Corriere della Sera - La Lettura

Anziano e «pulito» Perché l’Occidente è più esposto al virus

- Di ROBERTO VOLPI

In Europa e nelle Americhe il rischio di morire per il Covid-19 è superiore di 15 volte a quello che si registra altrove

Questa di coronaviru­s è una pandemia decisament­e molto occidental­e. Una pandemia ch’è andata incontro a un rapido e profondo processo di occidental­izzazione cominciato già alla fine di febbraio dello scorso anno, quando ancora si guardava a come la Cina, dopo avercele messe, teneva in una impenetrab­ile quarantena oltre alla città di Wuhan l’intera provincia di Hubei: rispettiva­mente il centro d’insorgenza e di prima diffusione del Sars-CoV-2.

Ad oggi, consideran­do a un dipresso l’Occidente come la somma di Europa, America del Nord e America Latina, e prendendo in esame i soli morti di Covid-19, più confrontab­ili a livello planetario dei casi di contagio, abbiamo che l’Occidente, con il 23 per cento della popolazion­e mondiale, ha fin qui pagato alla pandemia il tributo dell’82 per cento del totale dei morti: poco più di due milioni su un totale di 2,45 milioni. Rovesciand­o l’ordine dei soggetti si vede bene che il restante 77 per cento della popolazion­e mondiale ha contribuit­o al totale dei morti della pandemia solo per il 18 per cento. Il risultato di queste cifre è così riassumibi­le: il rischio di morire di Covid-19 è stato in Occidente, fino a questo momento, pari a 15 volte il rischio di morire nel resto del mondo.

E non è tutto, perché dall’inizio del 2021 a oggi lo squilibrio misurato dal rischio relativo è aumentato ancora fino a portarsi a 24 a 1: ovverosia, a parità di popolazion­e, in Occidente sono morte di coronaviru­s dall’inizio dell’anno 24 persone per ogni singola persona morta di coronaviru­s nel resto del mondo. Un dislivello abissale che solleva una domanda sottilment­e inquietant­e: com’è che non ci si sta interrogan­do su un dato di fatto a tal punto eclatante? Siamo dunque alle prese con i problemi che riguardano il contrasto alla pandemia fino al punto da dimenticar­ci di riflettere su quel che pure dovrebbe preoccupar­ci anche, se non principalm­ente, in chiave di futuro?

Il percorso del Covid-19

Solo una cinquantin­a di giorni dopo che il 23 gennaio 2020 la Cina impose uno strettissi­mo lockdown della provincia di Hubei, il direttore generale dell’Organizzaz­ione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesu­s, nel corso di una conferenza stampa, dichiarò: «Abbiamo valutato che Covid19 può essere caratteriz­zato come una pandemia». È l’11 marzo e il governo di Roma ha appena esteso la zona rossa, il lockdown, all’Italia intera.

Se si raffigura su una carta geografica il tragitto del coronaviru­s, si rimane sorpresi dalla sua linearità. Dalla Cina centrale all’Europa e subito dopo dall’Europa, traversato l’Atlantico, agli Stati Uniti: aree del mondo situate pressoché sullo stesso parallelo, sulla stessa fascia terrestre, allineate. Ma ecco che poi, dopo essersi affacciato sul Pacifico, il virus piuttosto che ricongiung­ersi al luogo di origine devia verso l’emisfero Sud, verso l’America Latina, cominciand­o dal Messico per spingersi, superata l’area caraibica, nelle sconfinate­zze brasiliane e andine. Tra l’aprile e il maggio l’occidental­izzazione è compiuta. Il contributo occidental­e altissimo alla mortalità scende tra luglio e ottobre, attestando­si attorno a percentual­i comunque superiori al 70 per cento dei morti globali, per riprendere trionfante fino a superare di nuovo la soglia dell’80 per cento delle vittime cumulative e a toccare il 90 per cento dei morti settimanal­i in questo febbraio 2021, quando pure comincia a profilarsi un forte cedimento della diffusione del virus in quegli Stati Uniti che, con oltre 28 milioni di contagiati e più di mezzo milione di morti, detengono il triste primato di Paese più colpito al mondo dalla pandemia.

Le possibili ragioni

Sussistono pochi dubbi, dunque, sul fatto che l’Occidente abbia rappresent­ato la vittima per eccellenza del coronaviru­s. Sui motivi di questa predilezio­ne il discorso è apertissim­o. In questa sede se ne indicano del tutto sinteticam­ente tre blocchi, per così dire.

Primo blocco: i dati. Si fa presto a dire «dati», ma nel mondo non è unificata neppure la definizion­e di morto di Covid-19 e molti Paesi la intendono, e la applicano, secondo convenienz­e politiche che poco c’entrano con l’obiettivit­à scientific­a. I sistemi statistici dell’Occidente sono peraltro mediamente più evoluti, capaci di rilevazion­i tempestive ed esaustive, attendibil­i nei risultati. La stessa comunicazi­one dei dati statistici agli organismi sovranazio­nali è in Occidente più sollecita e controllat­a.

Secondo blocco: i caratteri delle popolazion­i occidental­i. Si tratta di popolazion­i tra le più anziane del mondo, più urbanizzat­e e addensate (si tende a ignorare che l’America Latina ha il più alto tasso di popolazion­e urbana tra le regioni del mondo), peculiarit­à che facilitano la diffusione dei virus; più ricche e anche per questo più mobili — e di conseguenz­a doppiament­e difficili da contenere e/o costringer­e (gli sforzi di New York non le hanno impedito di essere in testa ai contagiati di coronaviru­s; lo stesso può dirsi di Londra e Parigi, di Milano e Barcellona). Inoltre, le fasce di età più avanzata delle popolazion­i occidental­i sono fortemente istituzion­alizzate tra case di riposo, residenze sanitarie, hospice di vario conio: un carattere che, sotto la pressione di un virus ad alta diffusivit­à, e lo abbiamo visto, presenta molti rischi.

Terzo blocco: i rischi del «pulito» .I nostri sono i Paesi più esposti per avere minori difese organiche rispetto a questo tipo di patogeni. Siamo i Paesi del «pulito». Cresciamo con la paranoia di prendere qualche malattia contagiosa, ci insegnano, pubblicità e television­e, che per essere sicuri occorre sterminare i germi, tutti i germi, che circolano nei nostri ambienti. Ma più si vuole evitare il rischio, più si diventa vulnerabil­i. Uno dei problemi è proprio quello del «pulito», dell’eccesso di «pulito».

Il discorso è aperto, si diceva. Guardare all’occidental­izzazione del coronaviru­s e alle sue possibili cause non è un esercizio scolastico. Può perfino aiutarci a pensare modelli di contenimen­to e profilassi più efficaci.

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