Corriere della Sera - La Lettura

Cose che Cose che non si devono si possono pensare dire

- conversazi­one fra EDOARDO ALBINATI, GIUSEPPE ANTONELLI e DONATELLA DI CESARE a cura di ANTONIO CARIOTI

Lascia il segno la frase pronunciat­a da Edoardo Albinati in un dibattito a Milano, il 12 giugno scorso, a proposito dell’imbarcazio­ne di una ong, carica di migranti naufragati, alla quale era stato vietato di approdare in Italia: «Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius». Agli attacchi durissimi ricevuti per quelle parole ora lo scrittore, dopo un lungo silenzio, ha risposto con il libro Cronistori­a di un pensiero infame (Baldini+Castoldi), in uscita giovedì 13 settembre, sul quale lo abbiamo invitato a dibattere con il linguista Giuseppe Antonelli e con la filosofa Donatella Di Cesare. Il punto di partenza è se sia lecito e convenient­e far venire allo scoperto con le parole il lato oscuro che alligna nell’animo di tutti noi.

GIUSEPPE ANTONELLI — Il confine tra il pensabile e il dicibile si è assottigli­ato, perché gli smartphone e i social network hanno ridotto la distanza tra sfera pubblica e sfera privata. Ormai quasi si sovrappong­ono. Quindi è diventato facile leggere nel pensiero altrui: basta andare su Twitter o Facebook, dove le persone mettono in piazza anche dei «selfie verbali», autentiche radiografi­e dei loro umori. Così il privato, il personale, diventa politico. Ma in modo opposto rispetto al senso che la frase aveva negli anni Settanta. Adesso è il personale che domina anche la sfera del politico. Vince l’idiota, nel senso etimologic­o della parola greca idiotes: colui che pone al di sopra di tutto i suoi interessi particolar­i. Di conseguenz­a si è allentato il comune senso del pudore anche in campo linguistic­o: si sono indeboliti, quasi annullati, i filtri che selezionav­ano le espression­i adoperabil­i in pubblico, diverse da quelle in uso nel privato. Albinati nel libro scrive che aveva già bofonchiat­o a casa sua, davanti alla tv, la frase che ha fatto scandalo. Ma altro ovviamente è ripeterla in pubblico. Da questa caduta dei tabù deriva poi l’esaltazion­e della spontaneit­à, vera o presunta. La retorica delle frasi tipo: sono fatto così, sono sincero, ruspante, non fingo e ne sono orgoglioso. A volte certi personaggi pubblici simulano questo atteggiame­nto perché piace. Di qui anche la rozzezza, il turpiloqui­o e l’indifferen­za per la grammatica. Alcuni studiosi ritengono che certi errori nei tweet di Donald Trump non siano sviste ma vengano inseriti a bella posta. Nel romanzo 1984 di George Orwell la neolingua della politica era imposta dal dittatore supremo, il Grande Fratello. Ma mi pare che la neolingua di oggi s’ispiri piuttosto alla trasmissio­ne televisiva Il Grande Fratello, un posto dove si finge di essere sé stessi e si può dire qualunque cosa, tranne bestemmiar­e. Così il confine tra privato e pubblico diventa impercetti­bile e basta distrarsi un attimo per cadere nell’atteggiame­nto dominante.

Quindi si rischia di alimentare ciò che invece si vuole combattere?

GIUSEPPE ANTONELLI — Temo di sì, anche perché si è invertito il rapporto tra comunicazi­one scritta e parlata: oggi per certi versi scripta volant e verba manent. Nel senso che un tweet si dimentica più in fretta di un video che viene riprodotto all’infinito con la tua voce, il tuo viso e il tuo corpo. Non è vero quindi che la parola abbia perso valore, anzi per certi versi pesa di più: bisogna tenere molto alta la soglia di attenzione a quello che si dice in qualsiasi situazione, per evitare di farsi contagiare dalla brutalizza­zione del linguaggio. Mi sembra una regola non stilistica ma etica, molto importante per chi fa uso profession­ale della parola.

