Corriere della Sera - La Lettura
I miei uomini e donne hanno sete... d’acqua, vita, giustizia
81 anni, stupì Margaret Atwood con il romanzo d’esordio. Oggi è considerata erede di Virginia Woolf In Italia arriva il primo volume di un ciclo di dieci che è un racconto corale di malati, spacciatori, bambini, prostitute
Marie-Claire Blais pubblicò il suo primo romanzo a vent’anni, nel 1959, e Margaret Atwood, che ne aveva 19, lo lesse subito. La Belle Bête, storia di una ragazza perduta, la inquietò per «la violenza, gli assassinii, l’incesto, la scrittura di un’intensità allucinatoria così rara nella letteratura canadese dell’epoca...», tanto che al confronto con quella sua coetanea si sentì immatura. «Margaret Atwood — dice Blais al telefono a “la Lettura” — è stata molto generosa a dire queste cose. Siamo cresciute insieme, ma nella letteratura canadese a quel tempo non c’era molta comunicazione tra autori anglofoni e francofoni».
Negli ultimi cinquant’anni Blais, nata in Quebec e trasferitasi nel 1963 negli Usa con una prestigiosa borsa di studio, ha pubblicato oltre 40 opere di fiction, non fiction, poesia, teatro e meritato alcuni dei più alti riconoscimenti della francofonia. Considerata un’erede di Virginia Woolf, è stata candidata al Nobel. Dagli anni Settanta in poi la sua scrittura è diventata sempre più impressionistica, «ellittica», focalizzata sull’interiorità, fino al ciclo Soifs: un racconto in dieci libri che scorrono come correnti in un Oceano, le virgole come onde, passando da un personaggio all’altro senza paragrafi e con rarissimi punti.
L’ultimo di quei dieci libri uscirà in francese il prossimo autunno. Il primo, che risale al 1995, viene ora pubblicato in Italia da Safarà Editore col titolo La sete.
Il suo racconto corale ha l’effetto di unire i personaggi — malati terminali di Aids, scrittori, spacciatori, medici, preti, prostitute, rifugiati, bambini — in un destino intrecciato, comune.
«Pensiamo di essere soli in una stanza, ma non è così, in tutti i drammi della Terra non siamo soli».
Tutti i suoi personaggi hanno sete di acqua, di vita, di giustizia. Ma proprio l’universalità di questo bisogno fa notare le diseguaglianze spaventose.
«È una sete spirituale per alcuni, letterale per altri come i fratelli dell’esule cubano Julio, vestiti negli abiti migliori dalla mamma cattolica perché fossero bellissimi all’arrivo dopo la traversata del mare, che muoiono sulla zattera bevendo l’acqua salata. Ci sono persone soddisfatte e persone deprivate. Non parliamo abbastanza di chi resta ai margini».
L’attenzione agli ultimi, agli emarginati è una costante nella sua opera. Così anche in uno dei suoi primi romanzi, «Una stagione nella vita di Emanuele», ambientato nel Quebec rurale e pubblicato nel 1967 da Bompiani.
«È una storia che non rappresenta il Quebec, ma un qualsiasi passato in cui una famiglia patisce la povertà e una religione oppressiva, come si può ancora vedere oggi nel mondo. Il Quebec moderno non ha niente a che fare con questo, che è un libro simbolico. Il poeta quebechese Guy Cloutier descrisse il Quebec come un’America di lingua francese, con animali domestici, artisti e scrittori magnifici. E anch’io lo vedo così».
«La sete» invece è ambientato su