Corriere della Sera - La Lettura
L’Austria -Ungheria rinasce contro Berlino
Si prospetta un’alleanza neo-asburgica tra i Paesi del gruppo di Visegrád, più Vienna e la Croazia, in opposizione ad Angela Merkel Ma questo nuovo blocco non pare avere grande respiro né appigli forti sulla scena internazionale
Nel 1866 si chiudeva un capitolo della storia tedesca: grazie alla decisiva battaglia di Sadowa, la Prussia prendeva il definitivo sopravvento sull’Austria e apriva la strada all’unificazione della Germania. Un secolo e mezzo più tardi, sembra in corso un tentativo di rimettere in discussione l’esito di quello scontro su iniziativa del gruppo di Visegrád, Paesi un tempo appartenenti in tutto o in parte al mondo asburgico: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.
La concorrenza tra l’Austria e Berlino era iniziata dopo il Congresso di Vienna del 1815. Secondo i libri di storia, il vincitore di quell’assise, incaricata di ridisegnare la carta dell’Europa dopo le guerre napoleoniche, sarebbe stato il famoso cancelliere austriaco Klemens von Metternich. Le cose, forse, non stanno esattamente così. Henry Kissinger ci ricorda che le risoluzioni di quel Congresso seguirono «letteralmente» il piano elaborato anni prima dal primo ministro britannico William Pitt il Giovane, morto nel 1806. E Londra voleva sicuramente evitare che l’Austria potesse diventare la nuova superpotenza europea dopo vent’anni spesi per stroncare le velleità francesi. Il colpo da maestro fu affidare alla Prussia il controllo di una parte delle regioni tedesche del Reno, distanti centinaia di chilometri e senza continuità territoriale: in quel modo, uno degli Stati più militarizzati del continente (la Prussia, appunto) si univa a una delle regioni più economicamente avanzate (la Renania), diventando così un rivale potenziale dell’Austria di Metternich. Il calcolo di Pitt, quasi certamente, comprendeva anche l’implausibilità della coabitazione tra una Prussia altera, protestante, feudale e orientata ad est, e una Renania modesta, cattolica, borghese e orientata ad ovest; Pitt confidava cioè nell’implausibilità di un’unificazione tedesca.
Eppure, nonostante gli inevitabili conflitti, prussiani e renani si resero alla fine conto di non poter sopravvivere politicamente gli uni senza gli altri: insistere ciascuno sulle sue specificità e sui suoi interessi particolari avrebbe avuto la conseguenza di ridurre entrambi allo stato di potenze di secondo o terz’ordine, in balia delle potenze di prim’ordine. Alla formulazione dell’interesse nazionale tedesco concorsero elementi unificatori, come lo Zollve- rein (l’unione doganale), la rivoluzione industriale, le grandi banche e la rete ferroviaria; ma anche elementi conflittuali, come le divisioni tra gli imprenditori di Colonia e i professionisti di Stoccarda, gli interessi agrari degli Junker (i nobili proprietari terrieri prussiani), e l’insurrezione del 1848; e soprattutto concorsero le grandi potenze: l’Austria come nemico designato, la Gran Bretagna, la Francia e la Russia, unite nella comune pressione sul centro del continente, ma divise e rivali tra loro.
Lo statista prussiano Otto von Bismarck giocò sapientemente su tutti quei fattori per giungere al risultato che si era fissato: l’unificazione tedesca. Ma era cosciente che quell’esito era solo metà dell’opera; l’altra metà consisteva nel fare in modo che l’unità resistesse alle pressioni esterne e interne. L’equilibrio tra interessi in seno al Reich era infatti fragile, in parte perché molti degli staterelli tedeschi si erano piegati controvoglia alla politica del «cancelliere di ferro», e in parte perché le regioni cattoliche del nuovo impero (Renania, Alsazia, Baden, Baviera, Slesia e parte della Pomerania) erano tutte marche di frontiera che offrivano un vistoso appiglio alle possibili interferenze esterne, francesi o austriache.