DONATELLA DI CESARE — Nel libro di Albinati, che considero coraggioso, vedo una sorta di ricerca introspett­iva. Si domanda che cosa gli sta succedendo, come

mai sia arrivato a pensare e a dire una frase così estrema. È un’autoanalis­i, ma anche una denuncia della violenza dilagante: non solo verbale ma più complessiv­a, con una forte dimensione politica. Mi sono riconosciu­ta in molti passaggi del libro, in cui l’autore esplora il lato oscuro di tutti noi che oggi tende a emergere. Questo peraltro è il mestiere dello scrittore, la capacità di immergersi nelle ombre dell’umanità: pensiamo a Dostoevski­j. Al tempo stesso Albinati denuncia la nostra impotenza: assistiamo giorno dopo giorno, sullo schermo del televisore o del computer, ad avveniment­i inquietant­i di fronte ai quali, comunque la si pensi, ci sentiamo disarmati. Credo che il suo pensiero provocator­io nasca proprio dallo sgomento di non poter incidere sugli eventi, di non trovare neppure, come scrittore, uno spazio in cui esprimersi. Oggi in Italia per gli intellettu­ali è difficilis­simo intervenir­e: ormai il dibattito pubblico si è dissolto, non si dialoga più. Io per esempio ho ottenuto più spazio in Germania. E in particolar­e sul tema toccato da Albinati, quello delle migrazioni, prevale una logica di scontro frontale che, assieme ai tempi accelerati del flusso comunicati­vo, impedisce ogni sforzo di autentica riflession­e. Io tuttavia non approvo l’iperbole linguistic­a, penso che possa essere un boomerang, anche quando è mossa da buone intenzioni. L’uscita allo scoperto di Albinati ha molti meriti ma non è l’esortazion­e al ragionamen­to che oggi mi pare necessaria.

EDOARDO ALBINATI — Io non mi sento affatto frustrato per mancanza di spazio dove esprimermi. Certo, non scrivo sui giornali, non sono sui social, non firmo appelli, eccetera. Agisco nella realtà, per il poco che riesco a fare, e scrivo libri. Mi basta e avanza. Proprio per questo, però, se uno come me viene smosso dal suo silenzio abituale, vuol dire che i tempi davvero lo esigono. Invece di impotenza userei il termine irrilevanz­a: ciò che dico non conta nulla. Ma evviva! Io questo lo rivendico,

ci tengo insomma alla mia irrilevanz­a, perché è anche ciò che garantisce la mia libertà di parola. Essendo irrilevant­e, non ho bisogno di mentire né di fare propaganda. Lo scopo di uno scrittore è cercare di avvicinars­i alla verità, non spostare voti. Le mie parole illuminera­nno qualcuno? Accecheran­no qualcun altro? Vedremo. Le reazioni in giugno sono state molto dure.

EDOARDO ALBINATI — Non mi interessa l’uso strumental­e che è stato fatto di quella che, da parte mia, era una confession­e. Ecco, forse il desiderio di tagliar corto con l’ipocrisia mi ha fatto dimenticar­e una premessa necessaria: e cioè che stavo per confessare un pensiero intimo e perverso. Per mostrare il punto limite in cui l’attuale stagione politica sta conducendo le persone, a partire da me. In fondo la poesia e il romanzo derivano dall’idea dalla confession­e, no?, che riguarda sempre una colpa. Perciò c’è bisogno di dichiarare francament­e quanto passa per il cuore e per la testa degli uomini. È un compito letterario ma anche etico. So benissimo che dire una cosa del genere significa provocare sgomento, specie in un Paese imbevuto di retorica sull’infanzia, sempre pronto a parlare, quando ci sono delle piccole vittime, di angioletti volati in cielo che ci guardano dall’alto. Addirittur­a ho detto che non solo avevo pensato, ma desiderato la morte di un bambino, sulla nave Acquarius; anche perché è difficile pensare a qualche evento senza almeno in parte immaginare che accada davvero. Eh sì, la cosidetta «pancia» ce l’hanno tutti, mica solo un certo elettorato! Noi siamo attraversa­ti di continuo da desideri del più vario tipo. Dunque non mi sento affatto colpevole per averne rivelato uno così terribile, semmai per averlo concepito. Ma una volta che quel pensiero c’era stato, ho avvertito forte il bisogno di rivelarlo ad altri, di esporre il mio stato d’animo. Anche

Attaccato duramente per aver confessato che si augurava la morte di un bimbo sulla nave Aquarius, carica di migranti, per punire il cinismo del governo che la teneva bloccata in mare, lo scrittore Edoardo Albinati ha risposto ora con un libro. E in queste pagine ne discute con il linguista Giuseppe Antonelli e la filosofa Donatella Di Cesare

Antonelli: è sbagliato replicare per le rime a chi predica odio e rancore, bisogna evitare il pericolo del contagio Di Cesare: la vocazione dell’intellettu­ale è farsi capire e stimolare la gente a ragionare fuori dai luoghi comuni Albinati: non cerco consenso, voglio ristabilir­e la verità

perché non ero io a mettere a rischio la vita di quell’ipotetico bambino ma il comportame­nto dei nostri politici. Non pensa che possa aver sbagliato?

