Corriere della Sera - La Lettura
Il giorno in cui la scienza cedette all’improbabile
Un anno dopo il terremoto, nel febbraio 2012, sono andato in Giappone come inviato di questo supplemento per raccontare la devastazione lasciata dalla scossa, dallo tsunami e dal danneggiamento di quattro reattori su sei dell’impianto elettronucleare di Daiichi. La ragione profonda che mi ha spinto a farlo resta per me abbastanza misteriosa. In quegli anni escogitavo modi eccentrici di mettermi in pericolo. A livello conscio, però, ero alla ricerca di un cambio di opinione.
È avvenuto. Le case ridotte a mucchi lungo la costa, la scuola ancora infestata degli spettri bambini di Ishinomaki, camminare sul confine militarizzato e inquietante della zona rossa con un occhio al dosimetro hanno prodotto in me una trasformazione. Se prima di andare a Fukushima consideravo il nucleare un’opportunità negata all’Italia, se l’amore per la fisica si traduceva in un’automatica fiducia nella nostra capacità di governare l’energia del nucleo atomico, dopo quel viaggio è rimasto solo un pressante senso di minaccia.
Eppure, delle quasi 20 mila vittime del cataclisma giapponese, quelle ascritte ufficialmente all’incidente della centrale nucleare sono: una. Un addetto alla manutenzione del reattore 1, morto di cancro ai polmoni nel 2016. È possibile oppure si tratta di una sottostima plateale? Difficile dirlo. Accertare le vittime di un evento nucleare è complesso. Per esempio, non c’è modo di conteggiare con precisione le morti causate dalle evacuazioni (sull’ordine del migliaio a Fukushima, secondo alcuni). Basti pensare che il dibattito sul numero di decessi causati dall’unico disastro con cui Fukushima condivide il livello massimo di gravità sulla scala Ines, Chernobyl, è ancora aperto e destinato a rimanere tale: alcuni parlano di 4 mila vittime complessive, altri di 60 mila.
Di sicuro, gli effetti di un incidente nucleare appaiono sempre minori di quanto ragionevolmente sono, perché agiscono per la maggior parte nel medio e lungo termine, e agiscono invisibilmente. La contaminazione è capace di lavorare con tenacia per anni, nei tessuti del corpo, perfino nelle generazioni successive, arrecando danno poco per volta.
Nel tempo sono state chiarite le inadempienze umane che hanno reso possibile l’incidente di Fukushima. Ma i meltdown di Daiichi si sono prodotti innanzitutto per cause naturali e imponderabili: un terremoto straordinariamente forte e uno tsunami di violenza eccezionale. Due eventi estremi associati fra loro. Si poteva immaginare la scossa, infatti i dispositivi di protezione erano attivi; si poteva immaginare lo tsunami, per il quale esistevano barriere e protocolli; e si sa da sempre che i terremoti provocano gli tsunami. Ma quel terremoto? Quell’onda? L’incidente di Fukushima, anche esaminato a posteriori, rimane una combinazione di circostanze altamente improbabile. Ecco l’elemento più difficile di cui tenere conto quando si ragiona sul nucleare. Nonostante la gradualità dei suoi effetti, un disastro nucleare è sempre una manifestazione eclatante di non-gradualità, un evento che eccede quanto era prevedibile, deborda dagli intervalli di confidenza, sfugge agli scenari.
Nella Sesta estinzione Elizabeth Kolbert racconta la difficoltà con cui il concetto di catastrofe, di non-gradualità appunto, si è fatto spazio nel pensiero scientifico, quanto c’è voluto perché venissero accettate idee radicali come l’estinzione delle specie o il meteorite che spazzò via i dinosauri. Prima di Cuvier, ad esempio, era impensabile che animali che avevano popolato la terra semplicemente non esistessero più. Ma il pregiudizio della gradualità sembra essere iscritto, prima che nella nostra cultura, nella nostra psiche. Fatichiamo a prendere in seria considerazione ciò che ci appare altamente improbabile, compresi i disastri nucleari. Non li dichiariamo impossibili, ma li consideriamo tali nella prassi.
Così, dal 2011 a oggi, la produzione di energia elettrica estratta dall’atomo è cresciuta costantemente, con la sola eccezione del 2019. La costruzione di 54 nuovi reattori è in corso in 19 Paesi, di cui quattro sono alla loro prima esperienza. Davo per scontato che l’incidente di Fukushima avesse imposto una frenata, anzi un’inversione a U nello sfruttamento dell’atomo, e che il percorso inaugurato dalla Germania — uscire dal nucleare entro il 2022 — fosse a grandi linee condiviso a livello mondiale. E invece. La Germania è un’eccezione, il nucleare è in ascesa quasi ovunque, soprattutto e paradossalmente in Asia. Quello che percepivo come un cambio di rotta generale, in realtà, era avvenuto soltanto in me.
Nel frattempo, però, la non-gradualità sembra diventata il tratto distintivo della nostra epoca. Assistiamo con frequenza sempre maggiore a stravolgimenti che violano la logica della probabilità, perfino della verosimiglianza. L’11 settembre. Lehmann Brothers. Fukushima. Il covid. E oltre: la crisi ambientale. Metterli in fila così può sembrare un gioco prospettico, ma questi eventi non hanno in comune solo il fatto di essere estremi (anzi più che estremi: fuori scala, fuori dai parametri, non quantificabili perché al di là delle tacche degli strumenti di misurazione). Hanno in comune l’essere legati in qualche modo alla crescente globalizzazione. Rispetto a 100 anni fa, o anche solo a 40, oggi è molto più facile che si producano fenomeni di accumulo incontrollato che diventano rapidamente globali. Reazioni a catena che una volta innescate sono dolorosissime da arrestare. In economia, nella salute, nell’ambiente, nella tecnologia, anche nella politica. Può un mondo così compromesso permettersi ancora il rischio dell’energia nucleare?
I bambini e le maestre della scuola di Ishinomaki avevano accanto una collina su cui avrebbero potuto mettersi in salvo facilmente. Era scattato l’allarme per il terremoto e in seguito anche quello per lo tsunami, ma gli insegnanti hanno tentennato. La collina sembrava davvero troppo, l’acqua non poteva arrivare così in alto. E invece. Chi ha pensato di salire sul tetto, al di sopra del livello di qualsiasi onda anomala, è stato più prudente. Non poteva contemplare anche l’eventualità che le macchine trasportate dal mare si sarebbero schiantate contro l’edificio mandandolo a fuoco. Conseguenze di conseguenze di conseguenze. E invece.
«E invece»: quel che mi resta del viaggio a Fukushima dopo un decennio è forse racchiuso in queste due parole. Un sisma di quella portata e un’onda del genere non erano prevedibili. E invece. La centrale era controllata, era sicura, era efficiente, era giapponese! E invece. Forse, dopo un anno tutto passato fuori dall’ordinario, siamo più disposti di prima ad accettare le implicazioni di questa espressione. Cosa cambiare allora se i segnali intorno ci ripetono che la nostra epoca richiede di aprirci all’ipotesi del dirompente, se le scienze ci avvisano che l’estremo potrebbe diventare la norma e l’improbabile sempre più probabile? Come si sviluppa un senso nuovo per cogliere ciò che ora non riusciamo nemmeno a immaginare?