Corriere della Sera - La Lettura
Cose che Cose che non si devono si possono pensare dire
Lascia il segno la frase pronunciata da Edoardo Albinati in un dibattito a Milano, il 12 giugno scorso, a proposito dell’imbarcazione di una ong, carica di migranti naufragati, alla quale era stato vietato di approdare in Italia: «Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius». Agli attacchi durissimi ricevuti per quelle parole ora lo scrittore, dopo un lungo silenzio, ha risposto con il libro Cronistoria di un pensiero infame (Baldini+Castoldi), in uscita giovedì 13 settembre, sul quale lo abbiamo invitato a dibattere con il linguista Giuseppe Antonelli e con la filosofa Donatella Di Cesare. Il punto di partenza è se sia lecito e conveniente far venire allo scoperto con le parole il lato oscuro che alligna nell’animo di tutti noi.
GIUSEPPE ANTONELLI — Il confine tra il pensabile e il dicibile si è assottigliato, perché gli smartphone e i social network hanno ridotto la distanza tra sfera pubblica e sfera privata. Ormai quasi si sovrappongono. Quindi è diventato facile leggere nel pensiero altrui: basta andare su Twitter o Facebook, dove le persone mettono in piazza anche dei «selfie verbali», autentiche radiografie dei loro umori. Così il privato, il personale, diventa politico. Ma in modo opposto rispetto al senso che la frase aveva negli anni Settanta. Adesso è il personale che domina anche la sfera del politico. Vince l’idiota, nel senso etimologico della parola greca idiotes: colui che pone al di sopra di tutto i suoi interessi particolari. Di conseguenza si è allentato il comune senso del pudore anche in campo linguistico: si sono indeboliti, quasi annullati, i filtri che selezionavano le espressioni adoperabili in pubblico, diverse da quelle in uso nel privato. Albinati nel libro scrive che aveva già bofonchiato a casa sua, davanti alla tv, la frase che ha fatto scandalo. Ma altro ovviamente è ripeterla in pubblico. Da questa caduta dei tabù deriva poi l’esaltazione della spontaneità, vera o presunta. La retorica delle frasi tipo: sono fatto così, sono sincero, ruspante, non fingo e ne sono orgoglioso. A volte certi personaggi pubblici simulano questo atteggiamento perché piace. Di qui anche la rozzezza, il turpiloquio e l’indifferenza per la grammatica. Alcuni studiosi ritengono che certi errori nei tweet di Donald Trump non siano sviste ma vengano inseriti a bella posta. Nel romanzo 1984 di George Orwell la neolingua della politica era imposta dal dittatore supremo, il Grande Fratello. Ma mi pare che la neolingua di oggi s’ispiri piuttosto alla trasmissione televisiva Il Grande Fratello, un posto dove si finge di essere sé stessi e si può dire qualunque cosa, tranne bestemmiare. Così il confine tra privato e pubblico diventa impercettibile e basta distrarsi un attimo per cadere nell’atteggiamento dominante.
Quindi si rischia di alimentare ciò che invece si vuole combattere?
GIUSEPPE ANTONELLI — Temo di sì, anche perché si è invertito il rapporto tra comunicazione scritta e parlata: oggi per certi versi scripta volant e verba manent. Nel senso che un tweet si dimentica più in fretta di un video che viene riprodotto all’infinito con la tua voce, il tuo viso e il tuo corpo. Non è vero quindi che la parola abbia perso valore, anzi per certi versi pesa di più: bisogna tenere molto alta la soglia di attenzione a quello che si dice in qualsiasi situazione, per evitare di farsi contagiare dalla brutalizzazione del linguaggio. Mi sembra una regola non stilistica ma etica, molto importante per chi fa uso professionale della parola.
