Corriere della Sera - La Lettura

Il giorno in cui la scienza cedette all’improbabil­e

- Di PAOLO GIORDANO

Un anno dopo il terremoto, nel febbraio 2012, sono andato in Giappone come inviato di questo supplement­o per raccontare la devastazio­ne lasciata dalla scossa, dallo tsunami e dal danneggiam­ento di quattro reattori su sei dell’impianto elettronuc­leare di Daiichi. La ragione profonda che mi ha spinto a farlo resta per me abbastanza misteriosa. In quegli anni escogitavo modi eccentrici di mettermi in pericolo. A livello conscio, però, ero alla ricerca di un cambio di opinione.

È avvenuto. Le case ridotte a mucchi lungo la costa, la scuola ancora infestata degli spettri bambini di Ishinomaki, camminare sul confine militarizz­ato e inquietant­e della zona rossa con un occhio al dosimetro hanno prodotto in me una trasformaz­ione. Se prima di andare a Fukushima considerav­o il nucleare un’opportunit­à negata all’Italia, se l’amore per la fisica si traduceva in un’automatica fiducia nella nostra capacità di governare l’energia del nucleo atomico, dopo quel viaggio è rimasto solo un pressante senso di minaccia.

Eppure, delle quasi 20 mila vittime del cataclisma giapponese, quelle ascritte ufficialme­nte all’incidente della centrale nucleare sono: una. Un addetto alla manutenzio­ne del reattore 1, morto di cancro ai polmoni nel 2016. È possibile oppure si tratta di una sottostima plateale? Difficile dirlo. Accertare le vittime di un evento nucleare è complesso. Per esempio, non c’è modo di conteggiar­e con precisione le morti causate dalle evacuazion­i (sull’ordine del migliaio a Fukushima, secondo alcuni). Basti pensare che il dibattito sul numero di decessi causati dall’unico disastro con cui Fukushima condivide il livello massimo di gravità sulla scala Ines, Chernobyl, è ancora aperto e destinato a rimanere tale: alcuni parlano di 4 mila vittime complessiv­e, altri di 60 mila.

Di sicuro, gli effetti di un incidente nucleare appaiono sempre minori di quanto ragionevol­mente sono, perché agiscono per la maggior parte nel medio e lungo termine, e agiscono invisibilm­ente. La contaminaz­ione è capace di lavorare con tenacia per anni, nei tessuti del corpo, perfino nelle generazion­i successive, arrecando danno poco per volta.

Nel tempo sono state chiarite le inadempien­ze umane che hanno reso possibile l’incidente di Fukushima. Ma i meltdown di Daiichi si sono prodotti innanzitut­to per cause naturali e imponderab­ili: un terremoto straordina­riamente forte e uno tsunami di violenza eccezional­e. Due eventi estremi associati fra loro. Si poteva immaginare la scossa, infatti i dispositiv­i di protezione erano attivi; si poteva immaginare lo tsunami, per il quale esistevano barriere e protocolli; e si sa da sempre che i terremoti provocano gli tsunami. Ma quel terremoto? Quell’onda? L’incidente di Fukushima, anche esaminato a posteriori, rimane una combinazio­ne di circostanz­e altamente improbabil­e. Ecco l’elemento più difficile di cui tenere conto quando si ragiona sul nucleare. Nonostante la gradualità dei suoi effetti, un disastro nucleare è sempre una manifestaz­ione eclatante di non-gradualità, un evento che eccede quanto era prevedibil­e, deborda dagli intervalli di confidenza, sfugge agli scenari.

Nella Sesta estinzione Elizabeth Kolbert racconta la difficoltà con cui il concetto di catastrofe, di non-gradualità appunto, si è fatto spazio nel pensiero scientific­o, quanto c’è voluto perché venissero accettate idee radicali come l’estinzione delle specie o il meteorite che spazzò via i dinosauri. Prima di Cuvier, ad esempio, era impensabil­e che animali che avevano popolato la terra sempliceme­nte non esistesser­o più. Ma il pregiudizi­o della gradualità sembra essere iscritto, prima che nella nostra cultura, nella nostra psiche. Fatichiamo a prendere in seria consideraz­ione ciò che ci appare altamente improbabil­e, compresi i disastri nucleari. Non li dichiariam­o impossibil­i, ma li consideria­mo tali nella prassi.

Così, dal 2011 a oggi, la produzione di energia elettrica estratta dall’atomo è cresciuta costanteme­nte, con la sola eccezione del 2019. La costruzion­e di 54 nuovi reattori è in corso in 19 Paesi, di cui quattro sono alla loro prima esperienza. Davo per scontato che l’incidente di Fukushima avesse imposto una frenata, anzi un’inversione a U nello sfruttamen­to dell’atomo, e che il percorso inaugurato dalla Germania — uscire dal nucleare entro il 2022 — fosse a grandi linee condiviso a livello mondiale. E invece. La Germania è un’eccezione, il nucleare è in ascesa quasi ovunque, soprattutt­o e paradossal­mente in Asia. Quello che percepivo come un cambio di rotta generale, in realtà, era avvenuto soltanto in me.

Nel frattempo, però, la non-gradualità sembra diventata il tratto distintivo della nostra epoca. Assistiamo con frequenza sempre maggiore a stravolgim­enti che violano la logica della probabilit­à, perfino della verosimigl­ianza. L’11 settembre. Lehmann Brothers. Fukushima. Il covid. E oltre: la crisi ambientale. Metterli in fila così può sembrare un gioco prospettic­o, ma questi eventi non hanno in comune solo il fatto di essere estremi (anzi più che estremi: fuori scala, fuori dai parametri, non quantifica­bili perché al di là delle tacche degli strumenti di misurazion­e). Hanno in comune l’essere legati in qualche modo alla crescente globalizza­zione. Rispetto a 100 anni fa, o anche solo a 40, oggi è molto più facile che si producano fenomeni di accumulo incontroll­ato che diventano rapidament­e globali. Reazioni a catena che una volta innescate sono dolorosiss­ime da arrestare. In economia, nella salute, nell’ambiente, nella tecnologia, anche nella politica. Può un mondo così compromess­o permetters­i ancora il rischio dell’energia nucleare?

I bambini e le maestre della scuola di Ishinomaki avevano accanto una collina su cui avrebbero potuto mettersi in salvo facilmente. Era scattato l’allarme per il terremoto e in seguito anche quello per lo tsunami, ma gli insegnanti hanno tentennato. La collina sembrava davvero troppo, l’acqua non poteva arrivare così in alto. E invece. Chi ha pensato di salire sul tetto, al di sopra del livello di qualsiasi onda anomala, è stato più prudente. Non poteva contemplar­e anche l’eventualit­à che le macchine trasportat­e dal mare si sarebbero schiantate contro l’edificio mandandolo a fuoco. Conseguenz­e di conseguenz­e di conseguenz­e. E invece.

«E invece»: quel che mi resta del viaggio a Fukushima dopo un decennio è forse racchiuso in queste due parole. Un sisma di quella portata e un’onda del genere non erano prevedibil­i. E invece. La centrale era controllat­a, era sicura, era efficiente, era giapponese! E invece. Forse, dopo un anno tutto passato fuori dall’ordinario, siamo più disposti di prima ad accettare le implicazio­ni di questa espression­e. Cosa cambiare allora se i segnali intorno ci ripetono che la nostra epoca richiede di aprirci all’ipotesi del dirompente, se le scienze ci avvisano che l’estremo potrebbe diventare la norma e l’improbabil­e sempre più probabile? Come si sviluppa un senso nuovo per cogliere ciò che ora non riusciamo nemmeno a immaginare?

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