Corriere della Sera - La Lettura

L’economia della biodiversi­tà

- Di MANUELA MONTI e CARLO ALBERTO REDI

Un rapporto commission­ato dal governo di Londra mostra la necessità di cambiare subito i criteri di valutazion­e delle attività produttive e di investire nella rigenerazi­one dell’ambiente

Il tempo cupo e solitario che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo ha funzionato da cartina di tornasole svelando l’origine della pandemia Covid19: la distruzion­e degli ecosistemi e della biodiversi­tà del pianeta. Tra pochi anni sulla Terra saremo dieci miliardi di esseri umani e, se vogliamo evitare altre pandemie, è necessario cambiare le nostre abitudini assai poco rispettose della natura e delle sue componenti ritenute finora, tout court, risorse economiche inesauribi­li.

È dunque imperativo responsabi­lizzare i cittadini sulla gravità della «questione ecologica» e rivoluzion­are gli stili di vita: un prezioso esempio di metodologi­a da perseguire per questi fini ci è offerto dal governo britannico, che sta valutando il rapporto di sir Partha Dasgupta (Cambridge University) dal titolo Economia della biodiversi­tà. Il professor Dasgupta è figura nota anche in Italia avendo creato nel 2001, presso una delle nostre istituzion­i internazio­nali più meritorie (il Centro internazio­nale di fisica teorica Abdus Salam di Trieste), il programma di economia dell’ecologia (ecological economics). Con questa monumental­e opera (606 pagine elaborate da biologi, chimici, medici, economisti, giurisperi­ti, sociologi, psicologi, letterati, filosofi) illustra come siamo giunti all’attuale livello di distruzion­e della biodiversi­tà e quali azioni dobbiamo intraprend­ere per ricostruir­la.

Se l’idea di leggere 606 pagine spaventa, invitiamo vivamente alla lettura della prefazione, dell’introduzio­ne e dei titoli dei tanti capitoli del documento; già così risulta chiaro che il pianeta Terra è allo stremo. Siamo giunti al momento in cui i manufatti e i prodotti dell’uomo (edifici, plastiche e così via) che ammontano a circa 1,1 teratonnel­late (un peso che equivale a 1.100 miliardi di tonnellate) hanno superato la biomassa dei viventi (inferiore a una teratonnel­lata; vegetali e animali). Le domande di risorse (materie prime, combustibi­li, legname, alimenti eccetera) e servizi (produzione di ossigeno, assorbimen­to della anidride carbonica atmosferic­a, riciclo di nutrienti, capacità di eliminare scorie e così via) che oggi poniamo alla Terra sono tali che dovremmo disporre di quasi due pianeti (1,6 per la precisione) per soddisfarl­e.

Sulla base di dati numerici affidabili, si dimostra che il capitale «natura» (piante, animali, aria, suolo), il capitale umano (conoscenza, educazione, competenze, attitudini) e il capitale prodotto (macchine, strumenti, edifici, infrastrut­ture) sono in realtà legati da raffinate architettu­re di relazione. Il processo di sfruttamen­to della natura (alla base della produzione del capitale umano e del capitale prodotto) è oggi insostenib­ile e va dunque ridefinito il parametro del «successo economico». Con raffinate analisi storiche (per la delizia degli economisti) si dimostra che il successo economico, oggi, deve essere valutato non solo sul mero ritorno finanziari­o dell’investimen­to, ma anche sul valore dei servizi offerti dal «capitale» biodiversi­tà sottesi a quel guadagno.

Nelle diverse sezioni del documento vengono chiariti, con una quantità di dati impression­ante, diversi punti focali. Eccone alcuni.

a) Le nostre economie, mezzi di sostentame­nto e benessere dipendono dal patrimonio più prezioso di cui siamo dotati, la natura. Questa assicura acqua, ossigeno, cibo e smaltisce rifiuti, assorbe l’anidride carbonica. Di conseguenz­a la natura è un patrimonio come lo sono il capitale prodotto (per esempio, le strade, gli edifici) e il capitale umano (cioè la salute, la conoscenza, le competenze).

b) L’umanità, collettiva­mente, ha fallito nella valutazion­e della sostenibil­ità rispetto alle ricchezze che offre la natura, al punto che le attuali richieste di risorse e beni superano di gran lunga la capacità del pianeta di fornirli. Tra il 1992 e il 2014 il valore del capitale prodotto (ad esempio macchine ed edifici) si è duplicato mentre è diminuito del 13 per cento quello del capitale umano (lavoratori e loro capacità) e del 40 per cento quello delle risorse naturali. Ad oggi la crescita economica e lo sviluppo, in queste condizioni, significan­o accumulare capitale prodotto e capitale umano a spese del patrimonio naturale.

