Corriere della Sera - La Lettura
Rabbi Akiva spiegava la Legge anche a Mosè
Il leggendario maestro, vissuto dopo la distruzione del Tempio e morto per mano dei Romani in epoca imperiale, incarnò il modello del martire per il popolo d’Israele. Un vero «self-made man» della sapienza biblica
Nell’ebraismo si discute su tutto, in esso però c ’è almeno un punto fuori discussione: il ruolo fondamentale assunto dal racconto. Un filone particolare del narrare ebraico lo si trova nelle storie relative ai grandi rabbini (o maestri) protagonisti della rinascita del giudaismo dopo la catastrofe costituita dalla distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. Nell’ambito ebraico si tratta di nomi spesso familiari. Nel corso della cena pasquale si legge un testo chiamato Haggadah di Pesach. Tra le sue particolarità ci sono un’assenza e una presenza: la prima sta nel fatto che, pur concentrandosi sull’esodo dall’Egitto, non si nomina mai Mosè; la seconda è che vengono ricordati i nomi di alcuni maestri del I-II secolo d.C. e tra essi nessuno è più popolare di Rabbi Akiva. La ragione della loro presenza è semplice: se ci si continua a riunire attorno alla tavola per ricordare la Pasqua, anche quando non è più possibile, per mancanza del Tempio, sacrificare l’agnello (vedi Esodo 12,1-14), lo si deve alla capacità degli antichi rabbini di reinventare il rito.
Barry W. Holtz, al termine del suo fine e penetrante libro Rabbi Akiva (Bollati Boringhieri), riporta una storia carica di forte valenza ermeneutica. Il grande rabbi (vissuto all’incirca tra il 50 e il 135 d.C.) propendeva per una spiegazione della Torah scritta (Pentateuco) volta a ricavare insegnamenti persino dai più minuti particolari del testo, compresi i segni grafici. Akiva aveva una scuola gremita di discepoli. Il racconto immagina che, ad un certo punto, Mosè in persona si sedesse nell’ultima fila degli alunni. Chi ricevette la Torah direttamente da Dio si mise ad ascoltare e non comprese nulla di quanto il maestro stava dicendo. Tuttavia, quando, a conclusione di una sua applicazione normativa, Akiva disse: «È Torah di Mosè dal Sinai», l’antica guida del popolo d’Israele comprese e si rallegrò. La fortuna goduta ai nostri giorni da questa narrazione è in massima parte dovuta al suo spessore ermeneutico. Prima di tutto essa esprime un senso di distanza: gli eredi si scoprono diversi dai loro padri. L’incomprensione da parte di Mosè rappresenta la consapevolezza della grande differenza esistente tra il punto di arrivo e quello di partenza. Per un sistema religioso è già ardito ammettere il problema ed è quindi impensabile che esso possa affermare l’invalicabilità di questo iato. Ecco dunque scendere in campo la finale gioia di Mosè, grazie alla quale si riconosce una continuità dove dapprima sembrava esserci una frattura.
Holtz insegna al Jewish Theological Seminary, la prestigiosa istituzione dell’ebraismo americano conservatore dove operò pure A.J. Heschel, grande pensatore che dedicò profondi studi anche all’ermeneutica di Akiva. L’interesse principale del testo non va però in questa direzione. Il libro di Holtz non attribuisce neppure un ruolo privilegiato alla morte per mano dei Romani dell’antico rabbi, evento che ha fatto sì che, col tempo, Akiva diventasse il modello del martire ebreo. Proprio in questo orizzonte vanno recepite le ultime parole da lui pronunciate in punto di morte, tratte dall’inizio dello Shemà: «Ascolta Israele il Signo- re è nostro Dio, il Signore è Uno» ( Deuterono
mio 6,4). Neanche l’aspetto mistico, per quanto non ignorato, costituisce davvero il cuore del lavoro. Le componenti ora elencate, pur fondamentali, rientrano infatti in gran parte nella sfera indicata dal titolo dell’ultimo capitolo: «Epilogo: Akiva dopo Akiva». Ciò che più attira l’attenzione del nostro autore è la componente biografica incentrata sull’apporto arrecato da Akiva ai dibattiti, non ancora istituzionalizzati e fortemente dialettici, avuti con i suoi colleghi e i suoi discepoli. In definitiva il libro propone un approccio attento più alla vita che all’eredità.
