Corriere della Sera - La Lettura

Franco D’Andrea Aiuto! Ai giovani non piace il jazz

- Di HELMUT FAILONI

Compie ottant’anni un grande maestro.

Su di lui esce un libro con la prefazione del suo amico Enrico Rava e a «la Lettura» racconta come conquistò la musica da autodidatt­a, la prima band nell’Alto Adige diviso fra «italiani» e «tedeschi», lo stupore dei colleghi americani quando lo ascoltavan­o, l’avversione per la musica classica, i miti. Però... «Vedo tanti bravi nuovi jazzisti ma il pubblico è vecchio. Non c’è ricambio: un male»

Quando si pensa al pianoforte jazz in Italia, i nomi che vengono in mente sono certamente numerosi, molti di grande valore. Se tuttavia stringiamo l’inquadratu­ra del nostro metaforico zoom, c’è un nome che meglio di altri si riesce a focalizzar­e. È quello di Franco D’Andrea che lunedì 8 marzo compirà ottant’anni. Per l’occasione la casa editrice Edt gli ha dedicato un libro, Franco

D’Andrea. Un ritratto, in uscita a firma di Flavio Caprera, con prefazione di Enrico Rava. Nella sua lunga (e ancora vivissima) carriera, D’Andrea è passato attraverso tutti i punti cardinali del jazz, mantenendo sempre un linguaggio personale, una posizione di osservator­e clinico. Ogni volta che appoggia le mani sul pianoforte riesce a stupire anche chi lo ascolta e lo segue da anni. Possiede quel raro dono che è la grazia dell’imprevedib­ilità. Concezioni armoniche, timbriche, ritmiche, melodiche mettono in moto una musica originalis­sima di pulsante modernità e dalle strutture inaspettat­e. Ma nel fondo della pentola, ciò che dà sapore e innerva tutto, è il grande amore per il jazz tradiziona­le che il pianista e compositor­e si porta appresso da quando ero giovane. Come una foto ricordo che il tempo non riuscirà mai a ingiallire, perché ce l’ha sempre vicina al cuore.

«La Lettura» alla radio giovane. lo di ha Bolzano, raggiunto Ride: «Quand’ero il al mio telefono. capo ragazzino mi La diceva: voce è e incredibil­mente lavoravo “È uno perché Lei svantaggio è nessuno di Merano, ti per prenderà te a quei avere sul tempi questa serio». ultimo voce da avamposto bambino, italiano viveva? «Bene. in Si Alto praticava Adige. molto Quando sport. era Dopo bambino i compiti come uscivo si in bicicletta. del Sudtirolo Tanta natura. a quello Gli del atti Nord, terroristi­ci in Austria, per l’annessione non c’erano E «Avevo il jazz ancora 13 l’ha anni stati». scoperto quando da piccolo? ascoltai il primo disco di jazz». Cos’era?

in «Louis cui eseguiva Armstrong Basin con Street gli Blues». All Stars, un 78 giri del 1954, Le «Talmente piacque? tanto che volevo comprare una tromba... A Merano Munter, c’era dove un si trovava negozio del di jazz. dischi California­no in piazza dell’Arena, soprattutt­o: i titolari sostenevan­o che fosse più vendibile». Frequentav­a musicisti all’epoca?

«Appartenev­o al gruppo etnico italiano, perciò frequentav­o italiani, solo che trovavi sempre qualcuno pronto a fregarti in qualche maniera». In che senso fregarti?

«Gente di cui non ti potevi fidare fino in fondo. Allora mi sono detto: proviamo con i tedeschi». E come andò?

«Nella musica ho incontrato Konrad Plaickner, un personaggi­o, più un bandista in realtà, che amava molto il jazz e faceva anche il gioiellier­e. Mi fece entrare nella sua orchestra, tutta di tedeschi». Come fu accolto?

«I rapporti erano ottimi, salvo che in orchestra c’era uno di quelli radicali, un vero antitalian­o, che all’inizio non mi voleva. Ma Konrad mi difese».

Dopo Merano, le sue prime esperienze profession­ali furono a Roma con Nunzio Rotondo e poi con Gato Barbieri, ma prima di tutto passò da Bologna.

«Il primo festival vero a cui partecipai fu nel 1961. Avevo cominciato nel 1954 a interessar­mi di jazz. Nel frattempo da autodidatt­a avevo imparato a suonare il clarinetto, la tromba, il sax soprano, il contrabbas­so...». Che cos’ascoltava in quegli anni?

«Conoscevo un tizio che si chiamava Klaus Senoner, un venditore di Volkswagen e trombettis­ta jazz. Viveva a Monaco, in Germania, e mi portava novità discografi­che. Lì ho capito che esisteva del jazz a me ignoto». A chi si riferisce?

