Corriere della Sera - La Lettura
L’economia della biodiversità
Un rapporto commissionato dal governo di Londra mostra la necessità di cambiare subito i criteri di valutazione delle attività produttive e di investire nella rigenerazione dell’ambiente
Il tempo cupo e solitario che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo ha funzionato da cartina di tornasole svelando l’origine della pandemia Covid19: la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità del pianeta. Tra pochi anni sulla Terra saremo dieci miliardi di esseri umani e, se vogliamo evitare altre pandemie, è necessario cambiare le nostre abitudini assai poco rispettose della natura e delle sue componenti ritenute finora, tout court, risorse economiche inesauribili.
È dunque imperativo responsabilizzare i cittadini sulla gravità della «questione ecologica» e rivoluzionare gli stili di vita: un prezioso esempio di metodologia da perseguire per questi fini ci è offerto dal governo britannico, che sta valutando il rapporto di sir Partha Dasgupta (Cambridge University) dal titolo Economia della biodiversità. Il professor Dasgupta è figura nota anche in Italia avendo creato nel 2001, presso una delle nostre istituzioni internazionali più meritorie (il Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam di Trieste), il programma di economia dell’ecologia (ecological economics). Con questa monumentale opera (606 pagine elaborate da biologi, chimici, medici, economisti, giurisperiti, sociologi, psicologi, letterati, filosofi) illustra come siamo giunti all’attuale livello di distruzione della biodiversità e quali azioni dobbiamo intraprendere per ricostruirla.
Se l’idea di leggere 606 pagine spaventa, invitiamo vivamente alla lettura della prefazione, dell’introduzione e dei titoli dei tanti capitoli del documento; già così risulta chiaro che il pianeta Terra è allo stremo. Siamo giunti al momento in cui i manufatti e i prodotti dell’uomo (edifici, plastiche e così via) che ammontano a circa 1,1 teratonnellate (un peso che equivale a 1.100 miliardi di tonnellate) hanno superato la biomassa dei viventi (inferiore a una teratonnellata; vegetali e animali). Le domande di risorse (materie prime, combustibili, legname, alimenti eccetera) e servizi (produzione di ossigeno, assorbimento della anidride carbonica atmosferica, riciclo di nutrienti, capacità di eliminare scorie e così via) che oggi poniamo alla Terra sono tali che dovremmo disporre di quasi due pianeti (1,6 per la precisione) per soddisfarle.
Sulla base di dati numerici affidabili, si dimostra che il capitale «natura» (piante, animali, aria, suolo), il capitale umano (conoscenza, educazione, competenze, attitudini) e il capitale prodotto (macchine, strumenti, edifici, infrastrutture) sono in realtà legati da raffinate architetture di relazione. Il processo di sfruttamento della natura (alla base della produzione del capitale umano e del capitale prodotto) è oggi insostenibile e va dunque ridefinito il parametro del «successo economico». Con raffinate analisi storiche (per la delizia degli economisti) si dimostra che il successo economico, oggi, deve essere valutato non solo sul mero ritorno finanziario dell’investimento, ma anche sul valore dei servizi offerti dal «capitale» biodiversità sottesi a quel guadagno.
Nelle diverse sezioni del documento vengono chiariti, con una quantità di dati impressionante, diversi punti focali. Eccone alcuni.
a) Le nostre economie, mezzi di sostentamento e benessere dipendono dal patrimonio più prezioso di cui siamo dotati, la natura. Questa assicura acqua, ossigeno, cibo e smaltisce rifiuti, assorbe l’anidride carbonica. Di conseguenza la natura è un patrimonio come lo sono il capitale prodotto (per esempio, le strade, gli edifici) e il capitale umano (cioè la salute, la conoscenza, le competenze).
b) L’umanità, collettivamente, ha fallito nella valutazione della sostenibilità rispetto alle ricchezze che offre la natura, al punto che le attuali richieste di risorse e beni superano di gran lunga la capacità del pianeta di fornirli. Tra il 1992 e il 2014 il valore del capitale prodotto (ad esempio macchine ed edifici) si è duplicato mentre è diminuito del 13 per cento quello del capitale umano (lavoratori e loro capacità) e del 40 per cento quello delle risorse naturali. Ad oggi la crescita economica e lo sviluppo, in queste condizioni, significano accumulare capitale prodotto e capitale umano a spese del patrimonio naturale.
