Corriere della Sera - La Lettura
Anziano e «pulito» Perché l’Occidente è più esposto al virus
In Europa e nelle Americhe il rischio di morire per il Covid-19 è superiore di 15 volte a quello che si registra altrove
Questa di coronavirus è una pandemia decisamente molto occidentale. Una pandemia ch’è andata incontro a un rapido e profondo processo di occidentalizzazione cominciato già alla fine di febbraio dello scorso anno, quando ancora si guardava a come la Cina, dopo avercele messe, teneva in una impenetrabile quarantena oltre alla città di Wuhan l’intera provincia di Hubei: rispettivamente il centro d’insorgenza e di prima diffusione del Sars-CoV-2.
Ad oggi, considerando a un dipresso l’Occidente come la somma di Europa, America del Nord e America Latina, e prendendo in esame i soli morti di Covid-19, più confrontabili a livello planetario dei casi di contagio, abbiamo che l’Occidente, con il 23 per cento della popolazione mondiale, ha fin qui pagato alla pandemia il tributo dell’82 per cento del totale dei morti: poco più di due milioni su un totale di 2,45 milioni. Rovesciando l’ordine dei soggetti si vede bene che il restante 77 per cento della popolazione mondiale ha contribuito al totale dei morti della pandemia solo per il 18 per cento. Il risultato di queste cifre è così riassumibile: il rischio di morire di Covid-19 è stato in Occidente, fino a questo momento, pari a 15 volte il rischio di morire nel resto del mondo.
E non è tutto, perché dall’inizio del 2021 a oggi lo squilibrio misurato dal rischio relativo è aumentato ancora fino a portarsi a 24 a 1: ovverosia, a parità di popolazione, in Occidente sono morte di coronavirus dall’inizio dell’anno 24 persone per ogni singola persona morta di coronavirus nel resto del mondo. Un dislivello abissale che solleva una domanda sottilmente inquietante: com’è che non ci si sta interrogando su un dato di fatto a tal punto eclatante? Siamo dunque alle prese con i problemi che riguardano il contrasto alla pandemia fino al punto da dimenticarci di riflettere su quel che pure dovrebbe preoccuparci anche, se non principalmente, in chiave di futuro?
Il percorso del Covid-19
Solo una cinquantina di giorni dopo che il 23 gennaio 2020 la Cina impose uno strettissimo lockdown della provincia di Hubei, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel corso di una conferenza stampa, dichiarò: «Abbiamo valutato che Covid19 può essere caratterizzato come una pandemia». È l’11 marzo e il governo di Roma ha appena esteso la zona rossa, il lockdown, all’Italia intera.
Se si raffigura su una carta geografica il tragitto del coronavirus, si rimane sorpresi dalla sua linearità. Dalla Cina centrale all’Europa e subito dopo dall’Europa, traversato l’Atlantico, agli Stati Uniti: aree del mondo situate pressoché sullo stesso parallelo, sulla stessa fascia terrestre, allineate. Ma ecco che poi, dopo essersi affacciato sul Pacifico, il virus piuttosto che ricongiungersi al luogo di origine devia verso l’emisfero Sud, verso l’America Latina, cominciando dal Messico per spingersi, superata l’area caraibica, nelle sconfinatezze brasiliane e andine. Tra l’aprile e il maggio l’occidentalizzazione è compiuta. Il contributo occidentale altissimo alla mortalità scende tra luglio e ottobre, attestandosi attorno a percentuali comunque superiori al 70 per cento dei morti globali, per riprendere trionfante fino a superare di nuovo la soglia dell’80 per cento delle vittime cumulative e a toccare il 90 per cento dei morti settimanali in questo febbraio 2021, quando pure comincia a profilarsi un forte cedimento della diffusione del virus in quegli Stati Uniti che, con oltre 28 milioni di contagiati e più di mezzo milione di morti, detengono il triste primato di Paese più colpito al mondo dalla pandemia.
Le possibili ragioni
Sussistono pochi dubbi, dunque, sul fatto che l’Occidente abbia rappresentato la vittima per eccellenza del coronavirus. Sui motivi di questa predilezione il discorso è apertissimo. In questa sede se ne indicano del tutto sinteticamente tre blocchi, per così dire.
Primo blocco: i dati. Si fa presto a dire «dati», ma nel mondo non è unificata neppure la definizione di morto di Covid-19 e molti Paesi la intendono, e la applicano, secondo convenienze politiche che poco c’entrano con l’obiettività scientifica. I sistemi statistici dell’Occidente sono peraltro mediamente più evoluti, capaci di rilevazioni tempestive ed esaustive, attendibili nei risultati. La stessa comunicazione dei dati statistici agli organismi sovranazionali è in Occidente più sollecita e controllata.
Secondo blocco: i caratteri delle popolazioni occidentali. Si tratta di popolazioni tra le più anziane del mondo, più urbanizzate e addensate (si tende a ignorare che l’America Latina ha il più alto tasso di popolazione urbana tra le regioni del mondo), peculiarità che facilitano la diffusione dei virus; più ricche e anche per questo più mobili — e di conseguenza doppiamente difficili da contenere e/o costringere (gli sforzi di New York non le hanno impedito di essere in testa ai contagiati di coronavirus; lo stesso può dirsi di Londra e Parigi, di Milano e Barcellona). Inoltre, le fasce di età più avanzata delle popolazioni occidentali sono fortemente istituzionalizzate tra case di riposo, residenze sanitarie, hospice di vario conio: un carattere che, sotto la pressione di un virus ad alta diffusività, e lo abbiamo visto, presenta molti rischi.
Terzo blocco: i rischi del «pulito» .I nostri sono i Paesi più esposti per avere minori difese organiche rispetto a questo tipo di patogeni. Siamo i Paesi del «pulito». Cresciamo con la paranoia di prendere qualche malattia contagiosa, ci insegnano, pubblicità e televisione, che per essere sicuri occorre sterminare i germi, tutti i germi, che circolano nei nostri ambienti. Ma più si vuole evitare il rischio, più si diventa vulnerabili. Uno dei problemi è proprio quello del «pulito», dell’eccesso di «pulito».
Il discorso è aperto, si diceva. Guardare all’occidentalizzazione del coronavirus e alle sue possibili cause non è un esercizio scolastico. Può perfino aiutarci a pensare modelli di contenimento e profilassi più efficaci.