Corriere della Sera - La Lettura
SEMBRAVA UNA PATRIA ERA IL KGB
La spia è il secondo mestiere più antico del mondo, ma i servizi segreti che forniscono ispirazione ai romanzi spionistici e alle nostre sporadiche paranoie — cioè gli uffici governativi dotati di immense risorse tecnologiche — sono un fenomeno moderno. Fino alla Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti non c’era un unico servizio di intelligence e l’Esercito e la Marina avevano ognuno un proprio dipartimento, concentrato principalmente nella decriptazione di codici e messaggi cifrati. La Cia venne infatti fondata nel 1947. Le agenzie europee furono formate prima, ma erano relativamente piccole e facevano affidamento sulle spie tradizionali, quegli uomini in trench che qualsiasi lettore di storie di spionaggio precedenti al conflitto mondiale conosce bene.
Alcuni di questi dipartimenti sarebbero diventati leggenda, almeno nell’immaginario popolare, per esempio l’MI6 inglese e il Mossad israeliano, ma nessuno di essi è mai stato potente come il Kgb. Qualsiasi siano le iniziali usate per identificarli (Nkvd, Kgb, Fsb), i servizi segreti russi hanno sempre operato come uno Stato nello Stato: sono stati strumento della politica governativa (e spesso anche del terrore governativo), una forza d’élite che si è nutrita della sua stessa mitologia.
Nel suo periodo d’oro, gli anni Trenta e Quaranta, il Kgb riuscì a infiltrarsi nei governi occidentali con una pervasività senza precedenti, grazie al reclutamento di agenti anch’essi occidentali ma di fede comunista. Durante la Guerra fredda, i servizi segreti di entrambi i versanti della Cortina di ferro operarono come truppe di terra e le spie divennero praticamente dei soldati. Poi, nel 1991, l’Unione Sovietica è collassata e ha smesso di essere una superpotenza. La Guerra fredda era finita.
O almeno così abbiamo pensato.
Come adesso tutti sanno, la Russia sta creando problemi ovunque: si immischia nelle elezioni degli altri Paesi, fa azioni di hackeraggio di sistemi informatici, si serve delle donne in pieno stile Guerra fredda, facendone delle «trappole di miele». Si dice persino che degli ex agenti siano stati assassinati con il gas nervino, un colpo di scena così antico e abusato che qualsiasi romanziere ci penserebbe due volte prima di ricorrervi. La Guerra fredda, in breve, è tornata in grande spolvero. Tuttavia il mondo è andato avanti, e le ha dato una forma diversa. Non viviamo più in un’epoca di scontro ideologico e i modelli economici non combattono più per primeggiare (chi considera ormai la Russia come un esempio da seguire?). Le armi in gioco sono quelle della cibernetica. Anche gli obiettivi stessi della guerra sono indefiniti e confusi. Destabilizzare l’Occidente e insinuare il dubbio sulle sue istituzioni? Distogliere l’attenzione da un’economia destinata al disastro promuovendo il sogno di un impero da riconquistare? O solo avanzare impettiti sul palcoscenico del mondo ed essere presi di nuovo sul serio? Che cosa significa esattamente vincere in questa nuova versione di un vecchio conflitto?
Nel 1961, anno in cui è ambientato il mio nuovo libro, Omicidio a Mosca, la Guerra Fredda era al culmine e il Kgb giocava la sua partita più importante. Volevo scrivere delle spie comuniste inglesi e americane che, una volta smascherate, sono fuggite a Mosca. Dopo aver sacrificato tutto per la fede comunista, che cosa hanno trovato nel Paese che l’ha vista nascere? Com’era per loro la vita in Russia? Nel 1961 i rifugiati politici potevano ancora credere di essere dal lato giusto della storia. Il prestigio internazionale dell’Unione Sovietica era alto e il lungo e sclerotico declino e collasso non era ancora nemmeno all’orizzonte. Mosca era cupa e povera ma il peggio del terrore staliniano era passato e il tenore di vita stava (lentamente) migliorando. Eppure i rifugiati politici avevano la disturbante sensazione di essere