DONATELLA DI CESARE — Nel libro di Albinati, che considero coraggioso, vedo una sorta di ricerca introspettiva. Si domanda che cosa gli sta succedendo, come
mai sia arrivato a pensare e a dire una frase così estrema. È un’autoanalisi, ma anche una denuncia della violenza dilagante: non solo verbale ma più complessiva, con una forte dimensione politica. Mi sono riconosciuta in molti passaggi del libro, in cui l’autore esplora il lato oscuro di tutti noi che oggi tende a emergere. Questo peraltro è il mestiere dello scrittore, la capacità di immergersi nelle ombre dell’umanità: pensiamo a Dostoevskij. Al tempo stesso Albinati denuncia la nostra impotenza: assistiamo giorno dopo giorno, sullo schermo del televisore o del computer, ad avvenimenti inquietanti di fronte ai quali, comunque la si pensi, ci sentiamo disarmati. Credo che il suo pensiero provocatorio nasca proprio dallo sgomento di non poter incidere sugli eventi, di non trovare neppure, come scrittore, uno spazio in cui esprimersi. Oggi in Italia per gli intellettuali è difficilissimo intervenire: ormai il dibattito pubblico si è dissolto, non si dialoga più. Io per esempio ho ottenuto più spazio in Germania. E in particolare sul tema toccato da Albinati, quello delle migrazioni, prevale una logica di scontro frontale che, assieme ai tempi accelerati del flusso comunicativo, impedisce ogni sforzo di autentica riflessione. Io tuttavia non approvo l’iperbole linguistica, penso che possa essere un boomerang, anche quando è mossa da buone intenzioni. L’uscita allo scoperto di Albinati ha molti meriti ma non è l’esortazione al ragionamento che oggi mi pare necessaria.
EDOARDO ALBINATI — Io non mi sento affatto frustrato per mancanza di spazio dove esprimermi. Certo, non scrivo sui giornali, non sono sui social, non firmo appelli, eccetera. Agisco nella realtà, per il poco che riesco a fare, e scrivo libri. Mi basta e avanza. Proprio per questo, però, se uno come me viene smosso dal suo silenzio abituale, vuol dire che i tempi davvero lo esigono. Invece di impotenza userei il termine irrilevanza: ciò che dico non conta nulla. Ma evviva! Io questo lo rivendico,
ci tengo insomma alla mia irrilevanza, perché è anche ciò che garantisce la mia libertà di parola. Essendo irrilevante, non ho bisogno di mentire né di fare propaganda. Lo scopo di uno scrittore è cercare di avvicinarsi alla verità, non spostare voti. Le mie parole illumineranno qualcuno? Accecheranno qualcun altro? Vedremo. Le reazioni in giugno sono state molto dure.
EDOARDO ALBINATI — Non mi interessa l’uso strumentale che è stato fatto di quella che, da parte mia, era una confessione. Ecco, forse il desiderio di tagliar corto con l’ipocrisia mi ha fatto dimenticare una premessa necessaria: e cioè che stavo per confessare un pensiero intimo e perverso. Per mostrare il punto limite in cui l’attuale stagione politica sta conducendo le persone, a partire da me. In fondo la poesia e il romanzo derivano dall’idea dalla confessione, no?, che riguarda sempre una colpa. Perciò c’è bisogno di dichiarare francamente quanto passa per il cuore e per la testa degli uomini. È un compito letterario ma anche etico. So benissimo che dire una cosa del genere significa provocare sgomento, specie in un Paese imbevuto di retorica sull’infanzia, sempre pronto a parlare, quando ci sono delle piccole vittime, di angioletti volati in cielo che ci guardano dall’alto. Addirittura ho detto che non solo avevo pensato, ma desiderato la morte di un bambino, sulla nave Acquarius; anche perché è difficile pensare a qualche evento senza almeno in parte immaginare che accada davvero. Eh sì, la cosidetta «pancia» ce l’hanno tutti, mica solo un certo elettorato! Noi siamo attraversati di continuo da desideri del più vario tipo. Dunque non mi sento affatto colpevole per averne rivelato uno così terribile, semmai per averlo concepito. Ma una volta che quel pensiero c’era stato, ho avvertito forte il bisogno di rivelarlo ad altri, di esporre il mio stato d’animo. Anche
Attaccato duramente per aver confessato che si augurava la morte di un bimbo sulla nave Aquarius, carica di migranti, per punire il cinismo del governo che la teneva bloccata in mare, lo scrittore Edoardo Albinati ha risposto ora con un libro. E in queste pagine ne discute con il linguista Giuseppe Antonelli e la filosofa Donatella Di Cesare
Antonelli: è sbagliato replicare per le rime a chi predica odio e rancore, bisogna evitare il pericolo del contagio Di Cesare: la vocazione dell’intellettuale è farsi capire e stimolare la gente a ragionare fuori dai luoghi comuni Albinati: non cerco consenso, voglio ristabilire la verità
perché non ero io a mettere a rischio la vita di quell’ipotetico bambino ma il comportamento dei nostri politici. Non pensa che possa aver sbagliato?