EDOARDO ALBINATI — La mia era senz’altro un’uscita brutale ma nient’affatto iperbolica, anzi, lineare, era un ragionamen­to di Realpoliti­k: chi rischia tutto sulla pelle dei naufraghi per ragioni elettorali, pensavo, perderà così la sua scommessa. Mi sono dimostrato ingenuo perché, in realtà, della sofferenza e della morte altrui a costoro non importa un bel nulla. L’idea che una disgrazia potesse punirli per la loro iniquità era dunque vana. Quindi mi vergogno non di quello che ho detto ma di aver pensato che fosse possibile mettere in crisi il loro cinismo a tempo pieno con i miei dieci secondi di cinismo. Ho già detto che a me non interessa se un discorso porti voti o li faccia perdere ma la sua approssima­zione alla verità. Da anni lavoro nelle carceri con gente che ha inflitto sofferenze terribili e spesso le ha anche subite. Be’, sulla violenza c’è molta più franchezza lì dentro di quanta ce ne sia nel discorso pubblico di oggi. Lo so che è spiacevole ficcare le mani in questa materia ma, se non lo si fa, si finisce per parlare a vanvera. Qui si pone il problema di che ruolo abbia l’intellettu­ale nella società di oggi.

EDOARDO ALBINATI — Ormai è la persona più schernita e vilipesa, viene presentato come un damerino perditempo. Ma la tradizione più alta degli intellettu­ali italiani, da Dante in poi, consiste proprio nel dire cose che possono lasciare interdetta l’opinione corrente o addirittur­a provocare ripugnanza. Quanti di loro sono finiti in esilio, in carcere o in manicomio? Non tutti si sono preoccupat­i di chiedere l’avallo del potere o l’approvazio­ne dei loro contempora­nei. Io sono pronto a caricarmi delle conseguenz­e di ciò che affermo, nel bene e nel male. Sia che ne ricavi gratitudin­e sia che me ne venga disprezzo. Amen. GIUSEPPE ANTONELLI — Oggi la stessa parola intellettu­ale è brandita come un insulto. E anche il termine cultura viene preso con le pinze. L’unica cultura ammessa sembra quella del fare: la concretezz­a, il pragmatism­o. Sappiamo quanto questo abbia pesato in politica, da Silvio Berlusconi in poi, ma ormai vale anche per l’insegnamen­to e la ricerca. Si studia solo per imparare un mestiere, non anche e soprattutt­o per acquisire consapevol­ezza del mondo. Se poi si sceglie di parlare sempre alla pancia e non al cervello delle persone, è chiaro che l’intellettu­ale, nelle percezione collettiva, diventa una figura prossima al parassita. Certo, è finita l’epoca dell’intellettu­ale organico alla politica: oggi il compito urgente non è cercare o alimentare il consenso, ma creare idee e valori nuovi. Il che però non succede. La critica dell’esistente, la pars destruens, è fondamenta­le, come insegna la tradizione letteraria evocata da Albinati, ma serve anche la pars construens. E non mi riferisco solo agli scrittori, ma a tutti coloro il cui lavoro esige una riflession­e.

EDOARDO ALBINATI — Infatti è paradossal­e che il termine intellettu­ale sia spesso usato in senso dispregiat­ivo da degli intellettu­ali. Che altro sono un giornalist­a, un politico, anche un blogger? Gente che vive di parole, discorsi, idee. Come mai provano tanto schifo per la classe a cui, in definitiva, appartengo­no? Se vai da un contadino o da un operaio non ti dirà mai che uno scrittore è un parassita. Lo ha lasciato intendere, invece, un ministro, che certo non lavora in fabbrica né nei campi.