Fu per questo che Bismarck lanciò una serie di misure legislative intese a limitare le attività
La svolta storica Nel 1866 la vittoria prussiana di Sadowa aprì la strada all’unificazione tedesca e rese subalterno l’impero di Francesco Giuseppe
del clero e dei fedeli cattolici ( Kulturkampf). Quella «battaglia culturale» fallì nel suo intento principale, e anzi finì per coalizzare i cattolici tedeschi che diedero vita al primo partito di ispirazione religiosa autorizzato dal Vaticano, lo Zentrum, antenato dell’attuale Democrazia cristiana (Cdu); ebbe però successo nel sedare ogni possibile velleità separatista.
Nei decenni seguenti, il divario tra le due capitali tedesche non fece che accrescersi, sia economicamente che politicamente. La Germania era una potenza emergente e dinamica, mentre l’Austria (diventata Austria-Ungheria dopo la disfatta del 1866) era sulla china discendente dei grandi imperi multinazionali, come quello turco e quello russo, che si disfecero con la Prima guerra mondiale. Nell’ottobre 1918, il parlamento di Vienna proclamò la Republik Deutschösterreich, la repubblica dell’Austria tedesca, uno Stato che riuniva le popolazioni germanofone della defunta Austria-Ungheria, come «parte integrante della repubblica tedesca» (art. 2 della Costituzione provvisoria); ma il trattato di Saint-Germain, nel 1919, cassò quella decisione (nonostante l’appoggio di Woodrow Wilson) e distribuì i territori periferici abitati da tedeschi etnici agli Stati confinanti: Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e Italia. Com’è noto, i sentimenti pantedeschi rimasero vivaci in Austria, al punto che fu proprio l’austriaco Adolf Hitler, nel 1938, ad annettere il suo Paese natale al Terzo Reich, derubricandolo però da Österreich (impero orientale) a semplice Ostmark, «marca orientale» della grande Germania.
Dopo il 1945, il destino dei due Stati tedeschi fu separato, non solo fisicamente, ma anche «ontologicamente», si potrebbe dire, dalla guerra fredda: la Germania fu frantumata e spartita tra i due blocchi, e l’Austria, a partire dal 1955, fu trasformata in terreno «neutro» di incontro e di scontro tra le due superpotenze, paradiso e inferno dello spionaggio internazionale. Dopo il 1991, la Germania ha preso la testa del processo di integrazione europea, pur cercando di tenere un profilo basso per non ridestare gli spettri del passato. Il che non ha però impedito la rinascita di sentimenti antitedeschi, non solo in Francia, Gran Bretagna e Russia, ma anche nei Paesi dell’Europa centrale e orientale, aree di tradizionale espansione germanica. In quelle regioni, le prese di distanza da Berlino si sono sviluppate a un ritmo direttamente proporzionale alla crisi del progetto europeo: al gruppo di Visegrád si sono aggiunte, strada facendo, la Croazia (con le elezioni del 2016) e, soprattutto, proprio l’Austria, con le elezioni dell’ottobre 2017. Per chi si occupa di iscrivere le tendenze politiche non solo nel solco dell’attualità, ma anche in quello delle continuità storiche, appariva verosimile che quella nuova massa politica — che raggruppava parte dei territori della vecchia Austria-Ungheria — avrebbe esercitato una forza di attrazione sul Lombardo-Veneto e sulla Slovenia, come infatti è accaduto in tempi ravvicinati. Ma anche sulla Baviera.
La cattolica Baviera ha sempre avuto un rapporto freddo con Berlino. Le sue vicissitudini storiche e culturali l’avrebbero avvicinata piuttosto a Vienna, se non fosse stato per Sadowa. Dopo il 1945, gli Alleati furono indecisi se renderla indipendente, farne la testa di uno Stato tedesco del Sud, oppure unirla all’Austria. Ritornò alla Germania per ragioni di guerra fredda, ma con un peso specifico accresciuto, dato che la Prussia non c’era più, inglobata nella sfera di controllo russo.
