Corriere della Sera - La Lettura
L’America smentirà le profezie dei declinisti
Si tratta di un declino inevitabile? O solo di una fase della storia a cui, presto, potrebbe seguire una fase del tutto diversa? Negli anni Ottanta del secolo scorso circolava l’idea che la potenza americana avesse ormai solo un grande futuro dietro alle spalle. Lo storico Paul Kennedy nel 1987 pubblicò un libro di successo, Ascesa e declino delle grandi
potenze (Garzanti, 1989). Nella storia moderna, dal Cinquecento in poi, egli era andato alla ricerca delle cause della decadenza delle potenze del passato. Gli Stati Uniti, secondo lui, avrebbero conosciuto la stessa sorte toccata, in successione, all’impero di Carlo V, alla Spagna, all’Inghilterra. I segni della decadenza erano già ben visibili.
Le tesi di Kennedy, negli anni seguenti, vennero riprese da molti altri studiosi. Si affermò una corrente intellettuale che venne definita «declinista», la quale dava per sicuro un drastico ridimensionamento della potenza americana a breve termine. Quella corrente venne in seguito travolta dagli eventi: la fine della guerra fredda, l’implosione dell’Unione Sovietica. Altro che declino, dissero subito in tanti. È invece l’alba di un nuovo «secolo americano». Dal bipolarismo dei tempi della guerra fredda — dissero — siamo passati all’unipolarismo. Non ci sono più le due superpotenze che si fronteggiano. Ne è sopravvissuta una soltanto ed essa si appresta ad ereditare il mondo.
Ora il vento è girato di nuovo. Ora, secondo molti, è diventato evidente che la diagnosi di Kennedy di quarant’anni fa — considerata sbagliata dopo la fine della guerra fredda — sbagliata non era. La fine dell’Urss ha solo ritardato il declino americano.
L’elenco degli eventi che spiega il ritorno delle teorie decliniste è lungo: la Grande Depressione economicofinanziaria iniziata nel 2007-2008 proprio negli Stati Uniti, la crisi da overstretching (divario fra gli impegni e le risorse necessarie a sostenerli) che ha colpito la politica estera di Washington dopo l’11 settembre, con il coinvolgimento in costosissime guerre (Afghanistan, Iraq), l’emergenza di nuove potenze (Cina in testa), i nuovi orientamenti dell’opinione pubblica americana, non più disponibile a pagare il costo che comporta il primato statunitense.
Per i declinisti della seconda ondata, tanto la presidenza Obama quanto la presidenza Trump sono espressioni e conferme del declino.
Circolano diverse teorie sui processi storici scanditi dall’ascesa e dalla successiva decadenza delle grandi potenze. Con qualche diversità di accenti, condividono, più o meno, la seguente interpretazione degli eventi. A seguito di una guerra globale (guerre napoleoniche, Seconda guerra mondiale), emerge una potenza che impone la sua egemonia. Essa costruisce anche un sistema internazionale di «regole» che è una proiezione esterna delle sue tradizioni culturali e istituzionali. Per una lunga fase l’egemonia, nonché le regole internazionali ad essa connesse, portano vantaggi sia alla potenza egemone che agli altri Paesi: generano ordine, pace, prosperità. L’egemone offre «beni pubblici» (sostegno al commercio, stabilità monetaria, sicurezza sui mari, eccete- ra) agli altri Paesi in cambio dell’accettazione della sua egemonia. È uno scambio virtuoso: se ne avvantaggiano quasi tutti.
Da un certo momento in poi però l’ordine comincia a vacillare. Il suo stesso successo ha creato i presupposti del successivo fallimento. Grazie all’ordine assicurato dalla potenza egemone, altri Paesi, un tempo poveri e deboli, decollano economicamente. Fino a che alcuni di loro non diventano così potenti da poter contestare le regole imposte dall’egemone. Intervengono cambiamenti anche dentro l’egemone, dentro la sua «pancia»: la sua opinione pubblica, che per lungo tempo ha appoggiato la politica egemonica e che, consapevole dei vantaggi, si era accollata una parte dei costi dell’egemonia, ora non ne vuole più sapere. Anche perché, quando un ordine internazionale vacilla e molti Paesi contestano l’egemonia, i suoi costi salgono rapidamente. I cittadini della potenza egemonica non sono più disposti a sostenerli.