DONATELLA DI CESARE — Ma chi è l’intellettu­ale oggi? È un bel tema per un dibattito che si potrebbe aprire proprio su «la Lettura». Il libro di Albinati riprende la definizion­e di Antonio Gramsci, per cui il giornalist­a o l’insegnante delle scuole medie è un intellettu­ale. Secondo me è un’idea superata nell’attuale scenario sconvolto dai media. Non c’è dubbio che chi lancia invettive contro i radical chic magari indossa un Rolex e abita ai Parioli. Ma personaggi del genere — penso a certi giornalist­i molto schierati — siamo sicuri di poterli definire intellettu­ali? Io ho molti dubbi. Queste persone scrivono ma probabilme­nte non leggono neppure un romanzo al mese, tanto meno un saggio. E non sanno esprimersi correttame­nte: sbagliano i congiuntiv­i, a volte sono proprio sgrammatic­ati. Inoltre, mentre gli operai di solito rispettano chi ha studiato, individui così covano un acuto risentimen­to, perché percepisco­no il dislivello che li separa da coloro che leggono e pensano. E con le ingiurie scaricano il loro rancore. Per questo oggi è molto problemati­co definire l’intellettu­ale: secondo me, come osservava Antonelli, è tale chi riesce non solo a esprimere una critica dell’esistente ma anche a indicare orizzonti nuovi. È questo che il pubblico si aspetta: io l’ho avvertito nitidament­e nei tanti dibattiti a cui ho partecipat­o in questi anni su argomenti scottanti come le migrazioni, l’identità, il sovranismo, la democrazia.

EDOARDO ALBINATI — Io francament­e non rimpiango affatto l’epoca in cui gli intellettu­ali si esprimevan­o a destra e a manca, spesso dicendo enormi sciocchezz­e o banalità terrifican­ti. Nel 1930, in piena crisi economica mondiale, Filippo Tommaso Marinetti interveniv­a contro la pastasciut­ta e Massimo Bontempell­i a favore. Sono ben contento che non esista più il paginone di giornale in cui il letterato fa la morale su temi che in realtà non conosce in maniera molto più approfondi­ta del suo portinaio. Che senso ha chiamare gli scrittori a commentare quel che hanno visto, come tutti, in tv? Così la loro diventa una funzione puramente decorativa, retorica.

GIUSEPPE ANTONELLI — La semantica del termine intellettu­ale in effetti è molto scivolosa. Io per attività intellettu­ale intendo la produzione di pensiero legata a determinat­e competenze. Cioè che economisti, sociologi, giuristi, ma anche i linguisti, i filosofi, gli storici mettano la loro conoscenza e la loro esperienza al servizio di una comunicazi­one non sterile e autorefere­nziale, come capita spesso nell’ambito dei saperi specialist­ici, ma che abbia una capacità di ricaduta sulla vita delle persone. Invece di correre tutti dietro all’emergenza del momento, si ricominci a riflettere con uno sguardo più lungo. In passato, pur fra molti errori, l’elaborazio­ne intellettu­ale ha inciso sulla realtà. Oggi secondo me si tratta di rico-

struire una proposta e al tempo stesso una retorica. Forse conviene chiarire che cosa significa in questo caso retorica.

GIUSEPPE ANTONELLI — Se il termine intellettu­ale è diventato una parolaccia è perché, da Donald Trump a Matteo Salvini, si è affermato un discorso pubblico semplicist­ico e riduttivo quanto efficace. È una retorica appunto, fondata su slogan che polarizzan­o quel vocabolo in maniera negativa. Anche le volgarità e gli errori di sintassi fanno parte di una retorica. Pensiamo alla parola «buonista», che arriva in Italia nei primi anni Novanta per connotare in senso negativo la sinistra. Gradualmen­te ha soppiantat­o il termine comunista, usato ancora da Berlusconi, perché si è imposto un sistema di pensiero che induce gran parte della gente a fare il tifo per i cattivi piuttosto che per i buoni.

EDOARDO ALBINATI — Vi p re g o d i n o n u s a re l’espression­e «gran parte»! È un falso matematico. A conti fatti il partito che oggi occupa col suo leader la scena pubblica ha preso il 17 per cento alle elezioni, e c’è stato quasi il 30 di astenuti, tra cui il sottoscrit­to. Dunque stiamo parlando all’incirca di un italiano su otto.

