Corriere della Sera - La Lettura

La sciarpa rossa che lega l’autore al suo doppio

Yves Bonnefoy dialogò con gli enigmi e le figure della propria opera in un’autobiogra­fia

- Di DANIELE PICCINI

Tolosa, nella Sciarpa rossa? È perché quell’«idea di racconto» riguarda la mia esistenza, il mio rapporto con i miei genitori. E quell’uomo, a Tolosa, che ha lasciato il suo indirizzo su una busta vuota a qualcuno che ne ritrova il ricordo, è mio padre, che si rivolge a me: perché io sono quell’«uomo già vecchio» che vuol mettere ordine nel suo passato. Quanto alla sciarpa rossa, che vediamo entrambi aprirsi l’uno sul cuore dell’altro, è ciò che ci unisce, in un modo al contempo invisibile ed essenziale, la paternità e la filiazione, ciò che vien detto il legame di sangue. Il testo è un passaggio di La sciarpa rossa, autobiogra­fia del poeta Yves Bonnefoy (Tours, Francia, 24 giugno 1923 – Parigi, 1º luglio 2016: foto di Eric Feferberg/Afp) tradotta da Fabio Scotto per La nave di Teseo ©Éditions Mercure de France 2016 ©2021 La nave di Teseo editore Y ves Bonnefoy ci appare talvolta come un poeta che si guarda scrivere, tanta è la densità della sua riflession­e meta-poetica. Tutta la sua poesia parla, oltre che del mondo, anche del compito o ingiunzion­e di dirlo, sottraendo­lo al numinoso per ricollegar­lo alle radici terrene della finitudine (parola, come poche altre, cara all’autore). Nell’inganno della soglia (come suona il titolo del libro del 1975 nella nuova traduzione di Fabio Scotto per Il Saggiatore, con una densa introduzio­ne) è un poema frammentar­io in sette sezioni, in cui spesso si ha l’impression­e che Bonnefoy stia parlando dell’immersione nel linguaggio, insomma dell’inesauribi­le avveniment­o della scrittura.

Basta prendere il primo movimento del poema, nel quale, verso la fine, si legge: «Là dove ignoravo tutto, dove scrivevo». Non si può fare a meno, se pure forse in maniera impression­istica («ignoravo tutto» può infatti riferirsi a ciò che sta al di fuori della scrittura), di rilevare in questo verso la coincidenz­a di scrivere e di ignorare, come se la parola fosse scritta a occhi chiusi, sospendend­o (se non proprio obliterand­o) il senso profondo dell’opera che si va componendo, come lasciandol­a aperta all’interpreta­zione a venire: prima di tutto all’interpreta­zione dello stesso autore, divenuto altro dal sé che scriveva. È esattament­e questa l’esperienza che Bonnefoy compie nel suo ultimo libro, terminato pochi mesi prima della morte: un testo in prosa, in bilico tra memoriale e saggio, intitolato La sciarpa rossa seguito da Due scene e note annesse (edito in Francia nel 2016, traduzione italiana ancora di Fabio Scotto, La nave di Teseo).

Abissale e luminoso, il libro nella sua parte fondante, appunto La sciarpa rossa, prende a oggetto un’idea di racconto che l’autore cominciò a elaborare nel 1964 partendo da un nucleo in versi, poi ripreso varie volte ma lasciato incompiuto nel suo sviluppo narrativo: nella riflession­e in prosa che lo esamina, maturata a distanza di tanto tempo, quel nucleo poetico sembra rivelare il suo più autentico significat­o. È così che il poeta si conduce a scrutare i nodi di senso riposti nella scrittura. Il testo in versi parlava di un uomo già vecchio che vuole rimettere ordine, buttare le agende e gli appunti della giovinezza. Poi scopre una busta vuota con dietro un indirizzo di Tolosa. La busta rimanda al ricordo di qualcuno, incontrato una volta, che portava, come colui che andò a visitarlo, una sciarpa rossa da una spalla all’altra. Il vecchio decide di scrivere a quell’indirizzo di Tolosa. Poi, in un altro frammento, egli (o un suo doppio) si reca effettivam­ente in quella città e alla porta dove va a bussare trova una donna, angosciata, che gli dice che la persona da lui cercata, marito di lei, è scomparsa, forse morta…

È a questo punto che Bonnefoy compie, insieme al suo lettore, un’agnizione: l’uomo già vecchio del testo e l’uomo che si mette in viaggio per Tolosa sono il poeta stesso. E le figure richiamate in quei frammenti in versi sono, oltre all’io dell’autore, quelle del padre e della madre. Tolosa (evocazione cavalcanti­ana) indica un luogo altro, da cui qualcuno ha subìto una sorta di esclusione. Quel nucleo in versi, che non è stato possibile negli anni tradurre in un compiuto racconto, non attendeva in realtà sviluppo, ma intelligen­za. Bonnefoy ci porta così dentro l’enigma di quei versi, per mezzo di una lente freudiana sfondata nell’atto stesso di usarla, con le figure che a poco a poco parlano a lui e a noi del loro senso pieno: il rapporto del poeta con il padre e con la madre, i silenzi e le occasioni perdute di quella relazione filiale, il sortilegio dell’infanzia e il suo nesso con la parola. Infatti la lezione più potente di questo apologo-saggio (che prosegue poi nelle collegate Due scene e

note annesse, con al centro l’Italia e in particolar­e Genova) riguarda la vocazione poetica e la verità che nell’atto di scrivere si condensa sulla pagina, quasi all’oscuro di chi scrive: «La poesia, che è più di noi, ha il compito di farla finita con i nostri fantasmi, che non sono altro che i suoi errori».

Bonnefoy scrive così un’autoeseges­i che è anche un’autobiogra­fia, non senza lumeggiare il suo rapporto con il surrealism­o e con la tradizione, rivelando al lettore un’idea ipnoticame­nte alta, eppure umile e terrena, di poesia.

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