Corriere della Sera - La Lettura
Il tribunale più spietato (e la storia continua...)
Enrico si sognava calciatore, campione nella Sampdoria. Poi tutto andò storto. L’amato figlio Emiliano è lì, in ospedale, che si sveglia dopo l’incidente. Enrico nella sua testa istruisce un processo. Lui contro tutti, Sampdoria contro Resto del Mondo. Verdetto: la colpa ha un nome e un cognome. Sì, qualcuno pagherà
Fermo a sognare. Fermo ad aspettare. Fermo a ricordare. Fermo a dormire. Enrico si riscosse dal torpore che era diventato uno spiacevole compagno di viaggio, da qualche tempo a quella parte. Si riscosse perché non era il momento di addormentarsi, almeno non profondamente, anche se secondo i suoi calcoli c’era ancora almeno un’oretta prima del momento giusto.
Già. Il momento giusto. E chi lo diceva che fosse giusto? La domanda gli cadde nel cuore in maniera così forte che poté quasi sentirne il tonfo.
Rifletté, ancora annebbiato. Io, lo dico. Io. L’unico giudice possibile. Al termine di un processo in cui aveva ricoperto tutti i ruoli, pubblico accusatore, testimone d’accusa e perfino difensore.
Era stato un processo equo?, si chiese. Certo che sì. Un lungo, articolato processo, in cui ognuno aveva potuto esprimere le proprie ragioni. Fino alla sentenza. Fino alla sentenza. Una fitta partì dall’anca e gli arrivò al cervello, dissipando le ultime nebbie. Ecco, adesso era sveglio. Fresco e pronto, grazie al dolore.
Enrico Policicchio al dolore si era andato abituando, e adesso lo utilizzava. Era stata una costante della sua vita adattarsi velocemente alle avversità, prendendone il meglio e facendone combustibile per andare avanti. Lo aveva fatto quando aveva perso la madre, ed era ancora un ragazzo che aveva bisogno di carezze. Lo aveva fatto quando la moglie se n’era andata, lasciando sulle sue spalle la necessità di tirare su un ragazzo tutt’altro che facile. Lo aveva fatto quando aveva dovuto mollare il sogno più grande che avesse mai avuto, quello di diventare un calciatore di serie A.
Gli occhi andarono sull’adesivo della Sampdoria nell’angolo del parabrezza. Ci poteva arrivare, ne era sicuro. Sul terreno di gioco non era l’ultimo della classe, tardo e lento nel comprendere, poco presente a sé stesso. Sul terreno di gioco aveva il raro, rarissimo talento di capire molto prima degli altri cosa sarebbe successo, dove sarebbe andato il pallone e come raggiungerlo, e che cosa fare dopo.
Si accese l’ennesima sigaretta, sbuffando il fumo verso il finestrino innaturalmente abbassato a metà secondo un’inclinazione che non era certo quella prevista dalla casa produttrice tedesca. Certo il mister della squadra di serie C in cui aveva da ultimo militato, prima dell’incidente che gli avrebbe chiuso definitivamente la porta a qualsiasi sogno, se l’avesse trovato a fumare l’avrebbe preso a calci; ma ormai non erano certo i polmoni e il fiato, il problema. Era un dannato zoppo, asmatico, ubriacone e piagnucoloso ex atleta, senza sogni né desideri nel cuore.
Ma con l’equilibrio necessario a distinguere il giusto dallo sbagliato, di questo era certo. Certissimo.
La Sampdoria. In fondo, pensò, gli assomigliava. Grandi sogni, un momento di meravigliosa trascorsa gloria, la classe di Vialli, Mancini, Cerezo, il giro di campo dello scudetto sotto gli occhi di decine di migliaia di tifosi in lacrime, incluso un Enrico giovane e felice e commosso e pieno di un futuro che non avrebbe avuto. Ma la Sampdoria esisteva ancora, no? E avrebbe potuto giocarsela, e magari vincere. Contro chiunque. Dovunque. Attenti alla Sampdoria, ragazzi: prima o poi rialzerà la testa.