EDOARDO ALBINATI — La mia era senz’altro un’uscita brutale ma nient’affatto iperbolica, anzi, lineare, era un ragionamento di Realpolitik: chi rischia tutto sulla pelle dei naufraghi per ragioni elettorali, pensavo, perderà così la sua scommessa. Mi sono dimostrato ingenuo perché, in realtà, della sofferenza e della morte altrui a costoro non importa un bel nulla. L’idea che una disgrazia potesse punirli per la loro iniquità era dunque vana. Quindi mi vergogno non di quello che ho detto ma di aver pensato che fosse possibile mettere in crisi il loro cinismo a tempo pieno con i miei dieci secondi di cinismo. Ho già detto che a me non interessa se un discorso porti voti o li faccia perdere ma la sua approssimazione alla verità. Da anni lavoro nelle carceri con gente che ha inflitto sofferenze terribili e spesso le ha anche subite. Be’, sulla violenza c’è molta più franchezza lì dentro di quanta ce ne sia nel discorso pubblico di oggi. Lo so che è spiacevole ficcare le mani in questa materia ma, se non lo si fa, si finisce per parlare a vanvera. Qui si pone il problema di che ruolo abbia l’intellettuale nella società di oggi.
EDOARDO ALBINATI — Ormai è la persona più schernita e vilipesa, viene presentato come un damerino perditempo. Ma la tradizione più alta degli intellettuali italiani, da Dante in poi, consiste proprio nel dire cose che possono lasciare interdetta l’opinione corrente o addirittura provocare ripugnanza. Quanti di loro sono finiti in esilio, in carcere o in manicomio? Non tutti si sono preoccupati di chiedere l’avallo del potere o l’approvazione dei loro contemporanei. Io sono pronto a caricarmi delle conseguenze di ciò che affermo, nel bene e nel male. Sia che ne ricavi gratitudine sia che me ne venga disprezzo. Amen. GIUSEPPE ANTONELLI — Oggi la stessa parola intellettuale è brandita come un insulto. E anche il termine cultura viene preso con le pinze. L’unica cultura ammessa sembra quella del fare: la concretezza, il pragmatismo. Sappiamo quanto questo abbia pesato in politica, da Silvio Berlusconi in poi, ma ormai vale anche per l’insegnamento e la ricerca. Si studia solo per imparare un mestiere, non anche e soprattutto per acquisire consapevolezza del mondo. Se poi si sceglie di parlare sempre alla pancia e non al cervello delle persone, è chiaro che l’intellettuale, nelle percezione collettiva, diventa una figura prossima al parassita. Certo, è finita l’epoca dell’intellettuale organico alla politica: oggi il compito urgente non è cercare o alimentare il consenso, ma creare idee e valori nuovi. Il che però non succede. La critica dell’esistente, la pars destruens, è fondamentale, come insegna la tradizione letteraria evocata da Albinati, ma serve anche la pars construens. E non mi riferisco solo agli scrittori, ma a tutti coloro il cui lavoro esige una riflessione.
EDOARDO ALBINATI — Infatti è paradossale che il termine intellettuale sia spesso usato in senso dispregiativo da degli intellettuali. Che altro sono un giornalista, un politico, anche un blogger? Gente che vive di parole, discorsi, idee. Come mai provano tanto schifo per la classe a cui, in definitiva, appartengono? Se vai da un contadino o da un operaio non ti dirà mai che uno scrittore è un parassita. Lo ha lasciato intendere, invece, un ministro, che certo non lavora in fabbrica né nei campi.
