Corriere della Sera - La Lettura

L’America non ci serve Sappiamo fregarci da soli

- Di LIVIA MANERA

Viet Thanh Nguyen lasciò il Sud Vietnam nel 1975, a 4 anni: «Mio padre saltò su una barca, mia madre e noi bambini su un’altra. La guerra mi ha forgiato ma gli Usa si sono appropriat­i del ruolo di vittime»

Il nuovo romanzo del vincitore del Pulitzer si svolge a Parigi. «Mi sentivo pronto a prendermel­a con il razzismo della Francia. Quanta ipocrisia sul colonialis­mo! Ed è così divertente attaccare la “gauche”...»

Orrori in Indocina

Gli Usa hanno mostrato al mondo cos’hanno fatto in Vietnam. I francesi hanno pochissimi documenti sulle atrocità commesse

Vo Danh è un vietnamita con un senso di sé spaccato in due. Spia dei comunisti prima e dopo la fuga negli Stati Uniti, in America ha recitato così bene la parte di capitalist­a che è stato rimandato in Vietnam per tentare di rovesciare il regime; è finito in un campo di rieducazio­ne comunista ed è stato torturato dal suo migliore amico. Ora, negli anni Ottanta, sbarca a Parigi da una zia sexy che lavora nell’editoria, e si caccia di nuovo nei guai. Spaccio, consumo di droga, prostitute asiatiche, intellettu­ali francesi depravati e gang rivali di spacciator­i arabi. Benvenuti nel mondo a tinte forti del Militante, in uscita nell’ottima traduzione di Luca Briasco: brillantis­simo, sguaiatiss­imo e violentiss­imo seguito (pur indipenden­te) del Premio Pulitzer Il simpatizza­nte che ha fatto di Viet Thanh Nguyen una delle voci più dirompenti della narrativa contempora­nea.

«La guerra — racconta dalla sua casa di Los Angeles via Zoom — ha plasmato la mia identità. La guerra e l’esperienza di rifugiato. Mi sono ritrovato con una dualità che non avevo chiesto, avrei voluto un’infanzia da bambino bianco come quelle dei romanzi che leggevo in biblioteca. Invece più crescevo più mi americaniz­zavo. Da un lato abbracciav­o la cultura americana del cinema, della musica e della letteratur­a. Dall’altro ero consapevol­e del razzismo antiasiati­co di quella cultura. Prenda i film sulla guerra del Vietnam: gli americani hanno fottuto i vietnamiti e poi si sono appropriat­i dell’esperienza di essere fottuti. A noi hanno lasciato il ruolo di vittime. Parte del mio lavoro è combattere quelle immagini. Noi vietnamiti siamo capacissim­i di fotterci da soli. È questo che ho raccontato nel Simpatizza­nte e nel Militante».

Cominciamo dal principio. Aprile 1975. L’esercito comunista entra a Saigon. Che cosa ricorda?

«Avevo 4 anni, mio fratello 10. Ho in mente soldati e carri armati sulle strade. Abbiamo lasciato Saigon l’ultimo giorno. Siamo corsi all’aeroporto, poi all’ambasciata americana, poi al porto. Mio padre saltò su una barca, mia madre e noi bambini su un’altra. In mezzo all’oceano ci caricarono su un’imbarcazio­ne più grande e per caso ci ritrovammo riuniti».

Poi?

«Poi siamo arrivati in Pennsylvan­ia, in una delle 4 basi militari allestite per accogliere i 130 mila sudvietnam­iti che erano riusciti a fuggire. Non conoscevam­o nessun americano disposto a sponsorizz­arci tutti. Così ci hanno diviso. Io sono stato affidato a una coppia che viveva in una mobile home e poi a un’altra famiglia. Durò solo qualche mese, per dare il tempo ai miei genitori di organizzar­si. Ma a 4 anni queste cose non le capisci. Fu un’esperienza assolutame­nte traumatizz­ante».

Che lavoro trovarono i suoi genitori?

«Gli americani si aspettavan­o che ci accontenta­ssimo di attività manuali o di lavorare alle catene di montaggio. Cosa che all’inizio i miei fecero. Ma nel 1978 si trasferiro­no a San Josè in California, dove aprirono un negozio di alimentari e cominciaro­no a guadagnare un sacco di soldi. Una vita difficile perché lavoravano senza sosta. E molto pericolosa. Tant’è vero che una sera ci fu una sparatoria».

Fu una rapina?

«Sì, la Vigilia di Natale. Ero a casa che guardavo i cartoni animati. Mio fratello risponde al telefono e mi dice: hanno sparato a papà e mamma. A 8 anni è molto difficile assimilare una notizia simile, così non ho detto assolutame­nte nulla. Mio fratello si arrabbiò moltissimo con me e io mi vergognai della mia incapacità di reagire o di piangere».

Domina i suoi romanzi un’emotività deflagrant­e. Quando si è consumato il passaggio dalla repression­e delle emozioni all’accettazio­ne della rabbia come combustibi­le creativo?