Gli assomigliava anche la scassatissima Polo in cui se ne stava in attesa. A volte si avviava subito, altre volte no: aveva lasciato al vecchio motore moribondo l’ultima scelta. Se si fosse impuntato per l’ennesima volta tutto sarebbe cambiato, e anche la decisione di Enrico avrebbe subito un rivoluzionario ribaltamento. Altrimenti il piano avrebbe avuto la sua conclusione, e una volta per tutte lui sarebbe stato padrone del proprio destino.
Guardò indietro e guardò avanti. Il padre morto senza miracoli, il figlio vivo per miracolo. Le ultime terribili notti gli attraversarono il cervello, sorprendentemente nitide come se ci si trovasse ancora immerso, un nero liquido vischioso di dolore e terrore, al di là di un vetro a fissare quel torace tanto amato che si alzava e si abbassava, quegli occhi chiusi e quella mascherina trasparente che non gli consentiva di vedere la bocca e il naso di Emiliano. Era vivo, sì, e stava recuperando: ma nessun medico aveva saputo rassicurarlo sul fatto che non avrebbe riportato
tracce di quello che era accaduto.
Enrico era sorpreso di sé stesso. A parte l’immensa preoccupazione, l’atroce paura di perdere il figlio, non aveva provato risentimento, rabbia, furore. Aveva piuttosto sentito crescere in sé la fredda determinazione a rimettere a posto le cose, secondo un senso di giustizia che sentiva nuovo e limpido scorrergli nelle vene.
Emiliano era tutto quello che aveva. La sua speranza residua, il suo sogno. Era il motivo per cui si era inventato quell’assurdo ristorante, che adesso moriva come lui sotto i colpi di un cambiamento che non aveva saputo interpretare. Era il motivo per cui aveva orientato la propria esistenza a sostenerne gli studi, quella strana materia di cui non capiva nemmeno il senso ma nella quale il figlio si muoveva felice come un pesce nel mare. Era il motivo per cui aveva accettato in silenzio, come qualcosa di troppo più grande di lui per comprenderla davvero, l’orientamento sessuale e il modo ostile e celato di concepire l’amore.
Era stato testimone silenzioso della sofferenza del figlio quando Giulio, il traditore, il falso, il Giuda, aveva scelto la strada di un rapporto comodo e solare, utilizzando quell’aspetto ipocrita da angelo di marmo in una chiesa sconsacrata. E si era messo con la cicciona, pianificando una strada facile verso il successo col padre avvocato famoso, lo studio avviato e il futuro luminoso. Ci aveva provato ad avvertirlo, l’avvocato. Ma si sa, nessuno vede dove sceglie di non guardare.
Per molto tempo aveva considerato proprio il ragazzo, l’infido ingannatore, come il colpevole principale. Se n’era pure anda- to, millantando un’urgenza della dannata sorella dall’altra parte del mondo. Nemmeno aveva avuto la decenza di assistere Emiliano finché ogni dubbio sulla sua salute fosse risolto positivamente. Aveva visto negli occhi del figlio l’immensa orgogliosa tristezza di vederlo partire, mormorando un freddo saluto dalle labbra tumefatte. Anche allora però non era odio quello che aveva sentito montargli dentro: Giulio era un debole, fradicio omuncolo nascosto dietro una bella faccia. Un ragazzino che mai sarebbe diventato uomo, e da padre poteva essere solo felice che Emiliano andasse liberandosene attraverso una crescente disistima, che non poteva che erodere quell’assurdo amore che credeva di provare. Meglio così, aveva pensato. Parti, e non tornare mai più. Né se la sentiva di mettere sotto processo la cicciona.
Era una deviata, vittima di chissà quale fantasma. Una poveretta, schiava di sé stessa e della sua vorace voglia di distruggersi, boccone dopo boccone, fuggendo da una vita senza problemi. Enrico, che dava da mangiare alla gente, sapeva distinguere chi si nutriva con rabbia autolesionista e chi mangiava con gusto. Quella si stava suicidando, e non ci avrebbe messo molto. Non valeva certo la pena di darle addosso. Peraltro quello che aveva fatto, e lui era in grado di capirlo, era stata una specie di ridicola bravata, un voler dimostrare chissà che a chissà chi, insieme alle due sorelle stupide e carine.
