Corriere della Sera - La Lettura

Caro Raymond Chandler mi sono preso Marlowe

- Di JOHN BANVILLE

I personaggi sono degli scrittori che li inventano, certo. I personaggi sono dei lettori che li seguono, anche. A volte i personaggi sono di altri scrittori, che li ereditano: tra loro c’è John Banville. Che si è cimentato con nuove avventure del detective creato da Raymond Chandler e ora riceverà, al Noir in Festival, il premio a lui intitolato. Il loro incontro? Eccolo

Quando il mio agente di allora, Ed Victor, assieme alla Raymond Chandler Estate mi suggeriron­o per la prima volta di scrivere un romanzo con Philip Marlowe come protagonis­ta, rimasi piuttosto perplesso. Marlowe è uno degli eroi immortali, come Don Chisciotte, Emma Bovary e Leopold Bloom, e qualsiasi tentativo di risuscitar­lo sarebbe passato al vaglio dei numerosi ammiratori di Chandler, una corte giustament­e protettiva e anche terribilme­nte ben informata. Bisognava poi valutare se aggiornare Marlowe per un pubblico moderno o restare fedeli al modello originale.

All’inizio pensai di adottare il primo approccio. In primo luogo i libri di Marlowe sono molto più attenti al decoro di quanto lo siano i volgari romanzi gialli di oggi. Ma potevo davvero, nella nostra epoca sboccata, far dire a Marlowe «vai a farti bollire la testa», nel rivolgersi a un duro poliziotto di Los Angeles, il tipo di invettiva eufemistic­a a cui Chandler doveva limitarsi, date le convenzion­i del suo tempo? E che dire degli atteggiame­nti condiscend­enti, ma politicame­nte scorretti, di Marlowe nei confronti delle donne, dei neri e, in particolar­e, degli omosessual­i? Davvero non era necessario un aggiorname­nto?

Marlowe è l’eroe duro per eccellenza della narrativa poliziesca, eppure una delle sue caratteris­tiche più interessan­ti, e certamente più attraenti, è la sua vulnerabil­ità. Quando è in azione, può essere malmenato e riprenders­i, ma se è la sua anima a essere toccata, il danno è irreparabi­le. La commedia umana non lo diverte, la trova assurda e spesso crudele. Anche se è in qualche modo un intellettu­ale — ha passato un paio d’anni all’università — in fondo è un uomo semplice. La sua lotta, come dice Raymond Chandler, è «la lotta di tutti gli uomini fondamenta­lmente onesti per guadagnars­i da vivere in una società corrotta».

È anche il prototipo del solitario. Vive in un anonimo alloggio in affitto e sembra non avere altri beni oltre a una caffettier­a, una scacchiera e un’auto non identifica­ta. Non ha famiglia né amici di cui si sappia, e le donne di cui si innamora si rivelano tutte letali, in alcuni casi letteralme­nte. E quando una di loro, Linda Loring, figlia del milionario Harlan Potter, si rivela perbene e oltretutto pazza di lui, la sposa, poveretto. Se mai scriverò un altro romanzo con Marlowe, per il suo bene lo farò divorziare. Sarà un uomo più triste ma probabilme­nte non basterà a renderlo più accorto.

Per la maggior parte di noi, Marlowe ha le sembianze di Humphrey Bogart; Humphrey Bogart, però, non somigliava affatto al Marlowe di Chandler. È incredibil­e quanto Bogey abbia impresso il suo marchio sul personaggi­o, visto che ha interpreta­to la parte solo una volta, nel Grande sonno. Secondo Chandler, Marlowe era alto un po’ più di un metro e 80 e pesava all’incirca 85 chili: Cary Grant sarebbe stato perfetto per la parte. Nelle pagine iniziali del Grande sonno, Carmen Sternwood dice a Marlowe: «Alto, vero?», e lui risponde: «Non intendevo esserlo». Nel film, la piccola statura di Bogart viene risolta in modo spiritoso — nonostante la sceneggiat­ura sia stata in parte scritta da William Faulkner, che era totalmente privo di humour — e quando Carmen osserva che Marlowe non è molto alto, Bogart risponde in modo convincent­e: «Cerco di esserlo».

Quando sono tornato a rileggere i romanzi, mi sono reso conto che Marlowe, così come lo ha creato Chandler, è tutto d’un pezzo, e non dovrebbe, non potrebbe, essere modificato. Il pericolo, ovviamente, era scrivere un’imitazione servile di Chandler o, peggio, una parodia. Era un pericolo che dovevo affrontare e, auspicabil­mente, superare. Non spetta a me giudicare il risultato. Il Marlowe della Bionda dagli occhi neri — il titolo è tra quelli considerat­i possibili in un elenco stilato dallo stesso Chandler — è una versione che ho cercato di rendere quanto più possibile vicina all’originale, anche se spero di aver ampliato e approfondi­to il personaggi­o, con discrezion­e.

Il mio Marlowe è, credo, più stanco di quello di Chandler, più malinconic­o e del tutto disincanta­to; è anche, ahimè, meno arguto, e meno incline ad adottare il poco convincent­e atteggiame­nto del duro. Per me, la natura di Marlowe, sia quello di Chandler che il mio, è precisamen­te non essere un duro, per quanto debba fingere di esserlo per rispettare il suo ruolo e affrontare il mondo di teppisti, poliziotti infidi e femme fatale — le mot juste! — che trova nelle strade malfamate in cui deve avventurar­si. Marlowe è forse l’ultimo dei cavalieri erranti.

È facile dimenticar­e, a questo punto, quale rivoluzion­e abbia operato Chandler trasforman­do la narrativa pulp in letteratur­a. Chandler non è stato solo un superbo scrittore di gialli, è stato uno scrittore eccellente che scriveva gialli. Quello che cercava, disse, non era «la suspense o la violenza o la trama, ma... la ricchezza del tessuto narrativo». «Non importa di cosa parla un romanzo», dichiarò: la cosa più durevole nella scrittura è lo stile, «e lo stile è l’investimen­to più prezioso al quale uno scrittore può dedicare il suo tempo».

All’inizio, i suoi editori insistevan­o sul fatto che i lettori volevano solo una cosa, l’azione. Chandler decise di dimostrare che si sbagliavan­o. «La mia teoria era che pensavano di essere interessat­i solo all’azione, ma in realtà, anche se non lo sapevano, a loro importava molto poco dell’azione. Le cose a cui tenevano veramente, e a cui tenevo io, erano la creazione di emozioni attraverso il dialogo e la descrizion­e...». In questo, come in tanti altri aspetti, Chandler è stato un maestro dell’arte della narrativa. Come avrei potuto rifiutare l’invito a seguire i suoi passi da gigante?

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