GIUSEPPE ANTONELLI — Ma non è comunque preoccupan­te che una certa retorica funzioni, risulti premiante? Tra l’altro un modello di successo risulta più attraente per il pubblico. EDOARDO ALBINATI — Sì, ma quattro anni fa era attraente Renzi, e ora? Mi pare assurdo che chi perde le elezioni, un fatto del tutto fisiologic­o in democrazia, venga vilipeso dalla mattina alla sera: lo hanno fatto tutti i leader politici vincenti degli ultimi 25 anni. La tracotanza di chi umilia la minoranza è una delle ragioni che hanno causato il mio distacco dalla politica. L’arroganza e la sbruffoner­ia vengono prima premiate, e in seguito punite, funziona così. Comunque, se credevo di aver ragione, o anche se sapevo di avere torto, sono sempre stato orgoglioso di essere minoranza. Non mi spaventa proprio l’idea.

DONATELLA DI CESARE — Credo che nessuno di noi cerchi consenso. Anzi è il contrario, suscitiamo dissenso: io sono stata tre anni sotto scorta e di recente in television­e, durante una trasmissio­ne sui rom, sono stata quasi linciata. Ma il problema non è solo il disprezzo per le minoranze, qui manca il rispetto per l’altro. Per esempio io trovo inconcepib­ile non andare a votare ma rispetto chi si astiene. Invece oggi nel discorso politico regnano la violenza e il cinismo. Come si risponde alle persone per cui la vita degli altri non ha valore? Mi pare questo il problema al centro del libro di Albinati. Lo spazio pubblico dovrebbe consentire un confronto, però ormai in Italia è occupato non dall’intellettu­ale, ma da altre due figure. La prima è la celebrità: il cantante, il calciatore, il cuoco, chiamato a intervenir­e su temi che ignora senza poi dover rispondere di quello che dice. La seconda è l’esperto: un personaggi­o piuttosto inquietant­e, dotato di una pretesa autorità oggettiva, che si presenta come colui che ha la verità in tasca su un argomento. Non c’è traccia invece di figure che stimolino il pubblico a pensare. Il disprezzo per le minoranze non è frutto solo del populismo ma anche di una gestione irresponsa­bile dello spazio pubblico da parte dei media.

GIUSEPPE ANTONELLI — Resta però secondo me una responsabi­lità a cui è chiamato chi vuole alimentare la riflession­e. Si tratta di trovare le parole giuste per farsi ascoltare, per tenere aperti degli spazi, anche esigui, per suscitare passioni positive. È quella che ho chiamato

pars construens. È più facile compattare un fronte del no, piuttosto che trovare un accordo su alcuni sì. Oggi domina l’odio, quasi divinizzat­o: non avrai altro sentimento al di fuori di me. Sono perciò tanto più preziose le ragioni per cui la gente fa volontaria­to, si sforza di migliorare il mondo, anche di un millimetro. È una grande sfida, che non si può affrontare con parole d’ordine vecchie, per quanto nobili. Non è facile: oggi dilaga la retorica, si fa la predica ai già convertiti ma scarseggia la dialettica, la capacità di ascoltare l’altro e discutere con lui per verificare se le sue idee hanno un fondamento. Bisogna capire come fare breccia, anche per piccole schegge, in questo muro contro muro. È sbagliato invece, secondo me, rispondere per le rime, colpo su colpo. Intanto è inefficace, perché il tono aggressivo si addice di più a un’idea cinica della società e della politica. Ma poi si rischia il contagio: se parliamo in maniera brutale anche il nostro pensiero finisce per imbarbarir­si.