DONATELLA DI CESARE — Ma chi è l’intellettuale oggi? È un bel tema per un dibattito che si potrebbe aprire proprio su «la Lettura». Il libro di Albinati riprende la definizione di Antonio Gramsci, per cui il giornalista o l’insegnante delle scuole medie è un intellettuale. Secondo me è un’idea superata nell’attuale scenario sconvolto dai media. Non c’è dubbio che chi lancia invettive contro i radical chic magari indossa un Rolex e abita ai Parioli. Ma personaggi del genere — penso a certi giornalisti molto schierati — siamo sicuri di poterli definire intellettuali? Io ho molti dubbi. Queste persone scrivono ma probabilmente non leggono neppure un romanzo al mese, tanto meno un saggio. E non sanno esprimersi correttamente: sbagliano i congiuntivi, a volte sono proprio sgrammaticati. Inoltre, mentre gli operai di solito rispettano chi ha studiato, individui così covano un acuto risentimento, perché percepiscono il dislivello che li separa da coloro che leggono e pensano. E con le ingiurie scaricano il loro rancore. Per questo oggi è molto problematico definire l’intellettuale: secondo me, come osservava Antonelli, è tale chi riesce non solo a esprimere una critica dell’esistente ma anche a indicare orizzonti nuovi. È questo che il pubblico si aspetta: io l’ho avvertito nitidamente nei tanti dibattiti a cui ho partecipato in questi anni su argomenti scottanti come le migrazioni, l’identità, il sovranismo, la democrazia.
EDOARDO ALBINATI — Io francamente non rimpiango affatto l’epoca in cui gli intellettuali si esprimevano a destra e a manca, spesso dicendo enormi sciocchezze o banalità terrificanti. Nel 1930, in piena crisi economica mondiale, Filippo Tommaso Marinetti interveniva contro la pastasciutta e Massimo Bontempelli a favore. Sono ben contento che non esista più il paginone di giornale in cui il letterato fa la morale su temi che in realtà non conosce in maniera molto più approfondita del suo portinaio. Che senso ha chiamare gli scrittori a commentare quel che hanno visto, come tutti, in tv? Così la loro diventa una funzione puramente decorativa, retorica.
GIUSEPPE ANTONELLI — La semantica del termine intellettuale in effetti è molto scivolosa. Io per attività intellettuale intendo la produzione di pensiero legata a determinate competenze. Cioè che economisti, sociologi, giuristi, ma anche i linguisti, i filosofi, gli storici mettano la loro conoscenza e la loro esperienza al servizio di una comunicazione non sterile e autoreferenziale, come capita spesso nell’ambito dei saperi specialistici, ma che abbia una capacità di ricaduta sulla vita delle persone. Invece di correre tutti dietro all’emergenza del momento, si ricominci a riflettere con uno sguardo più lungo. In passato, pur fra molti errori, l’elaborazione intellettuale ha inciso sulla realtà. Oggi secondo me si tratta di rico-
struire una proposta e al tempo stesso una retorica. Forse conviene chiarire che cosa significa in questo caso retorica.
GIUSEPPE ANTONELLI — Se il termine intellettuale è diventato una parolaccia è perché, da Donald Trump a Matteo Salvini, si è affermato un discorso pubblico semplicistico e riduttivo quanto efficace. È una retorica appunto, fondata su slogan che polarizzano quel vocabolo in maniera negativa. Anche le volgarità e gli errori di sintassi fanno parte di una retorica. Pensiamo alla parola «buonista», che arriva in Italia nei primi anni Novanta per connotare in senso negativo la sinistra. Gradualmente ha soppiantato il termine comunista, usato ancora da Berlusconi, perché si è imposto un sistema di pensiero che induce gran parte della gente a fare il tifo per i cattivi piuttosto che per i buoni.
EDOARDO ALBINATI — Vi p re g o d i n o n u s a re l’espressione «gran parte»! È un falso matematico. A conti fatti il partito che oggi occupa col suo leader la scena pubblica ha preso il 17 per cento alle elezioni, e c’è stato quasi il 30 di astenuti, tra cui il sottoscritto. Dunque stiamo parlando all’incirca di un italiano su otto.