L’egemone entra così in una fase di irreversibile declino. Secondo molti fra coloro che condividono le idee sopra esposte, così come una guerra generale ha a suo tempo fondato la potenza dell’egemone, una nuova guerra generale, probabilmente, farà emergere le future potenze egemoniche. Si tratta di una teoria (o di un grappolo di teorie), come si vede, tributaria della concezione ciclica della storia. Il difetto consiste in un eccesso di determinismo.
Una variante di questa teoria è detta dell’«egemone liberale». L’egemone è una potenza marittima, capitalista e democratica. L’ordine essa che costruisce dà luogo alla diffusione di democrazie politiche e a una crescita spettacolare degli scambi intercontinentali (la «globalizzazione»). Il declino dell’egemone porta con sé diffusione dell’autoritarismo politico e riduzione degli scambi di mercato (protezionismo economico). Oggi, secondo questa variante, il declino americano e la conseguente nascita di un mondo multipolare comportano la crescente influenza internazionale di grandi potenze a regime autoritario (Cina) o illiberale (Russia), la riduzione del numero delle democrazie nel mondo, la perdita di slancio della globalizzazione economica. Una conseguenza consiste nella rivincita delle «società chiuse» (illiberali e a economia statalizzata) sulle «società aperte». Per chi adotta questa prospettiva, una prova della sua validità consiste nel fatto che gli ideali tipici della società chiusa oggi si vanno diffondendo anche nel mondo occidentale.
Queste tesi non sono condivise da tutti. Ci sono coloro che ne contestano il determinismo. Secondo quanto scrive lo scienziato politico Joseph Nye, nel suo Fine del
secolo americano? (2015, tradotto dal Mulino nel 2016), chi dà per spacciati gli Stati Uniti ha venduto troppo presto la pelle dell’orso. Da un lato, gli Stati Uniti continuano, secondo Nye, ad avere — insieme a molti problemi, anche gravi, ma superabili — formidabili risorse ancora da spendere. Dall’altro lato, le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, si portano dietro difficoltà e problemi gravissimi. Non è detto, secondo Nye, che non possa riprendere quota, sia pure con gli adattamenti che le circostanze impongono, il primato, l’egemonia statunitense.
Secondo lo storico Giovanni Orsina (intervistato dal «Foglio» il 24 agosto), Roma è definitivamente caduta, i barbari hanno preso il potere. Orsina si riferiva all’Italia e all’avvento del governo gialloverde, ma il suo richiamo alla storia dell’Impero romano potrebbe valere per l’intero mondo occidentale. È infatti nella capitale dell’impero che si è insediato Donald Trump. Forse ha ragione Orsina richiamando il precedente del 476 dopo Cristo, quando il barbaro Odoacre depose l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo. Ma forse il parallelo storico più appropriato non è con il 476, ma con le vicende del III secolo: l’Impero romano attraversò allora una crisi gravissima, da cui però si risollevò sopravvivendo ad essa per altri due secoli e mezzo. Fosse vera la prima eventualità, le teorie dei declinisti risulterebbero corrette. Chi però non apprezza il determinismo storico, chi pensa che il futuro sia aperto, non già interamente scritto in anticipo, preferisce scenari e paralleli storici diversi.
L’idea dello storico Paul Kennedy che gli Usa fossero condannati al tramonto ha ripreso quota per via della crisi finanziaria e dei recenti insuccessi militari di Washington. Tuttavia si tratta di una visione troppo deterministica: il futuro è sempre aperto e le potenze autoritarie come la Cina hanno problemi non meno gravi di quelle liberali. Forse qualcuno sta vendendo troppo presto la pelle dell’orso