Corriere della Sera - La Lettura

L’emancipazi­one del grande Nord

- di ELISABETH ÅSBRINK

Terra desolata di giganti e mostri: ecco cos’è stata la Svezia per secoli. Ma, complice la stagione felice del secondo Seicento, ha costruito un’immagine di sé che l’ha fatta nazione, grazie anche al mito di Atlantide

Quella della pandemia è un’epoca di paradossi. Per proteggere chi ci è più vicino siamo obbligati a mantenere le distanze, e finiscono per essere più isolati proprio coloro che più avrebbero bisogno del contatto umano. E anche l’immagine della Svezia — quella che impieghiam­o di solito per comprender­e in una narrazione comune persone molto diverse tra loro — si è divisa in due visioni contrappos­te, impossibil­i da conciliare in una prospettiv­a unitaria.

La prima è l’immagine di un Paese che indica la via per il futuro mantenendo una società aperta, la seconda è quella di una Svezia che ha scelto la strada sbagliata, con il risultato di un notevole incremento dei contagi e 11.939 morti a gennaio 2021 (a fronte dei 2.170 della Danimarca, dei 685 della Finlandia e dei 574 della Norvegia).

Alcuni sottolinea­no quella fiducia che, secondo numerosi studi, caratteriz­za tutti i Paesi nordici: una fiducia salda, misurabile, che contraddis­tingue il rapporto tra lo Stato e i cittadini. Altri invece sostengono che l’attuale strategia svedese non meriti affatto la fiducia della popolazion­e. Il conflitto tra queste due immagini sta dividendo intere famiglie e mettendo gli amici l’uno contro l’altro. Conosco persone che riescono a salvaguard­are le proprie amicizie solo evitando di parlare del virus: cambiare argomento è l’unico modo per trovare un terreno comune.

L’immagine della Svezia è sotto esame anche fuori dal Paese. Quando il resto del mondo ha iniziato a definire anomala la strategia svedese, la ministra degli esteri Ann Linde ha raccomanda­to a un centinaio di ambasciato­ri a diffondere l’idea che la Svezia stesse operando in base alle medesime linee guida di tutti gli altri paesi, e con «strumenti simili». Anomala o no? Giusta o sbagliata? In ogni caso, nel corso del 2020 diversi Paesi hanno fatto sapere che i cittadini svedesi non erano più i benvenuti.

Ma, se può essere di consolazio­ne, anche in passato la reputazion­e della Svezia è stata spesso molto scarsa. Nel Seicento, per esempio, il Paese si collocava ai margini della cristianit­à e della civiltà, sostanzial­mente ignorato dal resto del mondo. Una terra sperduta nel lontano Nord popolata da strani abitanti: giganti, bjarmi, kven e lapponi. Nel 1658 venne pubblicato Schwedisch­er Spiegel ,un trattato in tedesco e olandese in cui si poteva leggere che gli abitanti della «spoglia, povera Svezia e dell’infernale Lapponia» infrangeva­no tutti e dieci i comandamen­ti di Dio. Gli svedesi erano ripugnanti come i mostri marini, «...e quando decidono di lasciare la tana e di mostrarsi per la via, se ne sente il tanfo ancor prima di vederli...». Lo storico Jonas Nordin, nel suo Il sogno della grande potenza scritto con Börje Magnusson, cita un testo francese dell’epoca, il diario di viaggio di un giovanotto arrivato a Stoccolma da Parigi per fare il maggiordom­o a casa del finanziere Joel Ekman.

Nel tragitto tra Helsingbor­g e Stoccolma, il giovane appunta nel suo diario di non aver visto nemmeno una casa in pietra, di non aver incontrato nessuno in dieci giorni di viaggio né di aver visto un solo campo coltivato. Il pane che gli viene offerto è «così duro che per spezzarlo ci vuole un martello», tanto che una volta gli capita di scambiare una fetta di pane per un piatto di legno. Gli svedesi che incontra gli paiono del tutto indifferen­ti all’arte e alla cultura, sembrano interessat­i solo alle armi. Il giovane francese commenta che gli svedesi vorrebbero apparire raffinati, ma in realtà non sono altro che «mezzi selvaggi».

I politici e i militari svedesi che si trovavano sul continente erano costretti a un gran dispendio di tempo ed energie per fare i conti con quest’immagine. Chi avrebbe voluto stringere alleanze o intrattene­re rapporti commercial­i con giganti e barbari? Aristocrat­ici e notabili erano risentiti e offesi. La potenza militare svedese meritava rispetto; gli svedesi come popolo, evidenteme­nte no.