GIUSEPPE ANTONELLI — Ma non è comunque preoccupante che una certa retorica funzioni, risulti premiante? Tra l’altro un modello di successo risulta più attraente per il pubblico. EDOARDO ALBINATI — Sì, ma quattro anni fa era attraente Renzi, e ora? Mi pare assurdo che chi perde le elezioni, un fatto del tutto fisiologico in democrazia, venga vilipeso dalla mattina alla sera: lo hanno fatto tutti i leader politici vincenti degli ultimi 25 anni. La tracotanza di chi umilia la minoranza è una delle ragioni che hanno causato il mio distacco dalla politica. L’arroganza e la sbruffoneria vengono prima premiate, e in seguito punite, funziona così. Comunque, se credevo di aver ragione, o anche se sapevo di avere torto, sono sempre stato orgoglioso di essere minoranza. Non mi spaventa proprio l’idea.
DONATELLA DI CESARE — Credo che nessuno di noi cerchi consenso. Anzi è il contrario, suscitiamo dissenso: io sono stata tre anni sotto scorta e di recente in televisione, durante una trasmissione sui rom, sono stata quasi linciata. Ma il problema non è solo il disprezzo per le minoranze, qui manca il rispetto per l’altro. Per esempio io trovo inconcepibile non andare a votare ma rispetto chi si astiene. Invece oggi nel discorso politico regnano la violenza e il cinismo. Come si risponde alle persone per cui la vita degli altri non ha valore? Mi pare questo il problema al centro del libro di Albinati. Lo spazio pubblico dovrebbe consentire un confronto, però ormai in Italia è occupato non dall’intellettuale, ma da altre due figure. La prima è la celebrità: il cantante, il calciatore, il cuoco, chiamato a intervenire su temi che ignora senza poi dover rispondere di quello che dice. La seconda è l’esperto: un personaggio piuttosto inquietante, dotato di una pretesa autorità oggettiva, che si presenta come colui che ha la verità in tasca su un argomento. Non c’è traccia invece di figure che stimolino il pubblico a pensare. Il disprezzo per le minoranze non è frutto solo del populismo ma anche di una gestione irresponsabile dello spazio pubblico da parte dei media.
GIUSEPPE ANTONELLI — Resta però secondo me una responsabilità a cui è chiamato chi vuole alimentare la riflessione. Si tratta di trovare le parole giuste per farsi ascoltare, per tenere aperti degli spazi, anche esigui, per suscitare passioni positive. È quella che ho chiamato
pars construens. È più facile compattare un fronte del no, piuttosto che trovare un accordo su alcuni sì. Oggi domina l’odio, quasi divinizzato: non avrai altro sentimento al di fuori di me. Sono perciò tanto più preziose le ragioni per cui la gente fa volontariato, si sforza di migliorare il mondo, anche di un millimetro. È una grande sfida, che non si può affrontare con parole d’ordine vecchie, per quanto nobili. Non è facile: oggi dilaga la retorica, si fa la predica ai già convertiti ma scarseggia la dialettica, la capacità di ascoltare l’altro e discutere con lui per verificare se le sue idee hanno un fondamento. Bisogna capire come fare breccia, anche per piccole schegge, in questo muro contro muro. È sbagliato invece, secondo me, rispondere per le rime, colpo su colpo. Intanto è inefficace, perché il tono aggressivo si addice di più a un’idea cinica della società e della politica. Ma poi si rischia il contagio: se parliamo in maniera brutale anche il nostro pensiero finisce per imbarbarirsi.
