelo all’affermarsi del primato papale nell’Occidente latino. Nel corso del Medioevo, il Papa si dotò di un apposito ufficio per la redazione di tali lettere, che potevano avere contenuti dogmatici («costituzioni») o amministrativi («decreti») e che, a seconda del maggiore o minore grado di rilevanza, rientravano nella categoria della bulla («bolla», dal sigillo su ceralacca che la chiudeva) o del «breve» (lettera meno solenne riservata a questioni di minore importanza).
Questa era la situazione quando Prospero Lambertini ascese al soglio pontificio. Raffinato giurista, mentre era ancora arcivescovo di Bologna, negli anni Trenta del Settecento aveva pubblicato, tra gli altri, cinque ponderosi ed eruditissimi tomi che svisceravano ogni aspetto della procedura di canonizzazione dei santi, che ancora oggi rappresentano un punto di riferimento per i lavori della congregazione vaticana che si occupa della materia.
Una mente così attenta alle questioni di forma e di sostanza avvertì l’esigenza di definire una tipologia specifica di lettera indirizzata all’insieme della Chiesa cattolica, per trattare di questioni di natura teologica o morale e fornire indirizzi di carattere generale ai fedeli, attraverso i rispettivi vescovi: la formula canonica di intestazione si rivolge infatti «ai patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi e agli altri ordinari in pace e in comunione con la sede apostolica». Inizialmente rare — Lambertini ne scrisse una trentina, i suoi immediati successori molte meno —, le lettere encicliche, individuate con le prime parole del testo latino, conobbero un grande incremento con Pio IX e soprattutto Leone XIII.
In breve, divennero lo strumento privilegiato per il magistero ordinario del Pontefice, ovvero quella forma di insegnamento che non ha carattere solenne o addirittura infallibile, riservato alle dichiarazioni ex cathedra, ma indica ai cattolici quali siano gli errori da evitare, come nel caso della enciclica emanata nel 1907 da Pio X Pascendi
Dominici Gregis, in cui si condannava il modernismo, o le direzioni da seguire di fronte ai cambiamenti economici e sociali, come nel caso della Re
rum Novarum di Leone XIII del 1891, sulla emergente questione operaia.
Con il crescere del loro numero e delle tematiche trattate, le encicliche furono sempre più ritenute lo strumento privilegiato con cui i Pontefici esercitano la loro funzione a capo della Chiesa universale e dell’episcopato; indicano le linee a cui devono attener- si gli atti amministrativi della curia e quelli pastorali dei singoli vescovi; in questo modo, hanno assunto grande rilievo agli occhi dell’opinione pubblica, non solo di quella cattolica.
Questo spiega perché in particolari casi, in apparente contraddizione con l’intento originario di Benedetto XIV, alcune encicliche siano state rivolte a un unico episcopato e addirittura siano state redatte non in latino, lingua ufficiale della Chiesa proprio per la sua universalità, bensì nella lingua dei destinatari: è il caso della celeberrima
Mit brennender Sorge («Con bruciante preoccupazione») con cui nel 1937 Pio XI denunciava la condizione della Chiesa cattolica in Germania sotto il regime nazista. Rivolta ai vescovi tedeschi e scritta nella loro lingua, proprio la sua natura di enciclica fece sì che il mondo intero ne parlasse.