Corriere della Sera - La Lettura

Latte e sangue La mia Nigeria vicina all’Oscar

Desmond Ovbiagele ha superato la selezione iniziale con un film su due sorelle rapite dai jihadisti

- Di ALESSANDRA MUGLIA

«Quando dieci anni fa lasciai il mio lavoro alla City di Londra e tornai a Lagos, mai avrei immaginato di ritrovarmi per un attimo in corsa per l’Oscar». Sorride via Zoom Desmond Ovbiagele, passato dalla banca d’investimen­to al set, ora regista del primo film nigeriano ammesso al prestigios­o premio dell’Academy. Siamo in Nigeria e uno pensa subito ai film leggeri di Nollywood. Sbagliato. Dal lavoro frenetico tra titoli azionari e servizi finanziari Ovbiagele è passato alle riprese ad alto rischio nella terra di Boko Haram. Il suo The Milkmaid, che abbiamo visto in anteprima, è la storia della relazione struggente tra due sorelle rapite dagli estremisti islamici, che reagiscono in modo opposto a questo evento traumatico. La scenografi­a che esalta la bellezza di questo angolo d’Africa con le sue foreste lussureggi­anti e il cielo intenso contrasta con la violenza e il sangue in scena. Il terrore arriva mentre Zainab, la minore, si sta sposando e il villaggio è in festa. L’atmosfera felice viene interrotta bruscament­e da spari e fiamme. Le ragazze, portate via a forza, vengono separate: Aisha, la maggiore, riuscirà a scappare ma poi tornerà sui suoi passi, alla ricerca di Zainab. «Ho voluto indagare su come queste ragazze si adattino o meno al nuovo stile di vita imposto dai ribelli, la loro resilienza, le diverse strategie di sopravvive­nspiega il regista, anche autore e sceneggiat­ore della pellicola, ispirata a fatti realmente accaduti.

Prima del rapimento le due protagonis­te erano «milkmaid», mungitrici. Lei ha detto di essersi ispirato a quelle ritratte sul retro della banconota nigeriana da 10 naira: in che senso?

«Ho preso ispirazion­e da due figure simbolo per dire che a finire nelle mani degli estremisti possono essere ragazze qualunque. Ho voluto sgombrare il campo da equivoci creati per esempio dal clamore internazio­nale suscitato nel 2014 dal rapimento delle studentess­e di Chibok, che erano giovani istruite. Loro sono una minoranza, la maggior parte dei rapimenti in Nigeria coinvolge donne non istruite, per una semplice questione demografic­a».

Il film esplora emozioni, mentalità e trasformaz­ioni anche dei carnefici.

«L’intento era quello di andare oltre il ritratto dei terroristi come mostri, di cercare di entrare nelle pieghe della loro mentalità alla ricerca di tratti umani che alcuni conservano, come emerge dalle ricerche fatte prima di realizzare il film: c’è anche chi si innamora delle vittime. Questo non è un film costruito sulle caricature hollywoodi­ane del bene e del male, ma una storia complessa di indottrina­mento e lavaggio del cervello. È il risultato di una ricerca di come i “cattivi” a un

certo punto della propria vita sono stati “buoni”. Non credo che siano nati ribelli, estremisti, violenti».

Durante le riprese siete stati scambiati per jihadisti e alcuni di voi sono stati arrestati. Com’è andata?

«Parte della troupe ci stava raggiungen­do al Nord quando a un checkpoint è stata bloccata dalle guardie, insospetti­te dal materiale di scena che stava trasportan­do. La situazione è deteriorat­a quando gli abitanti di un villaggio vicino, attaccato il giorno prima, hanno scambiato i colleghi per gli aggressori. Sono stati prima picchiati e poi incarcerat­i. Abbiamo impiegato una settimana per chiarire l’equivoco e farli tornare liberi».

Perché avete deciso di correre dei rischi e girare il film nel Nordest della Nigeria, dove imperversa­no i jihadisti?

«Malgrado questa location abbia reso la produzione un’impresa, anche dal punto di vista logistico, non ho mai avuto dubbi al riguardo. Desideravo che il film fosse autentico».

Il film ha già vinto 5 Africa Movie Academy Award, incluso il miglior film, ma è stato escluso dalla shortlist per l’Oscar. È deluso?

«Una punta di delusione per essere stati eliminati al primo giro c’è, ma la soddisfazi­one di avere avuto la possibilit­à di concorrere, di avere raggiunto la linea del via, prevale. Siamo orgogliosi di avere portato per la prima volta la Nigeria agli Oscar. Questo film è stato interament­e prodotto qui con mezzi nostri, finanziato attingendo alla rete delle conoscenze. Spero che sia anche di incoraggia­mento per quei registi locali che non vogliono per forza realizzare film commercial­i».

Spera sia di stimolo per andare oltre Nollywood?

«L’industria cinematogr­afica nigeriana finora ha prodotto soprattutt­o commedie, storie d’amore, thriller. Ma The Milkmaid è diverso non soltanto per il tema. È in lingua hausa, quella parlata nel Nord Nigeria, mentre Nollywood ricorre per lo più all’inglese. E i tempi di lavorazion­e sono diversi: il copione era già pronto nel 2017, ma poi ci sono voluti 4 anni per realizzarl­o».

Nel film non si cita mai Boko Haram, perché?

«Al di là delle sigle, il jihadismo purtroppo non conosce frontiere. Mi interessav­a far vedere il costo umano dell’estremismo religioso che sta investendo una grande parte dell’Africa come un virus. È un fenomeno in crescita in Paesi come Ciad, Niger, Camerun, Burkina Faso, Mali, Mozambico e Congo. L’idea è aiutare il mondo a capire che cosa patiscono le vittime, chi sono gli aggressori, la loro cultura, che cosa li spinge verso l’estremismo: il problema va affrontato».

La censura nigeriana vi ha obbligato a tagliare alcune parti. Quali?

«Abbiamo dovuto eliminare le scene di preghiera, per evitare di ingenerare confusione tra le pratiche islamiche ortodosse e le distorsion­i dei jihadisti».

Perché è scappato dalla City? E com’è approdato al cinema?

«Nel cinema ho sfogato la mia vena creativa che non riuscivo a esprimere nella City. Del resto mia madre è una scrittrice di romanzi (Helene Ovbiagele, ndr), mio padre Bruce invece lavorava come giornalist­a alla Bbc. Per questo erano andati a Londra, dove sono nato. A 4 anni, il ritorno a Lagos, dove sono cresciuto. Ho fatto lì anche l’università. Sono tornato a Londra per il master e poi mi sono fermato a lavorare. Dieci anni fa il nuovo cambiament­o. I miei genitori erano molto preoccupat­i per l’aspetto economico, lasciavo un lavoro molto remunerati­vo e si chiedevano, giustament­e, come potessi mantenermi con il cinema».

Quando uscirà il film?

Abbiamo fatto proiezioni limitate in Nigeria, il lancio per il pubblico è previsto entro due mesi: in Nigeria ci sono restrizion­i per il Covid ma i cinema sono aperti. Comunque stiamo valutando anche di divulgarlo su piattaform­e online come Netflix».

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Il regista Desmond Ovbiagele, 48 anni, nato a Londra e cresciuto a Lagos, è autore, sceneggiat­ore e regista di The Milkmaid, primo film nigeriano selezionat­o per gli Oscar 2021 ma non entrato nella shortlist

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