Corriere della Sera - La Lettura
A loro insaputa
Il caso Banksy protesta per una mostra a Mosca organizzata senza che ne fosse informato. Altri street artist non sono stati interpellati per esposizioni su di loro. Ma un’opera è destinata, per la sua stessa natura, a vivere al di là della volontà del creatore
Per una controstoria delle mostre. Lo scorso 2 giugno alla «Casa centrale degli artisti» di Mosca è stata inaugurata un’ampia personale di Banksy. Qualche settimana fa il famoso street artist, sul suo profilo Instagram, ha ricevuto un post. Un anonimo follower gli ha inviato una fotografia della facciata della «Casa» occupata da un grande banner con la scritta Banksy. E ha aggiunto: «È una mostra sul tuo lavoro a Mosca. Si fanno pagare fino a 20 euro per entrare». Banksy ha replicato: «Che diavolo è?». E ha aggiunto: «Sai che non ha niente a che fare con me, giusto? Non faccio pagare le persone per vedere la mia arte». Il confronto a distanza è proseguito. L’ignoto fan: «Penso che dovresti fare qualcosa, non puoi far uscire un comunicato stampa?». La celebrity di Bristol: «Non sono sicuro di essere la persona migliore per lamentarmi della gente che mette le foto senza ottenere il permesso». Come reagire a una simile situazione? L’utente di Instagram: «Pubblicando lo screenshot di questa conversazione?».
Banksy accoglie il consiglio e decide di riprodurre questa chat sul proprio profilo. Tanti i commenti, la maggior parte dei quali avanza dubbi sulla veridicità del dialogo. Una fake news? L’ennesima trovata di un artista che usa i social per fare arte, per commentare momenti di cronaca, ma anche per smascherare i riti dell’art sy
stem? Per Banksy e per gli street artist è una consuetudine. In giro per il mondo, spesso, si organizzano mostre a loro insaputa (forse). Anche in Italia.
Ancora Banksy. 2016: a Roma, a Palazzo Cipolla, si tiene War, Capitalism, & Liberty, in cui sono ordinati lavori provenienti da collezionisti e da galleristi. Sempre 2016: Bologna, nel Museo della Storia di Genus Bononiae, è inaugurata la controversa Street Art. Banksy & Co., dove sono esposte anche opere staccate dai muri della città «salvate dalla demolizione e preservate dall’ingiuria del tempo». Una mostra che, come commentò il collettivo di scrittori Wu Ming, sdoganava e imbellettava «l’accaparramento dei disegni degli street artist, con grande gioia dei collezionisti senza scrupoli e dei commercianti di opere rubate alle strade». Intanto, per il prossimo autunno, al Mudec di Milano, si prepara un’antologica che ripercorrerà l’avventura dell’irrequieto artista britannico. Un evento, come si legge sul sito del Mudec, «non ufficiale e non autorizzato da Banksy».
Difficile imbattersi in episodi simili nella storia delle mostre. Giusto o sbagliato? Hanno ragione o torto Banksy e i suoi compagni a smarcarsi da iniziative rivolte a musealizzare e a storicizzare le loro indocili «scritture corsare»? Certo, la loro è un’arte anti-museale, che mira a portarsi al di là dei confini della cornice del quadro, per disseminarsi ovunque. «Le strade sono i nostri pennelli e le piazze le nostre tele», aveva scritto Majakovskij agli inizi del Novecento. Una profezia che sembra essere stata compiuta proprio dagli street artist (e dai graffitisti), i quali, con lo spray, tracciano comunicazioni selvagge su facciate di palazzi e su vagoni di treni. Illuminazioni policrome, capaci di catturare gli sguardi — talvolta l’irritazione e l’indignazione — dei cittadini. Sfidando le regole del decoro e dell’ordine pubblico. E ridefinendo il volto del paesaggio urbano.