«Horace Silver, per esempio. Allora non capivo nulla armonicame­nte e così mi decisi di mettere finalmente le mani, con serietà, sul pianoforte». Sempre da autodidatt­a?

«Sì. Ho imparato in fretta. Dopo quattro anni ero anche credibile. Sembravo un pianista vero. A Bologna frequentav­o Lucio Dalla, che già all’epoca era molto avanti. Mi faceva ascoltare cose che per me erano lunari». Quali?

«Ascoltava Eric Dolphy, adorava Thelonious Monk». Cos’è stata Bologna per lei?

«L’allevatric­e del mio concetto di jazz. Avevo un quartetto con due musicisti bolognesi: partimmo per il festival di Bled (nell’attuale Slovenia, ndr). Era un posto importante allora, perché ci andava il maresciall­o Tito a fare le vacanze. Lì conobbi il mio amico Albert Mangelsdor­ff. In quel periodo ascoltai il pianista Jaki Byard: mi venne un colpo per quanto suonava bene». Poi si è spostato a Roma.

«Grazie a un contrabbas­sista che viveva a Bologna e che si chiamava Maurizio Majorana, conobbi Nunzio Rotondo, che mi prese come pianista». In tutto ciò lei aveva una madre pianista classica.

«Sì, aveva fatto l’ottavo anno di pianoforte al Conservato­rio e mi diceva sempre: “Eh, ma tu strimpelli”». E lei come la prendeva?

«Ci rimanevo malissimo, anche se mia mamma aveva ragione, perché i primi tempi ero un disastro».

L’ha introdotta ai pianisti classici?

«No, quando si metteva a suonare ero terrorizza­to e non mi piaceva niente di quello che faceva. In generale ho un cattivo rapporto con la musica classica. Non con la musica del Novecento, che considero una cosa a parte».

Che cosa non le piace della musica classica?

«Non sopporto il romanticis­mo, non sopporto il barocco, non ho imparato nulla da quella roba. Sono diventato musicista solo perché ho sentito il jazz. Punto».

Parliamo del Novecento accademico che le piace.

«Sono stato radicaliss­imo. L’idea di galleggiar­e nello spazio, che la musica non avesse tonalità... Fantastico... e poi le teorie di Arnold Schönberg mi piacevano tantissimo. Ma il mio preferito era Anton Webern».

Per quale motivo?

«Mi sembrava ingegnosis­simo il modo in cui metteva insieme cose sempliciss­ime, con molti spazi, pause, usando serie di cellule melodiche brevissime. John Coltrane nel jazz in fondo faceva la stessa cosa, usando però cellule basate sulle scale pentatonic­he».

Il Paese meno ospitale per il jazz dove è stato?

«Trovo fantastico che ovunque vai nel mondo trovi appassiona­ti di jazz, che formano una comunità solidissim­a alla quale non interessa se sei bianco, nero, giallo... Il jazz unisce. Mai avuto problemi. Ovunque andassi finivo in una specie di bolla piena di amanti di jazz che sono uguali in tutto il mondo. Il cuore è lì. Quando si parla di jazz con chi lo ama, di colpo svanisce tutto».

Esiste ancora la dicotomia fra jazz europeo e americano?

«Gli americani hanno cambiato mentalità. Negli anni Sessanta feci una registrazi­one con Frank Rosolino e Conte Candoli, che alla fine mi chiese: “Ma tu di dove sei?”. E io: “Sono italiano”. E lui: “Are you sure?” (“Sei sicuro?”, ndr). Per lui suonavo bene, quindi non potevo che essere americano. Con il tempo le cose sono cambiate e tutti hanno dovuto prendere atto che il jazz è un linguaggio e lo può suonare chiunque».

Un concerto indimentic­abile?

«Nel 1963 partecipai al festival di Juan-les-Pins. Fu l’anno che venne Miles Davis con il suo gruppo nuovo: sembravano marziani. Mi piaceva quello che facevano ma non si capiva un tubo… Alla batteria c’era Tony Williams. Ero nel backstage quando prese un assolo nel brano Walkin’. Vedevo Miles che fissava questo “frugoletto” di 17 anni che faceva cose assolutame­nte straordina­rie sulla batteria. Miles era immobile, con gli occhi sgranati a guardarlo. La situazione mi ricorda quando chiesero a Fulvio Collovati che cosa avesse fatto in campo quando aveva Maradona come avversario, e lui rispose: “Lo guardavo”. Come a dire: che cos’altro c’era da fare? Guardare e imparare».

È un nostalgico musicalmen­te?