Una massa «neo-austro-ungarica», dunque, non può non mettere in fibrillazione anche la Baviera. E infatti è stato l’ex capo del go- verno del Land bavarese, e attuale ministro degli Interni, Horst Seehofer, che ha puntato i piedi all’inizio dell’estate sulla questione dell’immigrazione, dando l’impressione di essere più in sintonia con i governi «neo-austroungarici», compresa la nuova coalizione italiana, che con la sua cancelliera. Il calcolo di Seehofer potrebbe essere semplicemente di vincere le elezioni bavaresi del 14 ottobre brandendo un tema popolare e populista; ma potrebbe anche avere implicazioni politiche più generali, legate, precisamente, al tentativo di creare un polo anti-tedesco in seno all’Unione Europea.
Questa massa «neo-austro-ungarica», infatti, ha da un lato una forma e, dall’altro, una sostanza. La forma è l’ostilità nei confronti degli immigrati e, in particolare, dei musulmani. Nei loro proclami, i capi di governo di quei Paesi affermano di ergersi eroicamente contro un’invasione che non c’è; il nuovo governo austriaco si è addirittura presentato ai giornalisti sulla collina da cui, nel 1683, il re polacco Giovanni (Jan) Sobieski lanciò l’attacco contro gli ottomani, spezzando l’assedio di Vienna e dando il via al declino turco. Questa forma ha una duplice funzione: da una parte può aiutare a vincere le elezioni, dall’altra serve ad attaccare Berlino, e Angela Merkel in particolare, «colpevole» di aver aperto le porte a profughi e immigrati nell’estate del 2015. Ma questa forma ha anche una duplice debolezza: da una parte, i Paesi «neo-austro-ungarici» sono tra quelli coi più bassi tassi di fertilità del mondo, e fra un po’ saranno costretti, per non chiudere bottega, a far pubblicità in tutto il mondo per attirare immigrati; dall’altra, l’alleanza tra Paesi che non vogliono gli immigrati e chiedono ai partner della stessa alleanza di prenderseli in casa loro sembra una pièce del teatro dell’assurdo. L’internazionale dei nazionalisti è un ossimoro nelle parole e nei fatti. La sostanza, invece, è l’ostilità all’Europa a trazione tedesca. È vero che i leader «neo-austro-ungarici» più pittoreschi affermano che il nemico numero uno è Emmanuel Macron: ma solo perché più l’Europa ruota attorno alla Germania e più ha bisogno che sia la Francia a tenerne le redini politiche.
Che cosa vuole, insomma, questa alleanza «neo-austro-ungarica»? I suoi leader, innanzitutto, vogliono vincere le elezioni; questo sembra essere il loro obiettivo a breve. In secondo luogo, molto probabilmente, vogliono alzare la posta e ottenere di più dall’Unione Europea e dal suo budget. Se nelle loro rodomontate si spingono fino a lodare la Brexit, nessuno, per ora, si è messo su quella strada. Anche perché, davanti a sé, la nuova «AustriaUngheria» non trova sponde sul piano politico internazionale. Benché uniti nel tentativo di ricattare l’Europa franco-tedesca, quei Paesi sono divisi su tutto il resto; non solo su a chi tocchi aprire le porte agli immigrati, ma soprattutto sulle loro amicizie internazionali: se l’Ungheria strizza l’occhio alla Russia, la Polonia vede Vladimir Putin come l’uomo nero; e nessuno può contare sugli Stati Uniti, impelagati nel loro declino relativo e disorientati dalla loro erratica amministrazione.
Non è e s c l uso c he l ’a t te ggi a mento dei «neo-austro-ungarici» possa costringere Berlino e Parigi a fare qualche concessione. Ma non è neppure così probabile; soprattutto se Macron dovesse riuscire a riportare la Francia nei parametri europei e a rilanciarne l’economia. Se non ottenesse concessioni, la nuova «Austria-Ungheria» non sarebbe che un mero espediente elettorale, dal fiato molto corto e dai rischi molto elevati: come un ammutinamento che potrebbe anche finire con l’autoaffondamento della nave.
Obiettivi tattici I leader populisti dei Paesi mitteleuropei puntano a consolidare il loro potere e a ottenere più vantaggi dalle autorità dell’Unione