Queste intenzioni rivelano il bisogno di sfidare ogni mediazione. L’arte di Banksy & C. non ricerca nessun appoggio da parte di direttori di musei, critici, galleristi. Dispositivo straordinario per alimentare, in chi vive in un determinato quartiere, senso delle radici, coscienza civile, rinnovata dignità, consapevolezza di appartenere a una comunità; mira a farsi palestra del pensiero, libera, gratuita, aperta a tutti, disponibile a trasformarsi in continuazione. Abita ora un museo ubiquo, senza biglietti. Nata come pratica politica e antagonista, nel tempo, però, la street art ha cambiato identità, situandosi in una terra di nessuno, tra illegalità e istituzioni. Per un verso, gli animatori di queste poetiche si comportano da incendiari e da luddisti che vogliono sottrarsi a ogni strumentalizzazione mercantile. Si pensi a Blu che, per non farsi «normalizzare», in occasione della rassegna bolognese del 2016, ha deciso di cancellare i pezzi dipinti proprio a Bologna in quasi vent’anni.
Per un altro verso, un po’ come i loro predecessori de- gli anni Ottanta (Haring e Basquiat), gli street artist si muovono con calcolo e furbizia, per suscitare attenzione e curiosità dal sistema dell’arte. Pur indossando la maschera dei dissacratori, essi si mostrano sensibili alle sirene del mercato, che da sempre tende ad accogliere, a nutrirsi e a cannibalizzare i linguaggi d’avanguardia. Accade così che Banksy, percorrendo sentieri alternativi, è entrato nell’art world: i suoi lavori vengono venduti online, battuti all’asta e messi in commercio da alcune gallerie; si dice che realizzi anche opere uniche — e non multipli — per una cerchia ristretta di facoltosi collezionisti; suoi graffiti strappati dai muri sono venduti a migliaia di sterline. Per frenare falsi e truffe, Banksy ha aperto addirittura un sito (Pest Control).
Il passo successivo: l’ingresso nei musei. In tante città del mondo si organizzano mostre con opere (forse) «rubate» degli street artist; presentate (forse) contro la loro volontà. All’interno di questi contesti, firmati e incorniciati su pareti bianche, i dipinti dei black bloc dell’arte diventano qualcosa di diverso. Le iconografie — che mescolano impegno, ironia, melanconia — sono le stesse. Anche le tecniche sono le medesime (stencil, spray). Ma l’effetto è diverso. Quelle opere sembrano smarrire la forza originaria. Non hanno più la potenza di inattesi inciampi urbani. Diventano «normali» quadri o al massimo reliquie di un invisibile corpo santo.
Lo stesso destino è toccato a tanti reperti di Haring o di Basquiat dapprima depositati su cassonetti dell’immondizia, su muri o su vagoni della metropolitana e, poi, finiti nelle più importanti gallerie. Eppure, istituzionalizzazione e storicizzazione sono approdi necessari. Nate dalla volontà, dalla sapienza e dal talento di un creatore, le opere d’arte — di Caravaggio o van Gogh, di Picasso o de Chirico, di Haring o Banksy — sono «condannate» a essere sempre indipendenti dal loro creatore. Un po’ come Pinocchio per Geppetto. Per esistere e per comunicare, possono stare in una casa o sulla facciata di un palazzo ma possono anche migrare in una galleria e in un museo. Inoltre, possono essere collocate anche in luoghi non graditi né previsti dal loro stesso autore. La questione più delicata è che questo passaggio sia a fini non commerciali ma autenticamente conoscitivi. Infine, scrigni di «occasioni imprevedibili e velate» nascoste nelle pieghe dei colori e delle materie (per servirci delle parole di Roberto Longhi), quelle opere, per parlare e per esprimersi, hanno sempre bisogno di critici, che ne rivelino il pensiero segreto, i riferimenti impliciti, le assonanze meno evidenti, i rimandi agli scenari culturali-economici-politici. E le accostino ad altre opere, iscrivendole dentro quelle complesse macchine narrative e visive che sono le mostre. Palinsesti in molti casi «postumi». Progettati e costruiti dopo la morte degli artisti. O senza tenere conto delle scelte degli artisti stessi. A loro insaputa, appunto.
Meccanismi Gli street artist, pur indossando la maschera dei dissacratori, si mostrano sensibili alle sirene del mercato, che tende a cannibalizzare i linguaggi d’avanguardia. Poi arrivano i musei...