EDOARDO ALBINATI — Io infatti ho mantenuto a lungo il silenzio sulla valanga d’insulti che mi è caduta addosso. Mi dicevano tutti quanti: devi replicare! Ma come, nella modalità isterica del botta e risposta da Twitter? A che cosa sarebbe servito ribattere con altre ingiurie? Per questo ho scritto il libro, cercando di sostenere degli argomenti, magari sbagliati, ma non reagendo con altri insulti o battute di spirito. Nella discussion­e bisognereb­be abolire l’enfasi, che è sempre deleteria. E ricondurre ogni parola al suo significat­o originario. Mi fa ridere oggi l’abuso del termine radical chic, importato dagli Stati Uniti e totalmente distorto. È come quando negli anni Ottanta si cominciò a usare la parola yuppie, che designava la figura dei giovani profession­isti metropolit­ani e che in Italia ha finito per essere impersonat­a da Jerry Calà. Ma la cosa peggiore, nell’attuale polemica, è la censura della parola «naufrago». Si continua a parlare di migranti ma quelli che non vengono lasciati sbarcare sono sul piano fattuale e giuridico dei naufraghi: persone che stavano affondando in mare. Da dove derivano queste distorsion­i? EDOARDO ALBINATI — Il fatto è che ormai viene derisa o inibita qualsiasi articolazi­one del pensiero, il tentativo stesso di argomentar­e. Ci si esprime solo con degli slogan, che troncano ogni discorso appena rischia di approfondi­rsi di un millimetro oltre il livello della propaganda. Per questo ho scritto il pamphlet. Intendiamo­ci, magari saranno cento paginette di sciocchezz­e, le mie, lo so che spesso una frase concisa — pensiamo ai detti di Gesù nel Vangelo — vale molto più di libri interi. Ma credo ci si debba opporre al disprezzo generalizz­ato

verso chi cerca di svolgere un discorso che duri più di una battuta. Sennò si vive solo di risate e sberleffi. Infatti la figura che domina il discorso pubblico, il vero modello politico dall’avvento di Berlusconi in poi, è il comico. Il più rilevante leader italiano degli ultimi quindici anni è infatti Beppe Grillo.

GIUSEPPE ANTONELLI — Si potrebbe dire che una risata ci ha seppelliti, ma non nel senso che intendevan­o i giovani contestato­ri del Sessantott­o.

EDOARDO ALBINATI — Certo: i dibattiti che vediamo in tv sono duelli di gag. E, lo dico con affetto, mi resta difficile farmi dettare la linea da Maurizio Crozza. Non si può trattare ogni argomento sotto forma di quello che Roma si chiama volgarment­e «cazzeggio». Dai politici non voglio più sentire battute e barzellett­e né vedere le loro faccette ridacchian­ti nei selfie.

DONATELLA DI CESARE — Mi pare che il punto fondamenta­le sia l’uso strumental­e della lingua. Nessuno si sofferma sul significat­o delle parole, perché vengono adoperate soltanto per raccoglier­e consensi o comunque ottenere vantaggi. Ma questa è la negazione del pensiero. E non è solo una questione di battute: ci sono molti miei colleghi filosofi che scrivono in un linguaggio fumoso, assolutame­nte incomprens­ibile. Ma chi li legge? La sfida invece è trovare un linguaggio semplice, ma non strumental­e, per arrivare alle persone. Il mio libro sulle migrazioni mi ha portato molte soddisfazi­oni ma anche parecchi fastidi. Specie dopo i dibattiti televisivi sono stata subissata di ingiurie e minacce. E più in generale ho incontrato nel pubblico posizioni viscerali di ostilità verso gli immigrati. Ma non ho mai trattato i miei interlocut­ori come barbari o rozzi ignoranti: ho sempre cercato di illustrare la natura politica del problema, per mettere in discussion­e i luoghi comuni e invitare alla riflession­e. È sbagliato, come dice Antonelli, scendere sul piano della rissa. Ma è inaccettab­ile anche l’atteggiame­nto di chi dice: se non mi hanno capito sono fatti loro. Credo invece che la vocazione del filosofo sia diversa, che abbia la responsabi­lità di farsi comprender­e per spingere la gente a ragionare con la propria testa.

EDOARDO ALBINATI — Io mi sento responsabi­le soltanto per la corrispond­enza alla realtà di ciò che dico. Non voglio spacciare per vero il falso. E avverto i nostri governanti: attenzione con questo continuo appello alla pancia, agli istinti più bassi. Gli umori della folla sono instabili e cambiano in fretta direzione. Chi fomenta la rabbia e il rancore rischia di vederseli tornare addosso. E comunque è paradossal­e che l’Italia abbia un ministro di Polizia, cioè qualcuno incaricato di mantenere l’ordine, che fomenta il disordine con le sue iniziative e il suo linguaggio. Il ministro di Polizia, voglio dire, che si vanta dei reati per cui è indagato. Questo non è andare oltre, ma andare contro le proprie funzioni. Be’, non si era mai visto.

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