c) Questa attitudine compromette la nostra prosperità e quella delle generazioni future. Molti ecosistemi (foreste tropicali, barriere coralline) sono ormai persi, mentre altri sono sul punto di scomparire. Comunque intervenire ora per preservarli ha un costo ben minore rispetto alle perdite di quei patrimoni naturali. Degli 867 differenti ecosistemi categorizzati solo 42 sono attualmente ben protetti e gestiti.
d) È necessario sviluppare e adottare differenti metriche di valutazione del successo economico, utilizzando misure del patrimonio (della ricchezza) che tengano conto dei benefici ottenibili dagli investimenti su risorse naturali, nella gestione di aree protette, attuando strategie (politiche) che scoraggino forme di consumo e produzione che risultino dannose per l’ambiente naturale. Ogni dollaro investito in ricostruzione di ecosistemi assicura un ritorno dai 3 ai 75 dollari (con una media di 10) di benefici economici in risorse e servizi prodotti dall’ecosistema (con esempi virtuosi nel campo della forestazione, gestione della pesca, ecoturismo).
e) La soluzione risiede nel capire e accettare una semplice verità: le nostre economie sono incastonate, integrate entro la natura e non esterne ad essa.
Nell’insieme sono valutati i benefici che la biodiversità assicura all’economia e i costi derivanti dalla sua perdita a livello globale. Vengono inoltre identificate una serie di progettualità che possono simultaneamente assicurare prosperità economica e migliorare il livello di diversità biologica. Per realizzare questi cambiamenti e sostenerli a favore delle generazioni future, sono necessarie una «svolta verde» e una transizione ecologica nelle modalità e nei fini della produzione di beni, accompagnate da un radicale cambiamento degli attuali stili di vita; uno sforzo corale che va perseguito a livello europeo, con una Europa capace di tornare ad essere faro di civiltà.
Per il nostro Paese si presenta ora una occasione che non può andare persa; le sensibilità e competenze dei nuovi decisori politici responsabili dei dicasteri chiave per l’investimento in ricerca (l’Italia investe uno scarso 1,4 per cento del prodotto interno lordo e si trova in ventottesima posizione tra i Paesi avanzati dell’Ocse) fanno ben sperare di poter attrarre e giustificare i fondi europei del Next Generation Eu (detto anche Recovery Fund) in coerenza con la logica europea con cui verranno distribuiti. Tali risorse saranno a disposizione per progetti utili a «educare, curare, governare» e sarà certamente d’aiuto mettere in campo azioni efficaci per produrre energia pulita, cibo nella giusta quantità per conservare la biodiversità e per attuare severe politiche contro i reati ambientali (oggigiorno le pene sono quasi del tutto risibili e solvibili con ammende pecuniarie).
È dunque obbligatorio attuare una profonda autotrasformazione in ciascuno di noi. Solo in questo modo possiamo sperare di attuare il cambiamento, di divenire soggetti attivi, capaci di produrre trasformazioni individuali e collettive e di abbandonare quel senso di sicurezza dato dalla ripetizione dell’esistente stile di vita che distrugge la natura e soffoca ogni capacità creativa, ogni apertura al futuro.
Le emozionanti immagini di Marte inviate dal rover Perseverance il 18 febbraio richiamano alla mente le frasi del compianto astrofisico Giovanni Bignami: «Il primo bambino che andrà su Marte è già nato»; «avremo oro dagli asteroidi e asparagi da Marte». Ma la ricerca di nuovi spazi e risorse per l’umanità nel cosmo deve ricordare a tutti noi che, dopotutto, non esiste un pianeta B. La consapevolezza della gravità della situazione suggerisce che il momento per intervenire non sia più rinviabile; come amava ripetere il premier britannico Margaret Thatcher nei momenti delle decisioni chiave: «TINA», there is no alternative, non c’è alternativa. Per assicurarci salute e benessere e lasciare alle generazioni future un pianeta vivibile dobbiamo cambiare: ad oggi non ci siamo comportati da buoni antenati.