Corriere della Sera - La Lettura
Nascosto da una camicia di ghiaccio William T. Vollmann ci chiama
Tolti i decani Pynchon, DeLillo, Morrison e McCarthy, è plausibile che il maggior scrittore americano vivente sia il losangelino William T. Vollmann, classe 1959, ultimo rappresentante, dopo la morte di David Foster Wallace, della vocazione massimalista della letteratura statunitense. A differenza di Wallace, però, la fortuna di Vollmann in Italia è stata minima, anche a causa di una storia editoriale disorganica: non tutti i suoi libri sono stati tradotti; non tutti quelli tradotti sono usciti in ordine cronologico; molti dei più importanti, fatto salvo il capolavoro Europe Central, edito da Mondadori, sono usciti per una piccola casa editrice come Alet, nel frattempo defunta. Il risultato è che al lettore italiano Vollmann appare oggi come un oggetto misterioso, la cui enormità può essere desunta da certi volumi che, come rovine monumentali, fanno capolino sui banchi dell’usato o spuntano da qualche scaffale di biblioteca. Nel mio caso fu La camicia di ghiaccio: lo trovai in una di quelle librerie-caffè dove i libri servono solo a giustificare la dicitura: in uno scaffale tra vecchie edizioni scolastiche di classici, guide turistiche di dieci anni prima e sillogi poetiche uscite per editori a pagamento, ecco anche un tomo considerevole, e dall’aspetto più nobile del resto. Dopo aver acquistato il libro, mi ritrovai in un misto tra un romanzo storico postmoderno, un’epica antica, un reportage in stile new journalism e un codice esoterico, tutto volto a narrare con una gamma mai vista di sistemi testuali e paratestuali — all’interno delle sue 480 pagine figuravano anche un’invocazione introduttiva, una prefazione, una postfazione, una serie di glossari, copiature di antiche mappe, disegni di piante islandesi e un autoritratto dell’autore — la storia della scoperta
dell’America da parte dei vichinghi. Sarebbe bastato a restare colpiti, ma quando lessi che La camicia di ghiaccio era il primo volume di una serie di sette, la sensazione fu quella di aver scoperto a mia volta un nuovo continente. Quella terra incognita si chiamava Seven Dreams: A Book of North
American Landscapes, e in italiano era uscito solo il primo (Alet ha pubblicato anche il secondo, Venga il tuo regno). Mi procurai quelli disponibili in inglese, così come Europe Central, e realizzai l’esistenza di un titano. Del quale tuttavia non ho ancora potuto leggere tutto, ammontando l’opera di Vollmann a 10 romanzi, 4 raccolte di racconti, 3 di poesie, 2 saggi e 12 libri di non-fiction, tra cui Imperial, uno studio integrale sulla California del sud di 1.300 pagine, e Rising Up and Rising Down, un trattato sulla violenza di 3.300. In una simile fluvialità (e varietà di interessi: Vollmann ha scritto anche di Afghanistan, teatro No, identità femminile — come già Duchamp con Rrose Selavy, anch’egli ha un alter-ego donna, la scontenta Dolores), quello che stupisce è la qualità cristallina della prosa: è la scrittura, in ultima istanza, a far superare all’opera di Vollmann lo stato di colossale anomalia per qualificarsi come monumento imprescindibile, e per lo più inattingibile per il lettore che non mastichi l’inglese, almeno in attesa del lavoro di minimum fax, che ha annunciato l’intenzione di portare in catalogo una parte delle sue opere inedite o non disponibili in Italia.