L’avvocato era stata un’altra opzione, con quella spocchia e quella sicurezza da ricco idiota, quell’atteggiamento di merda da giocatore di poker che sta vincendo e quindi può permettersi di bluffare. Ricordava quello sguardo da sotto in su, al volante della maledetta Mercedes che gli ruggiva contro come un animale feroce pronto a mordere il resto del mondo, se il resto del mondo avesse osato disturbare il suo padrone. Doveva confessare a sé stesso che gli sarebbe proprio piaciuto fargli rimangiare quello sguardo, e sostituirlo nel ricordo con una bella espressione di sacro terrore. E con l’occasione, trovandosi a rimangiare, avrebbe pure potuto infilargli su per il culo quella famosa lettera di minacce che in puro legalese gli aveva mandato per farsi bello davanti all’infermiere. Ma appunto quello era stato un incarico: la fredda esecuzione di un mandato. Non era colpa sua.
E così la mente di Enrico, mentre i suoi occhi restavano fissi sulla larga via d’accesso al cui fianco aveva parcheggiato all’ombra dei platani, tornò al ragionamento che l’aveva portato là. Un freddo, logico ragionamento matematico.
Il padre era stato importante per lui. Aveva lavorato come uno schiavo per tutta la vita, non concedendosi una vacanza o uno svago, un cinema o una pizza. L’unica cosa che aveva fatto per sé stesso era quella piccola fuga in un mondo di carta e disegni, di parole e urla e rumori silenziosi tradotti in lettere. Un mondo lontano, fatto di indiani e cowboy e cavalli e frecce.
Ci aveva pensato a lungo, Enrico. Quella collezione di Tex era l’eredità di suo padre per il futuro di Emiliano. Era un lascito consapevole, non casuale: altrimenti non avrebbe letto gli albi del cugino, conservando i suoi in una condizione perfetta, con tanto di cellofanatura protettiva. Sapeva, il vecchio, che un giorno lontano quei fumetti sarebbero stati una vera e propria fortuna, che avrebbero avuto la funzione di supportare la crescita del nipote e il suo inserimento professionale. Non c’erano dubbi.
Ed era qui che era arrivato il determinante apporto di qualcuno. Qualcuno che aveva deciso di avere una duplice funzione negativa nell’azzeramento dell’unica possibilità di salvezza di Emiliano, che con quei soldi sarebbe arrivato dove lui, il suo disgraziato ristorante e la serie ininterrotta di fallimenti non avrebbero mai potuto condurlo.
Se avesse dovuto o potuto maledire qualcosa, e la fredda determinazione che l’aveva invaso glielo impediva, avrebbe maledetto la voglia di assistere suo padre assecondandone il desiderio di morire a casa sua. A Emiliano aveva sempre detto che nessuno doveva immaginare di fare passi più lunghi della gamba, di acquistare qualcosa che non poteva permettersi. Alla richiesta folle del vecchio, ai suoi occhi spalancati pieni di dolore e sofferenza, avrebbe dovuto semplicemente opporre un fermo diniego. No, papà: devi stare dove puoi essere assistito al meglio, dove se si verifica un’emergenza sapranno cosa fare. E invece a quell’uomo che gli aveva dato tutto quello che poteva e anche qualcosa in più, non si era sentito di rifiutare l’unica richiesta che gli avesse mai fatto, proprio nell’ultimo tratto di vita.
Non ce li aveva, quei soldi. Pensava che sarebbe stata questione di pochi giorni, quelli se li poteva permettere: e invece il padre era durato mesi, facendo addirittura pensare a un miracolo. Un’apparente felice circostanza che invece si era tradotta in un dramma economico di proporzioni per lui enormi.