«No, no, no. Per carità... Ci sono personaggi del passato che mi sono rimasti nel cuore, certo, ma guardo il presente. Faccio una piccola digression­e. Ci sono tre cose nella mia vita che mi hanno tenuto in scacco. Una è il pianista Andrew Hill: negli anni Sessanta faceva cose straordina­rie, mi piaceva ma non capivo. Ogni 5 anni per almeno 25 anni, ci riprovavo e mi dicevo: “Magari sono cresciuto, riproviamo ad ascoltare”. Beh, niente. La seconda cosa riguarda due solisti di balafon (una sorta di xilofono, ndr) del Camerun, dove nel 1987 sono andato a suonare. Quando li ascoltavo non riuscivo a capire dove cominciava esattament­e la figurazion­e ritmica. L’ultimo è stato Andrea Ayassot, sassofonis­ta, un vero intellettu­ale del jazz, con il quale ho suonato 20 anni, che ha teorie molto particolar­i sulle connession­i fra gli intervalli e l’idea ritmica, che ha provato a spiegarmi».

Com’è andata con Andrew Hill alla fine?

«Sono venuto a capo delle sue tecniche, ma solo due settimane fa. Dopo che l’ho capito è diventato ancora di più un grande per me. Le cose che incise per la Blue Note fra il ’63 e il ’69 sono assolutame­nte fantastich­e».

Dal punto di vista dell’attualità invece?

«Nell’attualità penso che Craig Taborn sia un personaggi­o di primo piano. Il disco Ecm in quartetto The Shining One, del 2017, è sempliceme­nte fantastico».

Andiamo un po’ più indietro negli anni...

«Allora cito Don Byron, che ha dato il meglio di sé negli anni Novanta fino al 2001, in cui fece un disco per la Blue Note, You Are #6, prosecuzio­ne di Music for Six Musicians del 1995. Sono fantastici entrambi per arrangiame­nto, gusto, novità, idee ritmiche».

Ha letto la prefazione del libro a lei dedicato che è firmata da Enrico Rava?

«Ancora no. Enrico ed io abbiamo un’amicizia dalla notte dei tempi. Abbiamo iniziato nel 1965. Anche se non ci vediamo per 10 anni, il giorno che ci incontriam­o di nuovo è come se ci fossimo visti la sera prima».

Rava, oltre a elogiarla, scrive che lei nel mondo del jazz è l’incorrutti­bile. Mai fumato una sigaretta (per non parlare d’altro), bevuto un bicchiere di troppo...

«Confermo... Sì, sì, è vero» (ride).

Che cosa la preoccupa per il futuro del jazz?

«Mi preoccupa molto che nel pubblico del jazz manchi il cambio generazion­ale. Il pubblico del jazz non è un pubblico giovane. Eppure è strapieno di giovani bravissimi che suonano. Ma non hanno amici coetanei che vanno ad ascoltarli? Evidenteme­nte no e questo significa che i jazzisti giovani sono degli isolati. È una notizia molto triste. Dovremmo inventare qualcosa, avvicinare i giovani al jazz, fare proselitis­mo».

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 ??  ?? FLAVIO CAPRERA Franco D’Andrea. Un ritratto Prefazione di Enrico Rava EDT Pagine 250, € 20 In libreria dall’8 marzo
Il musicista Franco D’Andrea (foto © Fondazione Musica per Roma) è nato a Merano l’8 marzo 1941. Pianista e compositor­e, ha inciso oltre 160 dischi in Italia e all’estero, collaboran­do con i musicisti di jazz più importanti, vincendo premi e svolgendo anche attività didattica (dal 1978). Il trio nuovo è New Things (con Enrico Terragnoli e Mirko Cisilino), ma guida anche un sestetto, un ottetto (è da poco uscito Intervals I e II per Parco della Musica Records), un quartetto, un ensemble di 11 elementi e il progetto speciale Trio Music
FLAVIO CAPRERA Franco D’Andrea. Un ritratto Prefazione di Enrico Rava EDT Pagine 250, € 20 In libreria dall’8 marzo Il musicista Franco D’Andrea (foto © Fondazione Musica per Roma) è nato a Merano l’8 marzo 1941. Pianista e compositor­e, ha inciso oltre 160 dischi in Italia e all’estero, collaboran­do con i musicisti di jazz più importanti, vincendo premi e svolgendo anche attività didattica (dal 1978). Il trio nuovo è New Things (con Enrico Terragnoli e Mirko Cisilino), ma guida anche un sestetto, un ottetto (è da poco uscito Intervals I e II per Parco della Musica Records), un quartetto, un ensemble di 11 elementi e il progetto speciale Trio Music
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