EDOARDO ALBINATI — Io infatti ho mantenuto a lungo il silenzio sulla valanga d’insulti che mi è caduta addosso. Mi dicevano tutti quanti: devi replicare! Ma come, nella modalità isterica del botta e risposta da Twitter? A che cosa sarebbe servito ribattere con altre ingiurie? Per questo ho scritto il libro, cercando di sostenere degli argomenti, magari sbagliati, ma non reagendo con altri insulti o battute di spirito. Nella discussione bisognerebbe abolire l’enfasi, che è sempre deleteria. E ricondurre ogni parola al suo significato originario. Mi fa ridere oggi l’abuso del termine radical chic, importato dagli Stati Uniti e totalmente distorto. È come quando negli anni Ottanta si cominciò a usare la parola yuppie, che designava la figura dei giovani professionisti metropolitani e che in Italia ha finito per essere impersonata da Jerry Calà. Ma la cosa peggiore, nell’attuale polemica, è la censura della parola «naufrago». Si continua a parlare di migranti ma quelli che non vengono lasciati sbarcare sono sul piano fattuale e giuridico dei naufraghi: persone che stavano affondando in mare. Da dove derivano queste distorsioni? EDOARDO ALBINATI — Il fatto è che ormai viene derisa o inibita qualsiasi articolazione del pensiero, il tentativo stesso di argomentare. Ci si esprime solo con degli slogan, che troncano ogni discorso appena rischia di approfondirsi di un millimetro oltre il livello della propaganda. Per questo ho scritto il pamphlet. Intendiamoci, magari saranno cento paginette di sciocchezze, le mie, lo so che spesso una frase concisa — pensiamo ai detti di Gesù nel Vangelo — vale molto più di libri interi. Ma credo ci si debba opporre al disprezzo generalizzato
verso chi cerca di svolgere un discorso che duri più di una battuta. Sennò si vive solo di risate e sberleffi. Infatti la figura che domina il discorso pubblico, il vero modello politico dall’avvento di Berlusconi in poi, è il comico. Il più rilevante leader italiano degli ultimi quindici anni è infatti Beppe Grillo.
GIUSEPPE ANTONELLI — Si potrebbe dire che una risata ci ha seppelliti, ma non nel senso che intendevano i giovani contestatori del Sessantotto.
EDOARDO ALBINATI — Certo: i dibattiti che vediamo in tv sono duelli di gag. E, lo dico con affetto, mi resta difficile farmi dettare la linea da Maurizio Crozza. Non si può trattare ogni argomento sotto forma di quello che Roma si chiama volgarmente «cazzeggio». Dai politici non voglio più sentire battute e barzellette né vedere le loro faccette ridacchianti nei selfie.
DONATELLA DI CESARE — Mi pare che il punto fondamentale sia l’uso strumentale della lingua. Nessuno si sofferma sul significato delle parole, perché vengono adoperate soltanto per raccogliere consensi o comunque ottenere vantaggi. Ma questa è la negazione del pensiero. E non è solo una questione di battute: ci sono molti miei colleghi filosofi che scrivono in un linguaggio fumoso, assolutamente incomprensibile. Ma chi li legge? La sfida invece è trovare un linguaggio semplice, ma non strumentale, per arrivare alle persone. Il mio libro sulle migrazioni mi ha portato molte soddisfazioni ma anche parecchi fastidi. Specie dopo i dibattiti televisivi sono stata subissata di ingiurie e minacce. E più in generale ho incontrato nel pubblico posizioni viscerali di ostilità verso gli immigrati. Ma non ho mai trattato i miei interlocutori come barbari o rozzi ignoranti: ho sempre cercato di illustrare la natura politica del problema, per mettere in discussione i luoghi comuni e invitare alla riflessione. È sbagliato, come dice Antonelli, scendere sul piano della rissa. Ma è inaccettabile anche l’atteggiamento di chi dice: se non mi hanno capito sono fatti loro. Credo invece che la vocazione del filosofo sia diversa, che abbia la responsabilità di farsi comprendere per spingere la gente a ragionare con la propria testa.
EDOARDO ALBINATI — Io mi sento responsabile soltanto per la corrispondenza alla realtà di ciò che dico. Non voglio spacciare per vero il falso. E avverto i nostri governanti: attenzione con questo continuo appello alla pancia, agli istinti più bassi. Gli umori della folla sono instabili e cambiano in fretta direzione. Chi fomenta la rabbia e il rancore rischia di vederseli tornare addosso. E comunque è paradossale che l’Italia abbia un ministro di Polizia, cioè qualcuno incaricato di mantenere l’ordine, che fomenta il disordine con le sue iniziative e il suo linguaggio. Il ministro di Polizia, voglio dire, che si vanta dei reati per cui è indagato. Questo non è andare oltre, ma andare contro le proprie funzioni. Be’, non si era mai visto.