Aveva chiesto una dilazione. Li avrebbe trovati, messi insie-
me col tempo e con la fatica, come sempre aveva fatto nella vita. Ma era arrivata quella lettera, con le minacce di un procedimento che avrebbe portato a spese ancora maggiori per difendersi e addirittura alla galera, mica sarebbe stata la prima volta in un paese in cui gli assassini restavano a piede libero e gli innocenti riempivano le prigioni. A quel punto cosa sarebbe stato di Emiliano? Sarebbe stata la fine di tutto.
Era andato dagli strozzini, cosa che non aveva fatto nemmeno nei momenti di più bassa fortuna. Ci era andato nella consapevolezza che non avrebbe potuto recuperare, che i tassi terribili lo avrebbero sepolto vivo. Ci era andato per differire il problema, per rimandare la soluzione. Ci era andato per superare la collina, nella speranza che dietro ci fosse finalmente una discesa.
Aveva pagato, con la morte nel cuore. Aveva pagato a nero chi truffava la gente che pagava le tasse, senza averne bisogno dal calduccio del suo lavoro ben retribuito con le ferie e la tredicesima. Aveva pagato chi poteva tranquillamente permettersi di aspettare, perché non aveva bisogno di niente.
Aveva pagato col proprio sangue chi nel frattempo e senza pietà aveva sottratto a un amico morente, perché quello era diventato suo padre per Chemeri, il tesoro di una vita, l’unica speranza che aveva suo figlio: La Mano Rossa.
Ecco quindi che, al termine della più lunga notte della sua vita, quando una livida alba aveva dipinto sul volto di Emiliano un difficile ritorno alla coscienza, Enrico Policicchio si era reso conto che tutte le disgrazie che lo stavano condannando senza pietà all’infamia e alla rabbia degli strozzini, alla povertà e alla rovina di suo figlio rimontavano a una persona sola. Il resto, tutto il resto era stata pianificazione. L’idea era la stessa della bravata della cicciona con le sorel- le sceme, solo che lui non avrebbe fatto una bravata sciocca e inutile, e soprattutto non se la sarebbe presa con un innocente. Non sarebbe stato un atto assurdo e senza senso, peraltro inconsapevole, lo scarico delle proprie infelicità e delle frustrazioni di una vita senza problemi e per questo vuota di significato.
Sarebbe stata l’esecuzione di una sentenza. Un atto di giustizia, come Dio stesso avrebbe fatto se avesse deciso di intervenire nelle miserie umane, invece di starsene cinico e freddo sulla sua dannata nuvola a osservare quanta terribile iniquità ci fosse nel mondo.
Aveva studiato, approfittando del fatto di trovarsi nello stesso ospedale dove il colpevole lavorava. Orari, compagnie, turni. E aveva trovato il momento preciso in cui sarebbe uscito, da solo, scendendo i gradini davanti al portone, salutando con un sorriso il collega alla porta, percorrendo pochi metri e infine arrivando in quell’angolo buio, senza traffico e senza videocamere, né parcheggio né accesso al pronto soccorso, dieci metri di terra di nessuno in cui si sarebbero trovati finalmente soli, scambiandosi per l’unica, ultima volta i ruoli di carnefice e vittima.
Avrebbe concesso al Dio inconsapevole e strafottente un’ultima possibilità, tuttavia. La vecchia Polo in avanzato stato di decomposizione si avviava una volta sì e l’altra no. Avrebbe girato la chiave una volta sola, e se Dio avesse deciso altrimenti se ne sarebbe rimasto là a guardare il colpevole avviarsi fischiettando al parcheggio per poi tornarsene a casa.
Quando lo vide venire verso di lui, la bella sagoma e il passo elastico da uomo baciato dalla sorte, pensò che finalmente giocava nella Sampdoria e si trovava ad affrontare il Resto del Mondo, di cui quello era il capitano. Sulla carta non c’era storia: ma si gioca sull’erba, non sulla carta. Tirò un profondo respiro e girò la chiave. La Polo si avviò al primo colpo.