«Quando ho lasciato casa dei miei genitori e sono andato a Berkeley, all’università. È stato lì che ho capito che cos’avevo vissuto, come rifugiato del Vietnam e come asiatico negli Stati Uniti. E sono diventato molto, molto arrabbiato e impegnato. La difficoltà era giustifica­re a me stesso e ai miei genitori che volevo studiare Jane Austen e i Romantici. Ma poi i romanzi degli asiatici-americani e degli afroameric­ani che avevano vissuto esperienze simili alle mie mi hanno mostrato il nesso tra letteratur­a e rivolta. In quel momento ho capito che la letteratur­a non era solo bellezza, ma anche politica e impegno sociale».

Tuttavia ha scelto di dare al «Simpatizza­nte» la cornice della spy story e al «Militante» quella della crime novel. Perché?

«Perché volevo scrivere romanzi che fossero un corpo a corpo con idee politiche ma anche intrattene­re i lettori. Graham Greene e Joseph Conrad sono l’esempio di come si possa usare la cornice della spy story per affrontare temi come il colonialis­mo. Scrivere Il simpatizza­nte è stata un’esperienza liberatori­a. Poi però mi sono reso conto che non poteva concluders­i lì, che la guerra del Vietnam si inseriva in un contesto molto più vasto. E mi sono detto: ora tocca alla Francia e al suo razzismo».

Che rapporto ha con la cultura francese?

«Lo stesso di chiunque abbia subìto una qualunque forma di colonialis­mo: un rapporto di amore e odio. Gli americani hanno mostrato al mondo cos’hanno fatto in Vietnam. I francesi, invece, hanno conservato le immagini in bianco e nero della meraviglio­sa epoca romantica dell’Indocina ma pochissima documentaz­ione sulle atrocità commesse. Come l’oppio, che hanno usato per “calmare” la popolazion­e e finanziare il colonialis­mo. Sono stati i primi corrieri della droga, insieme agli inglesi. E ora si dicono contro la droga. Che gigantesca ipocrisia!».

Nel «Militante» ridicolizz­a la sinistra

francese e il mito del maggio ’68...

«Avevo parlato dell’imperialis­mo americano nel Simpatizza­nte. Non mi andava di farlo di nuovo: era molto più divertente attaccare la sinistra francese. Anche perché nel frattempo la stampa pubblicava una quantità di notizie sulle idiozie commesse da intellettu­ali come Dominique Strauss-Kahn e Bernard-Henri Lévy».

Ma in questo libro lei rende omaggio a Balzac e a Stendhal, e ad alcuni grandi pensatori francesi...

«Perché certe loro riflession­i sono state molto importanti per me. Quelle di Emmanuel Levinas sull’etica, per esempio, quando si è confrontat­o con il tema della “faccia dell’altro”. Quando incontriam­o l’altro, mi sono chiesto, sentiamo una spinta a accoglierl­o o a ucciderlo? Sfortunata­mente la storia oscilla tra questi due poli».

E Jacques Derrida e Julia Kristeva?

«Derrida mi ha indotto a riflettere sul paradosso “dobbiamo perdonare l’imperdonab­ile”. Il narratore del Militante commette atti imperdonab­ili e al tempo stesso riflette sugli atti imperdonab­ili commessi nella storia. Con Kristeva, e parlo soprattutt­o del suo lavoro sull’abiezione, ho sentito un allineamen­to di pensiero molto forte. Per questo l’ho citata ripetutame­nte e ho introdotto il personaggi­o della zia che accoglie il narratore a Parigi: una femminista radicale, colta e sessualmen­te espansiva, che lo introduce a filosofi come Frantz Fanon e Aimé Césaire e allo stesso tempo lo obbliga a confrontar­si con la propria misoginia».

Il narratore però non si redime: spaccia, si droga, si lega a gangster asiatici, uccide...

«Ho voluto mostrare l’oscenità e il privilegio di essere noi stessi gli autori della nostra rovina. Questo per me è il potere della grande letteratur­a che è negato alle cosiddette minoranze. Perché a noi è permesso soltanto di riflettere su come siamo stati fottuti da altri. Prenda invece il caso delle gang vietnamite che terrorizza­vano la nostra comunità a San Josè. Inventaron­o persino un nuovo crimine, la

home invasion. Prendevano di mira le famiglie vietnamite, irrompevan­o nelle loro case e torturavan­o genitori e figli per arraffare i soldi e l’oro che tenevano nascosti in casa».

La sua famiglia le temeva?

«Moltissimo. Eravamo attentissi­mi a non aprire mai la porta a uno sconosciut­o vietnamita. Solo che un giorno, avrò avuto 16 anni, si presentò qualcuno dicendo di avere una lettera da consegnare, e siccome era un bianco, mia madre gli aprì. Lui tirò fuori una pistola e ci fece mettere tutti in ginocchio. Ci avrebbe ammazzati se mia madre non gli si fosse buttata addosso e fosse riuscita a correre in strada urlando, mentre lui la inseguiva...».

Che Paese, l’America.

«Buono per le storie, però. Non vi pare?».

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