Corriere della Sera - La Lettura

AmericanAr­tist L’hacker deimusei

È una delle voci più interessan­ti emerse durante la pandemia. Il web è la sua tela

- Di VINCENZO TRIONE

Nelle settimane delle proteste a New York per la morte di George Floyd, è stato hackerato il sito del Whitney Museum: le riproduzio­ni delle sculture e dei quadri conservati nel museo sono stati sostituiti con foto di assi di legno. Come se le opere fossero state imballate per proteggerl­e dai saccheggi. Un gesto vandalico? No, si tratta di Looted, tra gli interventi più interessan­ti creati durante la pandemia. Ne è autore una tra le voci più promettent­i dell’arte contempora­nea, secondo quel che è emerso, nel 2020, dalla classifica di Artsy Vanguard, network internazio­nale di curatori e profession­isti dell’arte. Chi è questo provocator­e, impegnato a contestare la logica sottesa alle politiche portate avanti dalle istituzion­i museali occidental­i, oscurandon­e il patrimonio (per qualche ora)? Si fa chiamare American Artist. Dunque, un nome-non nome. Una scelta radicale, da accostare, almeno in parte, a una ritualità molto diffusa soprattutt­o tra gli street artist (da Banksy a Blu), i quali, come pochi altri (Elena Ferrante), hanno capito che oggi meno si appare più si esiste.

Nella «civiltà dello spettacolo», meglio costruire intorno a sé un alone di mistero. Non svelare mai del tutto la propria identità. Parlare solo con i propri graffiti e con i propri gesti. Sulle orme di quel che era accaduto nel Medioevo, quando gli artisti abbandonar­ono una visione romantica della creazione, per annullare la

propria personalit­à nelle opere realizzate insieme con altri. Analogamen­te ai graffitist­i, anche American Artist si nasconde dietro una (parziale) clandestin­ità. Ma, a differenza di Banksy e di Blu, non è ignoto. Basta visitare il suo sito, per conoscerne il volto e il percorso: nato nel 1989 ad Altadena, residenza presso l’Abrons Art Center e il Whitney Independen­t Study Program (2017), borsista della Queens Museum Jerome Foundation (2018-1919), curatore di installazi­oni al Museum of African Diaspora di San Francisco, allo Studio Museum di Harlem, al Museum of Contempora­ry Art di Chicago, autore di articoli.

Allora, perché ricorrere a uno pseudonimo quasi banale (che forse sarebbe piaciuto a Warhol)? Si tratta di una decisione poetica e, insieme, politica. Per questo artista california­no, appellarsi American Artist è, innanzitut­to, un modo per essere subito trovato nelle ricerche su Google (basta digitare american artist, appunto). Ma è anche un modo per dichiarare una precisa strategia, alludendo alla volontà di stare nel web in maniera originale. Indifferen­te nei confronti della specificit­à dei linguaggi, American Artist si comporta come un motore di ricerca, abile nell’operare con e come i media, intento a mettere in collegamen­to mondi, forme, narrazioni, tecnologie, miti, culture, notizie, formati, disegnando reti di relazioni e di opportunit­à, in un fecondo dialogo con il tempo in cui si trova a vivere.

La sfida più difficile, per American Artist, però, sta nel sabotare dall’interno la Rete e i social: da luddista. Conoscendo­ne le regole, egli sfrutta il web e Instagram come vetrine dell’orrore. E vi espone i suoi esercizi visivi duri e provocator­i, che interrogan­o alcuni fenomeni drammatici di oggi: gli stereotipi dei «bianchi», il mito del «maschio», la marginalit­à dei neri, l’utilizzo degli algoritmi da parte della polizia per prevedere le attività criminali, il razzismo, la disparità tra le immagini che pubblichia­mo sui social e quelle che abbiamo scelto di non postare, il capitalism­o della sorveglian­za, messo in atto da Google e Facebook, che si fonda sullo sfruttamen­to delle informazio­ni private per esercitare un pervasivo controllo sulle nostre vite e per modificare i nostri comportame­nti e le nostre idee.

Dal confronto con queste emergenze nascono lavori che ci consegnano un credibile affresco degli Usa nel tempo delle intolleran­ze sovraniste di Donald Trump e del movimento Black Lives Matter. Uno spietato ritratto del declino dell’American dream. Ne affiora la filosofia di questo attivista dell’arte. Stare nel presente, senza mai aderirvi. Contestarn­e le liturgie, per mostrarne i lati più segreti, controvers­i, perturbant­i.

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Tre interventi realizzati da American Artist. Nella pagina a sinistra: Looted, 2020. Qui accanto: Untitled (Too Thick), 2018. Sopra: A Wild Ass Beyond: Apocalypse­RN, 2018
Le immagini Tre interventi realizzati da American Artist. Nella pagina a sinistra: Looted, 2020. Qui accanto: Untitled (Too Thick), 2018. Sopra: A Wild Ass Beyond: Apocalypse­RN, 2018

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