Holtz definisce la sua ricerca una «biografia immaginaria». L’aggettivo non tragga in inganno. Non sembri un paradosso affermare che è immaginaria proprio perché critica. Nell’ambito degli studi è ormai definitivamente archiviata l’idea che, attraverso le fonti, si possa giungere alla «storia reale» nel senso positivistico del termine. La constatazione non sospinge però a rifugiarsi nel romanzato. Le storie sono vere non già perché riportano per filo e per segno l’accaduto, bensì perché esprimono le idee dei loro inventori e trasmettitori.
Di fronte a questo fatto il nostro autore è mosso più dall’istanza di calarsi in prima persona nella logica del racconto che da quella di ricostruire ambienti sociali o culturali. L’operazione non avviene con l’ingenua innocenza (ormai anch’essa perduta) propria di chi inventava narrazioni. Al contrario, essa si realizza attraverso il pungolo critico di chi, da un lato, decostruisce pretese certezze storiche e, dall’altro, individua i significati che i racconti intendono trasmettere; una operazione, quest’ultima, condotta da Holtz con un acume che si è inevitabilmente tentati di definire talmudico.
Nel mare magnum della letteratura rabbinica, i riferimenti ad Akiva sono più di mille. Non manca quindi materiale per elaborare una biografia. Quando si ricostruisce una vita partendo da testi rabbinici, non è però dato ispirarsi, come si preoccupa di precisare l’autore, a un modello biografico antico alla Plutarco. Considerazioni analoghe del resto varrebbero per un confronto con i Vangeli (stranamente mai presi in considerazione da Holtz); se infatti ci sono affinità non trascurabili tra le storie dedicate ai rabbi e le «biografie evangeliche» di Gesù, grandi sono pure le differenze. La più rilevante tra esse è costituita dalla veste frammentaria, perché corale, propria delle storie rabbiniche. Le narrazioni, oltre a essere sparse, non sono mai incentrate su un unico rabbi. I racconti sono infatti accomunati dalle discussioni, a volte persino aspre, tra maestri tutti dotati di un uguale diritto di parola.
Perché in questo coro è emersa la voce solista di Akiva? Una delle ragioni principali sta nel fatto che egli incarna il fascino permanente del self-made man, vale a dire di colui che, estraneo a un mondo, riesce a entrarvi e a primeggiarvi in virtù della sua intelligenza, della sua forza di immaginazione e della sua tenacia. Nessun altro antico rabbino espresse tutto ciò come Akiva. Self-made man: inutile precisare che Akiva non tendeva a essere ricco e potente, la meta a cui aspirava era divenire saggio studiando e discutendo la Torah, anche a costo della vita.
Gli oggetti delle discussioni rabbiniche sono spesso specifici del loro ambito e quindi impossibili da trasportare, sia pure con cautela, altrove. Non è però sempre così: a volte si affrontano temi di portata etica generale. In quest’ambito rientra, per esempio, la discussione relativa alla difficile arte di ammonire il prossimo. Un maestro sosteneva che nella sua generazione non c’era nessuno in grado di fare un monito, un altro dichiarava che non c’era alcuno capace di riceverlo; dal canto suo Akiva si chiedeva se ci fosse chi sapeva come ammonire. Intervenne infine un quarto rabbi il quale fece presente che, a causa sua, Rabbi Akiva fu ammonito per ben cinque volte e concluse il proprio intervento con queste parole: ogni volta che venne redarguito «egli mi amò sempre di più». Akiva si è trovato nelle condizioni escluse dagli altri due maestri: fu redarguito e seppe ricevere il rimprovero. Quella esperienza gli indicò che il peso determinante gravita sul come rimproverare il proprio prossimo. Se si sa come farlo, gli altri due scogli sono, di fatto, superati.
Narrazioni Le storie sono vere non già perché riportano l’accaduto per filo e per segno bensì perché esprimono le idee dei loro inventori e trasmettitori Talento L’intelligenza, l’immaginazione e la tenacia consentirono ad Akiva di affermarsi in un mondo difficile al quale era inizialmente estraneo