Corriere della Sera - La Lettura
Ragù di tartaruga per il dittatore
Distopie grottesche Paolo Zardi spedisce in esilio su un’isoletta un autocrate che ha retto l’Italia conducendola, tra l’altro, in una disastrosa guerra. Siamo (probabilmente) nel 2029 e (probabilmente) dalle parti dell’America
Ascesa e caduta di un dittatore in una Italia simil-oggi: di questo narra Paolo Zardi in Memorie di un dittatore. Dove le «memorie» sono rivissute ora mentalmente, ora dettandole a un «immaginario scrivano», e ora narrandole a voce a chi gliele richiede. Questo però dal suo esilio, in un’anonima «piccola isoletta», intorno alla quale «a perdita d’occhio» e «in ogni direzione non vedo nient’altro che acqua», sentendosi chiuso in una «gabbia» dalle «pareti oceaniche», risiedendo nella sola costruzione esistente, una villa abbandonata da anni. Un «minuscolo» isolotto dalle parti dell’America, stando a un’involontaria ammissione di Fernando, il solo altro personaggio che egli crede presente sull’isola, salvo scoprire poi l’esistenza di Miranda, ragazzina mulatta fidanzata di Fernando.
A Fernando spetta il compito di accudirlo e il dittatore lo maltratta definendolo «scimpanzé in livrea», e anzi «specie di macaco, quella varietà di scimpanzé, quell’anello di congiunzione tra la scimmia e il suricato», un «ragazzino» «efficiente e pronto all’obbedienza» che però «non capiva quasi nulla», cui spetterà l’atto finale della permanenza del dittatore sull’isola.
Il dittatore è «prigioniero, e non so neppure di chi», ormai da «almeno tre mesi», senza telefono, computer e internet, con la sola visita mensilmente d’un medico (che stranamente riesce a raggiungere quest’isolatissima isoletta con una semplice «barchetta» a vela). Nei giorni «tutti uguali» lo sfiora persino la tentazione del suicidio: li trascorre girovagando per l’isola — che vegetazione e pappagalli e tartarughe, delle quali fa strage ricavandone ragù, indicano come tropicale — e per la villa. Qui si imbatte in una ricca biblioteca tra i cui libri dalle lingue più varie prende a leggere Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari, attratto più dal titolo che dallo stile «francamente incomprensibile», e ne sfoglia altri nella segreta «speranza che dal rinvenimento casuale di un libro io riesca a trovare una qualche soluzione al problema del mio esilio».
Tutto questo in un ipotetico 2029 (o all’incirca, stando ai dati presenti nelle ricostruzioni memoriali di chi alla data dell’esilio è sui 55 anni), dopo «quasi dieci anni» di potere assoluto dissoltosi per un brivido d’onnipotenza che (modello la
Margaret Thatcher delle Falkland) l’ha portato a dichiarare una guerra contro il Congo (ma senza sapere di quale dei due si trattasse) ritenuto responsabile del sequestro da parte di pirati di «decine di valorosi Italiani», e dagli esiti nefasti, tanto da provocarne la rimozione, l’arresto e, con un misterioso colpo di mano, questo confinamento di tipo napoleonico a metà tra l’Elba e Sant’Elena.
Nasce qui quella «ricostruzione del mio passato», partendo dai «piccoli episodi» quali momenti fondanti per la futura «ascesa politica» verso quel «potere senza limiti», che conosce «percorsi di ferocia e lucidità», e ottenuto sfruttando una situazione di ingovernabilità dell’Italia, in un ravvicinato succedersi di elezioni e attraverso una strategia elettorale che lo porta dal 2% a una corposa maggioranza, pur se relativa, con la presa del potere grazie a quel «consenso delle masse» riuscito a Hitler, modello «di dignità e perseveranza». Ossia «salendo in groppa» alle «aspirazioni frustrate» della «povera gente frastornata», ai cui occhi far «balenare pericoli più o meno immaginari» e assecondando «quanto più le tendenze naturali del popolo, paure primordiali». Insomma: «niente di nuovo nella strada» che porta al «potere». E questo della ricostruzione d’una carriera politica resta la parte più linearmente sviluppata e meglio gestita del romanzo nella sua linearità, anche linguistica.
Fatto salvo il finale vero e proprio, a non funzionare pare invece la parte congolese, in sé e nelle sue inutili forzature caricaturali (quasi un mix tra Chaplin e sceneggiatura televisiva); come pure le macchiette del medico e del suo misterioso accompagnatore, «il facilitatore» d’una possibile liberazione; ma pure di Fernando (delicata invece è Miranda). Un romanzo di scorrevole lettura, nella cui scrittura si affacciano qua e là prestiti dotti (Dante, Petrarca, Bibbia e altro ancora), ma dove restano anche aspetti da rivedere: come quella barchetta a vela cui già ho accennato, prima bianca e poco dopo grigia, e nel finale di nuovo «bianca barchetta» e subito dopo «vascello bianco». E poi Michele Mari: che poco dopo, sempre a fianco d’una citazione dal suo libro, diventa Mario Micheli.