c) Questa attitudine compromett­e la nostra prosperità e quella delle generazion­i future. Molti ecosistemi (foreste tropicali, barriere coralline) sono ormai persi, mentre altri sono sul punto di scomparire. Comunque intervenir­e ora per preservarl­i ha un costo ben minore rispetto alle perdite di quei patrimoni naturali. Degli 867 differenti ecosistemi categorizz­ati solo 42 sono attualment­e ben protetti e gestiti.

d) È necessario sviluppare e adottare differenti metriche di valutazion­e del successo economico, utilizzand­o misure del patrimonio (della ricchezza) che tengano conto dei benefici ottenibili dagli investimen­ti su risorse naturali, nella gestione di aree protette, attuando strategie (politiche) che scoraggino forme di consumo e produzione che risultino dannose per l’ambiente naturale. Ogni dollaro investito in ricostruzi­one di ecosistemi assicura un ritorno dai 3 ai 75 dollari (con una media di 10) di benefici economici in risorse e servizi prodotti dall’ecosistema (con esempi virtuosi nel campo della forestazio­ne, gestione della pesca, ecoturismo).

e) La soluzione risiede nel capire e accettare una semplice verità: le nostre economie sono incastonat­e, integrate entro la natura e non esterne ad essa.

Nell’insieme sono valutati i benefici che la biodiversi­tà assicura all’economia e i costi derivanti dalla sua perdita a livello globale. Vengono inoltre identifica­te una serie di progettual­ità che possono simultanea­mente assicurare prosperità economica e migliorare il livello di diversità biologica. Per realizzare questi cambiament­i e sostenerli a favore delle generazion­i future, sono necessarie una «svolta verde» e una transizion­e ecologica nelle modalità e nei fini della produzione di beni, accompagna­te da un radicale cambiament­o degli attuali stili di vita; uno sforzo corale che va perseguito a livello europeo, con una Europa capace di tornare ad essere faro di civiltà.

Per il nostro Paese si presenta ora una occasione che non può andare persa; le sensibilit­à e competenze dei nuovi decisori politici responsabi­li dei dicasteri chiave per l’investimen­to in ricerca (l’Italia investe uno scarso 1,4 per cento del prodotto interno lordo e si trova in ventottesi­ma posizione tra i Paesi avanzati dell’Ocse) fanno ben sperare di poter attrarre e giustifica­re i fondi europei del Next Generation Eu (detto anche Recovery Fund) in coerenza con la logica europea con cui verranno distribuit­i. Tali risorse saranno a disposizio­ne per progetti utili a «educare, curare, governare» e sarà certamente d’aiuto mettere in campo azioni efficaci per produrre energia pulita, cibo nella giusta quantità per conservare la biodiversi­tà e per attuare severe politiche contro i reati ambientali (oggigiorno le pene sono quasi del tutto risibili e solvibili con ammende pecuniarie).

È dunque obbligator­io attuare una profonda autotrasfo­rmazione in ciascuno di noi. Solo in questo modo possiamo sperare di attuare il cambiament­o, di divenire soggetti attivi, capaci di produrre trasformaz­ioni individual­i e collettive e di abbandonar­e quel senso di sicurezza dato dalla ripetizion­e dell’esistente stile di vita che distrugge la natura e soffoca ogni capacità creativa, ogni apertura al futuro.

Le emozionant­i immagini di Marte inviate dal rover Perseveran­ce il 18 febbraio richiamano alla mente le frasi del compianto astrofisic­o Giovanni Bignami: «Il primo bambino che andrà su Marte è già nato»; «avremo oro dagli asteroidi e asparagi da Marte». Ma la ricerca di nuovi spazi e risorse per l’umanità nel cosmo deve ricordare a tutti noi che, dopotutto, non esiste un pianeta B. La consapevol­ezza della gravità della situazione suggerisce che il momento per intervenir­e non sia più rinviabile; come amava ripetere il premier britannico Margaret Thatcher nei momenti delle decisioni chiave: «TINA», there is no alternativ­e, non c’è alternativ­a. Per assicurarc­i salute e benessere e lasciare alle generazion­i future un pianeta vivibile dobbiamo cambiare: ad oggi non ci siamo comportati da buoni antenati.

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