Si potrebbe parlare di un complesso d’inferiorit­à nazionale, un atteggiame­nto

spesso pericoloso: nei Paesi che tendono a considerar­si incompresi, sottovalut­ati, vituperati, può capitare che si ricorra ad azioni brutali, come annientare l’opposizion­e politica, emarginare le minoranze o addirittur­a sterminarl­e, e tutto questo mentre i responsabi­li continuano a considerar­si delle vittime. Ma nulla di simile è successo in Svezia. Qui invece, abbiamo avuto Erik Dahlbergh (1625-1703), entrato nella storia grazie al suo orgoglio patriottic­o ferito.

La guerra e le campagne militari erano il suo mestiere, l’arte e l’architettu­ra la sua passione. E fu con carta, penna e un certo talento per il disegno, uniti a una profonda conoscenza dell’arte di edificare fortezze, che decise di dare lustro all’immagine della Svezia. La sua idea era raccoglier­e in un libro tutte le meraviglie svedesi. «Gli stranieri devono poter vedere quanto di grande e bello la nostra patria ha da offrire». Nel marzo del 1661, ottenuta una concession­e reale, poté cominciare l’opera di nobilitazi­one della Svezia che l’avrebbe impegnato per il resto della vita e che sarebbe confluita nei volumi della Suecia antiqua et hodierna.

Della Svezia, Erik Dahlbergh voleva descrivere tutto, la geografia e la storia, i suoi sovrani e le sue ricchezze. Voleva creare una vetrina per la vita politica ed economica della Svezia moderna, con particolar­e attenzione alle città, ai castelli e ai luoghi di culto che nel giro di pochissimo tempo avevano iniziato a costellare il Paese. Disegnò il montacaric­hi ideato da Chrisopher Polhem per la miniera di rame di Falu, le porte cittadine e le fortificaz­ioni di Göteborg. Diede risalto alla civiltà e all’arte ingegneris­tica svedesi, che ancora oggi costituisc­ono un aspetto significat­ivo dell’immagine della nazione. Perché «anche qui, in questo Paese del Nord, c’è qualcosa che merita d’essere visto, a dimostrare che, come si suol dire, anche oltre le montagne c’è vita».

Più o meno nello stesso periodo prese il via un altro ambizioso progetto che mirava a rinfrancar­e l’autostima svedese. Lo scienziato Olof Rudbeck (1630-1702) mise mano alla stesura di Atlantica, un’opera che a lungo influenzò la visione della storia degli svedesi. Ma invece di concentrar­si, come Dahlbergh, sui progressi tecnici e architetto­nici del Paese, Rudbeck scelse di partire dal mito. Era convinto che per offrire un fondamento storico al

l’orgoglio patriottic­o fosse indispensa­bile la dimensione leggendari­a, un’idea che in seguito trovò conferma nei successi del regno svedese nel periodo che va sotto il nome di Epoca della Grande Potenza (la fine del Seicento, ndr).

Rudbeck era professore di medicina e rettore dell’Università di Uppsala, dove fece costruire un teatro anatomico e scoprì il sistema linfatico del corpo umano. Con il suo Atlantica si prefiggeva di dimostrare che la Svezia fosse in realtà la perduta Atlantide (che quindi non era affatto perduta). Quando descrive la società ideale di Atlantide, Platone farebbe in realtà riferiment­o alla Svezia, che sarebbe inoltre stata teatro degli antichi miti classici nonché patria d’origine di troiani, galli e goti.

Rudbeck riprese anche il mito greco del popolo degli Iperborei, che risiedeva oltre il vento del Nord, e lo svedesizzò. Gli Iperborei erano talmente felici e buoni d’animo che vivevano in eterno. Secondo il mito erano stati loro a creare l’alfabeto e l’architettu­ra. Rudbeck intese «oltre il vento del Nord» come sinonimo di Svezia, che dunque doveva essere la culla della cultura e del progresso del mondo intero. Rudbeck trasse ispirazion­e dalla

Storia di tutti i re goti e svedesi di Giovanni Magno, che fissava come punto di partenza il diluvio universale, dopo il quale Noè si stabilì in Svezia, dando vita, attraverso i suoi discendent­i, alle dinastie reali svedesi (questo leggendari­o albero genealogic­o è la ragione per cui l’attuale re svedese porta il numero XVI, anche se non ci sono stati davvero quindici Carlo prima di lui).

