Corriere della Sera - La Lettura
Ferlinghetti no stop come se oggi fosse ieri
Di padre italiano, compirà cent’anni nel 2019. È stato una delle figure di riferimento di una generazione leggendaria, molto più che autore fra gli autori. Un’antologia da lui stesso approvata ne mette in luce il talento e la coerenza
Ogni volta che si torna a parlare della poesia della Beat Generation, si ripresentano infallibilmente le stesse questioni: la disparità tra il diretto impatto esistenziale e quello poetico, la precedenza dei contenuti, anche questi diretti, sulla mediazione formale, e anche la notorietà, senza dubbio singolare, di cui il movimento ha goduto nel nostro Paese. È forse inevitabile, del resto. Quei poeti e narratori i cui nomi sono stati niente meno che leggendari (da qualche tempo la loro fortuna è invece un po’ in ribasso) hanno provocatoriamente innestato la propria azione poetica nel punto di giuntura tra vita e forma, tra esistenza e letteratura, con l’intento di smuoverne i confini e rinnovarle entrambe. Da un punto di vista strettamente poetico, la Beat Generation non solo ha generato domande e paradossi ma è stata essa stessa un paradosso.
È una piccola leggenda anche la vita di Lawrence Ferlinghetti (New York, 1919), che del movimento è stato ed è a tutt’oggi uno dei protagonisti indiscussi: le radici e il cognome italiano (da cui lo stretto legame con l’Italia; il padre era di Brescia e morì qualche mese prima della sua nascita), la formazione newyorkese ma anche europea (francese soprattutto), quindi il passaggio all’ovest e la fondazione a San Francisco della libreria e della casa editrice City Lights (rispettivamente nel 1953 e nel 1955), che della Beat Generation divenne un punto di raccordo e di promozione fondamentale (nel 1956 pubblicò ad esempio l’Urlo di Allen Ginsberg, che in qualità di editore gli procurò un processo per oscenità).
Di Ferlinghetti esce ora in traduzione italiana una raccolta di poesie scelte che sembra fatta apposta per scombinare l’immagine un po’ statica del classico poeta beatnik: si tratta di Greatest Poems (Mondadori), curato da Nancy J. Peters e tradotto da Leopoldo Carra. È questa una ricapitolazione importante dell’opera poetica di Ferlinghetti (l’edizione in lingua originale è dell’anno scorso), tanto più che la scelta è stata condotta e approvata dall’autore stesso. Anche la conservazione del titolo in inglese intende forse sottolinearlo. In ogni caso, ne esce un poeta sorprendentemente nitido e rigoroso dal punto di vista espressivo, sempre molto concentrato nell’esercizio della propria lingua poetica e nell’approfondimento del proprio immaginario. Dal primo libro del 1955,
Immagini del mondo andato, alle ultimissime poesie antologizzate, questo volume si sviluppa infatti con estrema coerenza, e soprattutto con una riconoscibilità stilistica, con un senso di radicamento e d’appartenenza letteraria forse insospettabili. Greatest Poems è una raccolta antologica, eppure presenta un’unità e una linea di sviluppo interno che spingono a leggerla come fosse un capitolo nuovo.
Per prima cosa, ad esempio, si può rilevare l’equilibrio complessivo tra testi più direttamente impegnati, altri più lirico-visionari (e personali, dunque), e altri ancora di più marcata matrice letteraria. Sono davvero moltissime le poesie inserite nel volume che, in modi più o meno espliciti, tendono a intrecciare il destino di Ferlinghetti con quello degli autori più amati della tradizione poetica, soprattutto inglese, francese e italiana (senza dimenticare Pablo Neruda). Ma anche qui non si tratta di richiami dotti o sapienziali, quanto della letteratura che entra e si confonde con la vita. Si può dire anzi che proprio questo sia un procedimento di rappresentazione tra i suoi più efficaci. Il poeta sta leggendo Ezra Pound durante una partita di baseball, e da lì, stando esattamente dentro i termini del gioco, ne deriva un discorso per nulla ideologico sulla disparità tra bianchi e neri. In un’altra, invece, riporta la lettura di Yeats nel bel mezzo dello scenario cittadino, cosa che gli consente di concretizzare la spinta epico-cavalleresca dell’originale nella realtà dura e contraddittoria delle situazioni e dei volti che gli cadono direttamente sotto agli occhi: «Leggendo Yeats non penso/ all’Irlanda/ ma a New York di mezza estate/ e a me stesso allora/ mentre leggo quella copia trovata/ sulla soprelevata della Terza Avenue».
Proprio qui sta il punto più importante, vale a dire nella partecipazione dello sguardo del poeta, a sua volta uomo tra gli uomini, all’orizzonte della gente cosiddetta comune. Basti per tutti il «tizio in canottiera/ che si dondolava sulla sedia a dondolo/ guardando passare la soprelevata/ come se si aspettasse che fosse diversa/ ogni volta». La critica politica e sociale, i grandi temi del pacifismo, dell’ambientalismo, della libertà dei costumi, soprattutto il punto interrogativo posto sul grande sogno americano, passano sì attraverso le armi poetiche tradizionalmente riconosciute a Ferlinghetti: l’ironia, la leggerezza e la giocosità (coi tanti ricordi dei giochi d’infanzia che ne derivano), il gusto del paradosso, certo funambolismo dell’immaginario, ma anche espressivo («il poeta come un acrobata/ si arrampica sui versi»), che fa pensare ad Apollinaire o al surrealismo.
Tutto questo è senz’altro vero. Eppure ciò che più conferisce a queste poesie la forza di affrontare i grandi temi e scenari politico-sociali è la partenza dal basso, in medias res, cioè da un discorso che si svolge sempre e comunque ad altezza d’uomo. Se vogliamo, è il punto di vista del cane che nella poesia omonima ( Ca
ne, appunto) «trotterella libero per strada / e vede la realtà». Passa anzitutto di qui, per questo orizzonte di umanità e fraternità condivisa, l’azione poetica, ch’è anche un’utopia, di Ferlinghetti e dei suoi compagni di strada della Beat Generation: «E intonarono le loro sante sacrileghe voci/ a una società spalancata/ che non esisteva ancora».
Contaminazioni La scrittura si confonde con la vita, Ezra Pound s’intreccia con una partita di baseball, Yeats si cala nello scenario cittadino