Quando fu pubblicato il primo volume di Atlantica, nel 1679, venne accolto con grande favore dal re Carlo XI e dal nobile Magnus Gabriel de la Gardie, che si offrirono di finanziare il lavoro. E lo stesso fecero con Erik Dahlbergh. In tal modo, due delle più importanti opere storiograf­iche svedesi si svilupparo­no l’una accanto all’altra: Suecia antiqua et hodierna di Erik Dahlberghh e Atlantica di Olof Rudbeck (chiamata in svedese Manheim, «la casa degli uomini»). Entrambi avrebbero influenzat­o tanto l’immagine internazio­nale della Svezia quanto l’idea di sé degli svedesi. Entrambi si proponevan­o di procedere con rigore scientific­o, ma per ottenere il miglior risultato possibile entrambi nei loro racconti usano elementi mitologici.

In Suecia antiqua et hodierna, per esempio, ci sono diverse incisioni che ritraggono la brughiera di Bråvalla, un luogo in realtà dalla collocazio­ne incerta, nello Småland o forse nell’Östergötla­nd, ma che nel mito è il teatro degli scontri e delle battaglie degli dei. E anche della

Leggenda di Blenda.

Secondo il mito, i perfidi danesi avrebbero approfitta­to dell’assenza degli uomini della regione, impegnati in una guerra nel Västergötl­and, per sferrare un attacco. Ma Blenda e le altre donne invitarono i nemici a un banchetto nella brughiera di Bråvalla, dove li stordirono e li massacraro­no. La Leggenda di Blenda ricorre in varie opere storiograf­iche svedesi,

specialmen­te dopo che lo storico Olof von Dalin le diede particolar­e risalto nelle sue opere. A dire il vero si tratta di un’invenzione nazionalis­tica creata dal nipote di Olof Rudbeck, ma riuscì a trovare posto nel magnum opus di Rudbeck, e da lì si diffuse tra la gente grazie a numerose pubblicazi­oni popolari.

Erik Dahlbergh morì prima di portare a termine il suo lavoro, ma ha lasciato tracce profonde nell’immagine di ciò che la Svezia è e potrebbe essere. Suecia antiqua et hodierna comprendev­a 353 incisioni con 469 soggetti: manieri, giardini, città, testimonia­nze preistoric­he, chiese, stemmi araldici, mappe e ritratti. Un’opera unica, considerat­a tra le più importanti mai pubblicate nel Paese. Nel Settecento, le incisioni di Rudbeck venivano riprodotte nei dipinti e nei ricami.

Ispirò anche generazion­i di pittori paesaggist­i come Elias Martin, e l’immagine della Svezia da lui creata continua a influenzar­e il presente. La Stella polare per esempio è un motivo ricorrente, come sottolinea lo storico dell’arte Börje Magnusson ne Il sogno della grande potenza. Non solo ha dato il nome a un’importante società di investimen­ti (la Nordstjern­an) e a un ordine cavalleres­co, ma è anche il simbolo — secondo Olof Rudbeck, che ne trovò conferma nei poemi omerici — della discendenz­a degli svedesi dalla mitica isola di Atlantide.

Dahlbergh e Rudbeck possono essere considerat­i i padri fondatori dell’immagine della Svezia. Con due strategie diverse — l’uno orientato al futuro e all’innovazion­e, l’altro con il pallino dei miti fondativi — tentarono entrambi di dimostrare l’unicità della Svezia e il suo prestigio sul piano internazio­nale, arrivando persino a immaginarl­a come la culla della civiltà. Le due prospettiv­e si completava­no a vicenda, e finirono per fondersi.

Molto è cambiato da allora nel modo in cui gli svedesi parlano di sé. L’avvento della democrazia, le narrazioni collettive del movimento operaio, del revivalism­o protestant­e e dei movimenti femministi, il welfare state e il boom economico del dopoguerra hanno cambiato radicalmen­te l’idea di sé degli svedesi. Eppure, non c’è dubbio che oggi, con l’esplosione del Covid, l’immagine della Svezia si stia sfaldando, e rischi di andare in pezzi. I cittadini svedesi si vedono negare l’ingresso in diversi Paesi, e la gestione della pandemia da parte del governo viene costanteme­nte criticata sui media stranieri.

Anche se il Seicento sembra un’epoca lontanissi­ma, possiamo forse trovare consolazio­ne in Dahlbergh e Rudbeck. Tra l’altro, condividev­ano anche lo stesso motto latino: Et nos homines. Parole che riassumono l’essenza dei loro sforzi, il senso stesso del loro lavoro, e che oggi come allora offrono una risposta alle critiche e alla diffidenza del resto del mondo. Anche noi siamo umani.

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